Il testo del primo corso istituzionale di diritto criminale tenuto a Pisa nel 1768 da Cesare Alberigo Borghi

PROGETTO DI EDIZIONE DEL DR. FEDERICO TACCINI

Nel quadro dei lavori del Progetto Carmignani 2000, che dovrebbero portare all'organizzazione di un convegno internazionale in Pisa sulla figura di Giovanni Carmignani, Iura Communia mette a disposizione degli studiosi un primo nucleo di materiali di documentazione, costituito dal testo delle Instituzioni criminali di C.A. Borghi, un primo interessante esperimento di elaborazione dottrinale, nata in quell'àmbito di attività e di produzione letteraria che potrebbe forse definirsi come di diritto forense, cui appartennero anche figure come Vincenzo Guglielmi, Marc’Antonio Savelli e Lorenzo Cantini.

Il testo qui proposto è soltanto una base di lavoro ed un primo progetto di edizione, fornito di un provvisorio apparato critico, la cui elaborazione è in corso a cura del Dr. Federico Taccini, che ha redatto questa stesura preliminare e che sarà lieto assieme a Iura Communia di ogni critica, suggerimento ed osservazione che gli si vorrà inviare (spedire a montorzi@idr.unipi.it )
 
La sapienza pisana INSTITUZIONI CRIMINALI

INSTITUZIONI CRIMINALI SECONDO L’USO DI TOSCANA DELL’ ECC.MO SIGNOR DOT.RE CESARE BORGHI DI PISA COLL’AGGIUNTA DELLE DEFINIZIONI DEI DELITTI E LORO ESTREMI

INDICE

Introduzione

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La vita di Cesare Alberigo Borghi e le vicende della sua famiglia

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Cesare Alberigo Borghi nasce e viene battezzato a Pisa il 17 Luglio 1710 (1). La madre, Camilla, che fa parte della nobile famiglia dei Conti Balbiani, pur essendo originaria di Milano, risiede da molto tempo a Livorno.

Il padre, Camillo Ranieri, anch’egli nobile, è un capitano nato nel 1676 che godrà dell'Anzianato nel 1708, nel 1713, nel 1718, nel 1724, nel 1725, nel 1737 e nel 1743 (2). E’ spesso citato per avere scritto nel 1713 L'oplomachia pisana cioè la battaglia del ponte di Pisa.

L'anno successivo la coppia avrà anche un altro figlio, Pietro Lodovico, che poi diventerà decano della Primaziale di Pisa.

Anche Cesare Borghi sarà nominato Priore degli Anziani come suo padre, e per ben undici volte durante tutto il corso della sua vita (3). La prima addirittura a diciassette anni, e questo dimostra come spesso a tali cariche non corrispondesse un ruolo effettivo nel governo della città, in quanto la maggior parte delle decisioni venivano prese nella capitale Firenze, dove l'ordinamento politico, amministrativo ed economico della Toscana medicea accentrava una massa imponente di interessi e di poteri (4).

Il 15 Novembre 1725 (5) Cesare Borghi si iscrive all'Università di Pisa dove si addottora in utroque iure il 28 Ottobre 1730, con una tesi i cui puncta sono "Cap. is qui fidem distinctio 30, de sponsalibus et matrimonibus" e "Lex is cui bonis, de verborum obbligationibus" (6). Come promotore ha Giacomo Tiburzio Tommaso Monti di Pisa, lettore di istituzioni civili (7).

Borghi inizia la sua carriera di docente leggendo istituzioni civili dal 1733-34 al 1735-36, per passare alla lettura pomeridiana delle istituzioni canoniche dal 1736-37 al 1741-42.

Di questo secondo periodo di insegnamento ci fornisce qualche notizia il Fabroni (8) il quale, al cap. X della sua Historia Academiae Pisanae, dice che in quel periodo vi erano due, tre ed anche quattro interpreti di istituzioni canoniche: tra questi pure Borghi è degno di essere ricordato. Dal 1742-43 il Borghi assume l’incarico di professore di diritto criminale, ed occuperà questa cattedra fino all'anno accademico 1782-83, cioè praticamente fino alla morte.

Intanto, continua a ricoprire periodicamente l'incarico di Priore e si sposa con Luisa, nobile pisana, figlia del Cavalier Francesco Sighieri Bizzarri che gli darà due figli: Camillo Ranieri nato nel 1744 e Maria Anna nata nel 1747 (9).

Riguardo alla femmina non si hanno informazioni, ma sappiamo dal Poligrafo Gargani (10) che il 22 Settembre 1793 Camillo Borghi prende possesso della carica di operaio della Primaziale di Pisa.

Inoltre nel 1802 fa costruire un altare in pietra, a sue spese, nella chiesa di S. Cecilia a Pisa dedicato a S. Camillo De Lellis. L'altare reca, in basso a sinistra, l'arme della famiglia Borghi ed è sormontato da una tela del pittore pisano Giovan Battista Tempesti, raffigurante Gesù e S. Camillo De Lellis che probabilmente i Borghi consideravano loro protettore.

Tornando a Cesare Borghi dobbiamo dire che la sua esistenza prosegue scandita dai ritmi della vita universitaria, senza fatti degni di menzione.

Nel 1754, in ossequio al Regolamento della nobiltà e della cittadinanza emanato da Francesco Stefano quattro anni prima, il Borghi avanza domanda perché a lui ed alla sua famiglia venga ufficialmente riconosciuta la condizione nobiliare.

Allega l'arme familiare, l'albero genealogico, i documenti comprovanti i godimenti di onori e le fedi di battesimo. Però non riesce ad ottenere la qualifica di Patrizio, perché non è in grado di dimostrare che la nobiltà della sua famiglia persiste da almeno 200 anni senza discontinuità (11).

Il fondo archivistico che fornisce queste notizie dice anche che il capostipite era un certo Baccio Dal Borgo, vissuto nel Trecento, ma che a partire da Giulio Cesare, nato nel 1636, la famiglia cambia cognome e da Dal Borgo diventa Borghi.

Pochi anni dopo lo svolgimento della pratica suddetta il Borghi, precisamente nel 1756-57, diviene assessore nel Foro Accademico.

Nel 1760-61 detta e spiega per la prima volta, a casa sua, le Institutiones iuris criminalis di cui è autore. Quindi continua le lecture universitarie dal Codice e dal Digesto, come aveva fatto fino ad allora, ed inizia la diffusione tra gli studenti di questa sua opera di pratica criminale (12).

Quando poi nel 1763-64 il diritto penale di impostazione filosofica (13) diventa insegnamento ufficiale nell'Università di Pisa, accanto alla cattedra di res criminales viene posta quella di institutiones criminales.

La seconda è affidata a Filippo della Pura di Castelfiorentino, ed il Borghi prosegue solo la lectura "secondo il vecchio uso"(14), e la mantiene fino alla fine della sua carriera.

Un'altra fonte che ci parla dei Borghi è il Luchetti che, nel suo manoscritto intitolato Memorie dei suoi tempi (15), annota l'estrazione di Cesare Borghi tra i Priori degli Anziani per l'anno 1776.

Inoltre, nel 1765, anno in cui era Priore degli Anziani, insieme ad un certo Lanfranchi Rossi Borghi viene scelto per fare delle preghiere affinché si plachi l'ira di Dio. A queste suppliche di carattere pubblico si era ricorsi perché la raccolta della messe era impedita dalla "continuata pioggia" (16).

In alcuni testi il Borghi è chiamato "avvocato" ma non è stato possibile confermare altrimenti la notizia che egli abbia effettivamente esercitato la professione forense in qualche Tribunale.

Muore il 4 Gennaio 1783 nella sua casa nella Parrocchia di S. Cecilia, dove aveva sempre vissuto. Alle esequie partecipano tutti i professori dell'Ateneo pisano.

Luchetti dice (17) che Cesare Borghi viene sepolto nella Chiesa dei Chierici Regolari di S. Frediano, dove si trova la tomba di famiglia; attualmente però, in questa Chiesa non c'è più né la tomba del Borghi né quella dei suoi congiunti.

A distanza di qualche anno muore anche la moglie, Luisa Sighieri Bizzarri, la quale si spegne il 5 febbraio 1789 all'età di 78 anni (18).

L'unica descrizione delle qualità umane e della personalità del Borghi ci viene dal Fabroni, che lo ritrae come uomo integro, religioso, giusto e diligentissimo in ogni affare per aumentare il patrimonio familiare (19).

L'insegnamento del diritto criminale nelle Università di Pisa, Firenze e Siena nel Settecento

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A Pisa la prima cattedra di diritto criminale fu istituita nel 1544 per decreto di Cosimo I dei Medici, e fu affidata ad un certo Uberto o Roberto Vanni di Pisa (20).

Secondo il Fabroni (21) il provvedimento fu preso ad imitazione di altre Università ad esempio quella di Padova, in cui leggeva un grande giurista come Tiberio Deciani (22).

L'insegnamento consisteva in letture e ripetizioni di alcuni testi di diritto romano, in particolare il Digesto ed il Codice.

All'inizio del secolo XVIII il metodo continuava ad essere quello delle lecturae.

La prima figura che troviamo, in ordine cronologico, a ricoprire la cattedra di diritto criminale è Marzio Venturini.

Si tratta di un cavaliere di Santo Stefano originario di Pontremoli, anche se certe fonti (23) lo qualificano come "pisano" probabilmente per la sua appartenenza a tale ordine

Venturini regge la cattedra ininterrottamente dal 1703 al 1742 (24), leggendo ad anni alterni dalla lex iulia, dal de poenis, dal de quaestionibus o dalla lex cornelia de sicariis.

Riguardo alle opere di Venturini bisogna dire che le fonti consultate non citano nessun suo lavoro di argomento criminalistico (25); di lui si conservano alcune decisioni in materie civili provenienti dai Tribunali di Bologna, Genova, Firenze e Lucca, in cui Venturini era stato auditore (26). I suoi interessi prevalentemene civilistici, peraltro, sono documentati dal fatto che egli sia statoQuesta sua produzione però non ci deve stupire più di tanto perché egli era stato lettore di istituzioni civili dal 1688-89 al 1699-700 e straordinario di diritto civile dal 1700-1701 al 1701-1702 nell'Ateneo pisano (27).

Nel 1733 a Venturini viene affiancato Giovanni Agostino Padroni di Livorno, il quale dal 1733-34 al 1734-35 occupa un posto di lettore straordinario di res criminales; mentre dal 1735-36 al 1736-37 è ordinario di diritto criminale (28).

Finalmente, dal 1742-43 al 1782-83, abbiamo Cesare Borghi indicato come professore di diritto criminale.

Dopo i primi anni di semplici ripetizioni dei testi romani, a partire dall'anno accademico 1760-61, oltre a continuare in pubblico le lezioni di gius criminale (29), svolge a casa un "corso filosofico di diritto penale sotto forma di istituzioni composte secondo ragione sua" (30) . Il titolo del corso è Institutiones iuris criminalis.

L’opera è stata studiata da Francesco Carrara (31) e, oltre cento anni dopo, da Tullio Padovani (32). I loro giudizi non sono molto positivi in quanto ne criticano la sommarietà, la sciatteria formale e la ristrettezza di orizzonti.

Queste valutazioni sono senz'altro da condividere, ma certamente bisogna anche tener conto delle condizioni dell'insegnamento del diritto criminale, dei metodi didattici fino a quel momento adottati, e del ruolo secondario assegnato a tale disciplina nei piani di studio dell'Università di Pisa.

Infatti, fino alle riforme leopoldine il diritto criminale era una materia facoltativa, come il diritto pubblico, il diritto feudale e le pandette (33).

Poi le leggi del 10 Luglio 1771 e del 5 Aprile 1772 nel regolare la professione notarile stabilirono, seguendo le idee avanzate dalla deputazione incaricata dal Granduca di fare proposte per una ristrutturazione del sistema degli studi, che gli aspiranti notai per gli uffici civili e criminali dovessero avere le fedi con le attestazioni giurate anche di un professore di istituzioni criminali (34).

Finalmente col Regolamento per la funzione accademica del dottorato del 1786, il diritto criminale fu incluso tra le materie qualificanti con frequenza obbligatoria, necessarie per addottorarsi in Giurisprudenza (35).

Quindi, se paragonato ai trattati dei grandi penalisti dell'Ottocento il libro del Borghi pare ben misera cosa ma, se inquadrato nel contesto in cui è stato scritto, cioè quello di un diritto criminale non ancora affrancato dalle influenze del diritto civile (36) e sclerotizzato dall'ormai anacronistico metodo delle ripetizioni, appare di certo un passo avanti verso una diversa impostazione dei problemi penalistici.

Infatti, un po’ per ossequio all'autore, un po’ per la validità e la discreta novità che il testo rappresentava nel 1763 viene costituita a Pisa una cattedra di istituzioni criminali, e viene affidata a Filippo Della Pura di Castelfiorentino, con l'obbligo di dettare le Instituzioni criminali. Al Borghi resta la cattedra di res criminales (37).

Il Della Pura può considerarsi una di quelle figure di giuristi, ben delineate dal Carranza (38), dall'Anzilotti (39), che si istruirono nell'Ateneo pisano e poi si distinsero nei Tribunali e nell'amministrazione di tutta la Toscana.

Si laurea nel 1757 a Pisa, dove era stato scolaro del Collegio Imperiale, con Antonio Maria Vannucchi come promotore (40).

In quell’ ambiente apprende i principi della scuola storico-critica che riteneva fondamentale la conoscenza della storia dei popoli per avere maggiore padronanza del diritto (41).

Il gius pubblico e quello naturale erano considerate le vere fonti della Giurisprudenza, e soprattutto gli unici strumenti validi per capire l'intrinseca realtà delle istituzioni e che cosa sia giusto ed equo nell'universo giuridico (42).

Il Della Pura trasfonde tali idee nella Dissertazione sopra il Gius Pubblico del 1757, dedicata al Duca D. Avelardo Salviati (43).

Il libro è ricco di citazioni di pensatori europei che riscuotevano grandi simpatie presso gli intellettuali toscani (44), come Voltaire, Locke, Grozio, Pufendorf e soprattutto Montesquieu.

Della Pura definisce anche il diritto criminale come quella parte "nobilissima del gius pubblico" (45) che cerca di mantenere la pubblica tranquillità, e si serve delle pene come "medicina dell'umana malizia" (46).

Ma il brano più interessante del saggio è quello in cui si parla della Giurisprudenza, perché emerge in maniera chiara la concezione filosofica che Della Pura ha del diritto penale.

Per lui, infatti, la "vera e critica Giurisprudenza" (47) non è uno studio che "deduce il suo pregio dall'unione di certi fatti separati, o dall'ammasso di glosse, plebisciti, e senatus consulti indigestamente distribuiti" ma è una disciplina che ha il "pregio di conoscere primieramente gli attributi dell'anima umana e lo spirito delle nazioni"(48), per creare una legislazione capace di controllare ed indirizzare le passioni umane.

Conclude esortando i giovani a studiare i grandi filosofi che ha menzionato, imparando da loro a "conoscere a fondo l'uomo, le cause dei governi, le ragioni e le proporzioni delle leggi"(49).

Solo così si incammineranno verso la vera Giurisprudenza," da cui sono lontanissimi tutti quei giuristi che non fanno altro che "ripetere le cose dette e ridette fin da quindici secoli"(50).

Dal 1783-84 non troviamo più né Borghi né Della Pura. Il primo perché è deceduto il 4 Gennaio 1783; il secondo perché è stato nominato Residente Consolare (51).

La cattedra va a Pietro Ranucci di Città di Castello che la terrà, leggendo le sole Instituzioni criminali (52), fino al 1792 anno in cui egli diventa lettore di diritto pubblico al posto del Lampredi (53).

Le opere dite del Ranucci sono De iure naufragii, Lucca 1778; Osservazioni sopra i fidecommessi, Pisa 1791; Elogio di Gianmaria Lampredi, Firenze 1793. Inoltre Ranucci è autore di una recensione al codice leopoldino pubblicata nel "Giornale de’ letterati" pisano (54). L’articolo mostra piena adesione alle riforme granducali, anche se si riscontrano alcune riserve sulla questione dell’abolizione della pena di morte. Egli ritiene, sulla scia delle idee di Lampredi (55), che la pena di morte sia legittima ex iure necessitatis, e che il sovrano abbia il diritto di comminarla per perseguire finalità di intimidazione generale. Secondo lui, infatti, poiché la giustificazione della eliminazione della pena di morte era stata rinvenuta in un dato empirico, cioè il "dolce e mansueto carattere della nazione", il mutare della realtà dei fatti avrebbe legittimato una scelta diversa.

Tale posizione verrà sostenuta dal Ranucci anche in seguito, quando sarà uno dei principali ispiratori della cosiddetta Fernandina, provvedimento con cui si reintrodusse la pena capitale in Toscana (56). Nel 1798 egli diviene auditore dell’ordine di Santo Stefano, e muore nel Casentino nel settembre dello stesso anno (57).

Intanto nel 1792 la cattedra di res criminales era scomparsa e come dice Carrara "tutta la dottrina penale a Pisa si concentra nell'insegnamento filosofico" (58).

Al Ranucci segue Tito Manzi che legge le Instituzioni criminali dal 1793 al 1801. Il Manzi, per ottenere la cattedra, aveva dovuto superare alcuni agguerriti concorrenti tra cui Giandomenico Romagnosi (59).

A causa delle sue idee politiche Manzi viene cancellato dal ruolo da una delibera del Senato fiorentino datata 30 luglio 1799. Un decreto del Governo provvisorio toscano nel 1801 ordina il suo reintegro, ma eglipassa poco dopo emerito (60).

Non si conoscono, di Manzi, opere a stampa di argomento penalistico, ed è probabile che non ne esistano affatto (61).

Per quello che concerne lo Studio fiorentino, all'inizio del Settecento furono istituite nuove cattedre soprattutto nel settore medico-scientifico, come quella di Ostetricia e quella di Botanica (62).

L'insegnamento del diritto criminale fu introdotto nel 1730 ed affidato all'avvocato Alfonzo di Galasso, a cui successe l'avvocato Benedetto Moneta il quale nel 1749 passò ad insegnare istituzioni civili, dato che la cattedra era rimasta vacante a causa della morte del titolare Luca Antonio Ferroni. In seguito a ciò il posto di professore di diritto criminale rimase scoperto e la materia cadde nel dimenticatoio.

Nel 1778 Pietro Leopoldo decise di ripristinare tale insegnamento, e dettò le Istruzioni che dovevano servire di regola al nuovo professore che fu il Dottor Jacopo Maria Paoletti.

Il Granduca dice, nelle medesime Istruzioni, che lo scopo per cui ha aperto a Firenze una cattedra di istituzioni teorico-pratiche criminali é quello di preparare i giovani desiderosi di abilitarsi nelle professioni di giudice o attuario criminale.

Il corso doveva trattare di "ciascun delitto", "prova del medesimo", e "pena dovutagli" impostata "non tanto secondo il gius comune dei romani, quanto ancora a norma delle leggi e degli statuti veglianti in Toscana" (63).

Il Paoletti incominciò subito a tenere le lezioni a casa sua secondo gli ordini ricevuti. Ebbe un alto numero di studenti, tra i quali molti avrebbero in seguito ricoperto importanti cariche nei Tribunali, e continuò ad insegnare fino al 1802, anno in cui fu giubilato.

Nel 1790 e 1791 il Paoletti pubblicò in latino le sue Istituzioni teorico - pratiche criminali ed in volgare le Istruzioni per compilare i processi criminali secondo gli intendimenti del Granduca (64).

Quest’ultima opera è interessante sotto molti aspetti. Innanzitutto perché fornisce ulteriori notizie sull’autore, dicendo che è di Volterra e che, oltre ad essere professore, è anche primo assessore del Supremo Tribunale di Giustizia di Firenze. Poi per la critica rivolta ai precedenti governanti i quali, secondo Paoletti, non si sono premurati di erudire i giovani nella difficile ed importante pratica di istruire i processi criminali (65). Infatti chi voleva studiare questa pratica doveva riferirsi alla Prefazione della Pratica del Savelli (66). Paoletti, anche se ritiene "buona" questa Prefazione, crede tuttavia che non sia affatto sufficiente e che costringa i praticanti a "cecamente camminare sull’ orme altrui" (67), con gravi danni per l’amministrazione della giustizia criminale.

L’elemento, però, che rende maggiormente interessanti le Istruzioni è il fatto che si tratta di un manuale scritto per coloro che facevano pratica per diventare giudici o avvocati, e questo ci consente di effettuare un raffronto con le Instituzioni criminali del Borghi.

Si riscontrano differenze nella impostazione dell’opera e nella disposizione della materia, e sono assenti le citazioni dai grandi criminalisti del passato. Alla fine del testo troviamo un ampio apparato di formule processuali.

Tuttavia al pari del corso del Borghi c’è un forte intento didattico, volto ad imprimere nell’animo degli studenti i valori che avevano ispirato le riforme leopoldine, la portata innovativa delle quali si vede nella totale mancanza dell’esposizione degli istituti della tortura e della pena di morte, che erano stati aboliti appunto dall'intervento riformatore leopoldino.

In questo quadro di riforme bisogna collocare non solo il pensiero giuridico del Paoletti, ma anche il nuovo significato attribuito alla cattedra da lui ricoperta.

Per il Carrara, infatti, il rescritto del 1778, istitutivo di un insegnamento di Giurisprudenza criminale pratica a Firenze, è conseguenza di un piano generale di innovazioni in campo penale che condurrà al codice penale leopoldino del 1786.

Per preparare il terreno alle riforme si fece in modo che i giovani giuristi si preparassero a Pisa nelle "alte teorie filosofiche della scienza penale"(68), e che poi si erudissero a Firenze in una pratica che si voleva istituire su basi razionali e non su principi di mero formalismo.

Nell'Università di Siena fu attivata una cattedra di diritto criminale nel 1737.

L'anno successivo Pompeo Neri fu incaricato da Francesco Stefano di preparare un piano di riforme per l'Università di Siena. Egli individuò i principali problemi nella molteplicità delle cattedre e nella tenuità degli stipendi, e quindi propose di pagare di più i professori e di riformare l'aspetto organizzativo dell'insegnamento (69).

Per realizzare tale progetto Pompeo Neri impose nuove tasse che causarono vigorose reazioni degli ecclesiastici, della Balìa e del Collegio dei Nobili, i quali ritenevano le idee del Neri sproporzionate rispetto alle condizioni in cui allora si trovava la Città di Firenze.

Così Francesco Stefano sospese le tasse e fece elaborare all'Auditore Generale Neri Venturi un regolamento che cercasse di venire incontro alle esigenze degli scontenti.

Il Nuovo piano approvato con motuproprio del 29 aprile 1743 prevedeva cinque classi differenti di maestri, determinate dalle diverse materie che dovevano insegnare. La seconda classe, quella del diritto canonico e civile, era necessaria per provvedere lo stato senese di notai, giudici ed altri ufficiali.

Si fissavano undici cattedre tra le quali una di ordinaria criminale, con l'obbligo per il docente di dettare a casa le istituzioni, cioé i principi della disciplina.

Anche questo piano, però, incontrò varie difficoltà di applicazione tanto che nel 1759 fu affidato a Pompeo Neri un nuovo incarico.

Egli presentò un progetto di riforma organico volto a creare un Ateneo adeguato ai tempi moderni, basandosi sul principio che per una crescita del livello scientifico dell'Università era necessaria una larga disponibilità finanziaria.

Nonostante però i tentativi di cambiamento del periodo leopoldino, l'insegnamento universitario teorico rimaneva poco formativo e attuale.

Ad esempio, in un Progetto di riforma di tale epoca studiato da Floriana Colao si dice che per l'esercizio della professione legale è necessario studiare per quattro o sei anni (dopo l’Università) la Giurisprudenza civile e criminale presso qualche auditore o giudice legale (70).

A dimostrazione dell'esistenza di questo grave problema della scarsità di progressi nel campo teorico e didattico, si è rilevato che le raccolte di decisioni e motivazioni giudiziarie dei giuristi operanti nell’ Università di Siena nel Seicento avevano ampia circolazione, mentre i loro scritti giuridici di carattere teorico erano conosciuti solo a livello locale.

Anche nel ‘700 le opere più significative erano quelle dotate di un forte legame con la pratica.

Si segnalano la Pratica criminale secondo lo stile dello Stato di Toscana (1775) di Vincenzo Guglielmi e, sempre dello stesso autore, il Codice di legislazione moderna del Granducato di Toscana (1774-75) in due volumi.

Il primo volume del Codice, pubblicato a Siena nel 1774, comprende leggi, bandi ed ordini criminali toscani fino al 1737, disposti per ordine alfabetico. Il secondo riporta bandi ed ordini emanati dai Granduchi dal 1737 al 1745.

Ma ancor più interessante mi sembra la sua Pratica criminale per le evidenti analogie con le Instituzioni del Borghi.

Il Guglielmi, nella Prefazione all’edizione del 1775, dice che si tratta di una ristampa di quella pisana del 1763 accresciuta con le nuove leggi emanate nel frattempo in Toscana, elemento che dimostra l’attenzione da lui riservata al diritto patrio.

La finalità dell’opera è identificata nell’intento di fornire ai praticanti ed a quelli che vogliono esercitarsi nella scienza criminale un testo in cui possano trovare tutto quello che occorre loro (71).

La Pratica consta di due parti. La prima spiega il modo di fabbricare i processi: iniziando dalla querela fino ad arrivare all’ esecuzione della sentenza. La seconda tratta dei delitti in specie, dando spazio alle loro prove, agli indizi ed alle pene secondo le leggi, gli ordini e lo stile dei Tribunali della Toscana. L’opera si conclude con la trascrizione di molte formule in uso nei processi che si celebravano nel Granducato.

Molti sono gli elementi di somiglianza tra la Pratica del Guglielmi e le Instituzioni del Borghi. Non solo, come si è appena visto, nella struttura e nell’impostazione, ma anche per quanto riguarda le citazioni dei grandi criminalisti dei secoli precedenti e lo spiccato intento didattico caratterizzante entrambi questi lavori.

Degno di nota è pure il Ragionamento sulla "retta amministrazione delle pene" (1782) dovuto al prete Francesco Lenzini, scritto di ispirazione illuministica.

Inoltre, nella Biblioteca Comunale di Siena si trova una Praelectio universitaria, forse di Agostino Gigli, lettore criminalista nel 1766 (data recata dal testo), aperto al dibattito suscitato dal Beccaria, che viene menzionato nell'opera.

Si capisce anche che l'insegnamento del diritto patrio era già assicurato, perché il testo è ricco di rinvii alla situazione attuale delle fonti normative toscane, senesi in particolare.

Siamo indotti a concludere, perciò, che in Toscana la situazione universitaria era così arretrata che erano i pratici ad avere maggior ardire (72). Tanto che Savigny, passando da Siena, rileverà che nel primo Ottocento si riscontra una quasi totale assenza di studi teorici, e che nella pratica troviamo una più interessante vivacità.

Fonti e metodo di lavoro del Borghi

Il manoscritto delle Instituzioni criminali è ripartito in quattro libri. Il primo libro comincia con una elencazione dei vari tipi di delitti e delle circostanze che possono aggravarne o diminuirne la pena. Si passa poi a parlare del giudizio criminale in generale, e della competenza del giudice. Infine sono trattati i tre modi in cui si può dare inizio al processo: l’accusa, la denuncia e l’inquisizione.

Nel secondo libro si parte da una ampia spiegazione relativa alla prova del delitto in genere ed in specie. Si prosegue con l’esposizione dei diversi tipi di confessione: la giudiziale spontanea, la forzata, la finta e la stragiudiziale; e si entra nello specifico delle prove spiegando prima quelle da farsi per mezzo di manifestissimi documenti, poi quelle da farsi per mezzo di testimoni. L’ultima parte è dedicata agli indizi.

Il terzo libro espone le problematiche riguardanti la citazione e la cattura dei rei con una lunga digressione canonistica. Poi tratta diffusamente del costituto, o esame da farsi al reo, della pubblicazione e legittimazione del processo, e della difesa del reo, cioè tutto ciò che concerne la sua convocazione in giudizio ed il suo comportamento processuale. Il sesto ed ultimo titolo parla della tortura dei rei.

Il quarto libro si apre esplicando le pene ed i modi in cui vengono rimesse se il delitto si estingue. Nei titoli terzo e quarto si enucleano gli elementi principali della sentenza e della sua esecuzione.

L’opera si chiude con le stringate definizioni di sessantasei delitti e dei loro estremi.

Risulta evidente dalla lettura delle Instituzioni criminali che abbiamo davanti un testo di Pratica Criminale scritto per gli studenti di diritto.

Essi avrebbero potuto utilizzarlo non solo per apprendere i concetti basilari della scienza penale, ma anche come prontuario da consultare comodamente nella loro futura carriera nei Tribunali o nell’amministrazione del Granducato.

Il testo su cui è modellata l’opera è sicuramente la Pratica Universale di Marc’Antonio Savelli, che era stato magistrato a Firenze nel Seicento (73). Questo libro, nato in un ambiente estraneo alle Università, aveva avuto grande successo e circolazione nella Toscana del Settecento.

Il Borghi non solo menziona spesso il Savelli, ma in molti luoghi ne riporta dei passi letteralmente, tanto che le Instituzioni possono forse considerarsi una specie di epitome della Pratica Universale.

Un’altra chiave di lettura abbastanza plausibile è quella che porta ad accostare il testo del Borghi ai manuali di iniziazione professionale al notariato ed ai trattati sulla fede e la nobiltà di questa professione: una serie di opere scritte a far data dal Cinquecento in poi.

Da esse si intuisce la crescita collettiva di tutto un ceto di funzionari e professionisti , sempre più convinti del loro ruolo nell’ambito della società e delle nascenti istituzioni statali (74).

Un parallelo si può istituire con lavori come il Promptuarius elenchus motivarum rationum ex controversiis per dominos Rotae Florentinae Auditores deffinitis selectarum di Matteo di Bartolomeo Neroni, scritto nel 1633.

Si tratta di un libro nato dall’esperienza maturata dall’autore nel suo mestiere di attuario, e destinato, con lo stesso intento didattico che anima il Borghi, essenzialmente ai pratici i quali volessero consultare e fare uso professionale delle decisioni conservate nei fondi dell’archivio della Rota di Firenze (75).

Inoltre si riscontrano in tutto l’arco del manoscritto delle Instituzioni una serie di citazioni tratte dalle opere di Pratica Criminale di alcuni dei più noti criminalisti dei secoli XVI e XVII.

Si tratta di una decina di giuristi con caratteristiche ed esperienze biografiche e professionali diverse.

Abbiamo due docenti universitari: Bartolomeo da Saliceto e Pietro Cavallo. Il primo insegna diritto a Padova, Ferrara e Bologna tra la fine del ‘300 e l’inizio del ‘400 (76). Il secondo è docente a Pisa negli ultimi anni del ‘500, e poi alto funzionario dello stato mediceo (77).

Carlo Pellegrino e Carlo Antonio De Luca sono entrambi ecclesiastici e vivono nel Seicento. L’uno è Vescovo di Avellino (78); l’altro è un sacerdote di Molfetta il quale, pur non avendo completato gli studi di diritto, svolge a lungo l’attività di avvocato, come erano soliti fare tanti chierici del suo tempo (79).

Un pratico può essere considerato anche Sigismondo Scaccia, giurista genovese vissuto tra il ‘500 ed il ‘600, in quanto esercita per anni l’avvocatura a Roma (80). Deve però la sua fama non all’opera di pratica giudiziaria menzionata dal Borghi, ma al Tractatus de commerciis et cambio che lo pone tra i fondatori del diritto commerciale.

Viene richiamata anche la famossima Praxis et Theoricae Criminalis di Prospero Farinacci (1544 - 1618), celebre avvocato a Roma e poi amministratore di spicco delo Stato Pontificio (81).

Anche questa opera, sebbene non priva di rilievi di carattere scientifico, si fonda pur sempre sul metodo casistico che esclude discussioni e problemi puramente dottrinali.

Due citazioni poi provengono dalle Sententiae di Giulio Claro (1525 - 1575), alto funzionario di Filippo II di Spagna (82).

Nel titolo sesto del libro terzo si recepisce anche un parere sulla tortura di Giambattista Baiardi, giurista cinquecentesco di origine parmense, segnalatoci come governatore dell’Abruzzo ed autore di un commentario alle Sententiae del Claro (83).

Infine, sono richiamate due opere molto specifiche di pratica giudiziaria: Praxis et TheoricaInterrogandorum Reorum di Flaminio Cartari; e Processus informativus di Tranquillo Ambrosini.

Sul primo sappiamo che è un avvocato ed uomo politico orvietano del Cinquecento, appartenente ad una famiglia patrizia (84).

Sul secondo sappiamo che è originario di Senigallia, dato che ce lo dice lui stesso nella intestazione dell’opera, e che vive a cavallo tra il secolo XVI ed il secolo XVII (85).

Borghi tiene l’Ambrosini in grande considerazione e lo cita sei volte nel libro II e nel libro III.

Gli argomenti su cui viene chiamato in causa sono soprattutto le prove testimoniali ed il costituto, ossia l’esame da farsi al reo.

Sia l’Ambrosini che la sua opera non sono molto famosi, ma secondo noi l’attenzione del Borghi deriva dall’aiuto che un testo così specifico poteva fornire agli studenti per eventuali approfondimenti su questioni spinose della pratica criminale, riguardo alle quali c’era incertezza.

Importante è pure vedere che il Borghi non cita i criminalisti dei secoli precedenti solo per mero orpello, o per appoggiarsi alla loro autorità, ma lo fa anche con un chiaro intento didattico.

Si esortano infatti gli allievi ad approfondire i temi più rilevanti leggendo gli scritti di questi illustri giuristi.

Pur se in maniera implicita vengono spesso richiamati concetti e definizioni del Digesto, del Codice e della Glossa.

Ci sono però anche riferimenti alle consuetudini toscane, agli statuti (in particolare a quello di Firenze) ed alla legislazione del Granducato.

Sono richiamate leggi medicee del ‘500 e del ’600, ma sopratutto è citata più volte la legge emanata il 15 gennaio 1744 da Francesco I col titolo Ordini diversi da osservarsi nelle cause criminali.

Se ne parla in tema di giurisdizione delle leggi toscane sui forestieri che delinquono in Toscana; in tema d’indizi; ed anche riguardo ai reati che in quegli anni avevano avuto un preoccupante incremento.

In materia di furti, per esempio, si ordina di rimettere in osservanza la legge del 1681, nei limiti della compatibilità con i presenti ordini (86).

Non si ha quindi una esposizione esclusivamente fondata sulle "Leggi e gli Statuti veglianti in Toscana" (87) come nelle Istruzioni del Paoletti, docente di diritto criminale nello Studio Fiorentino dal 1778.

Il Paoletti, infatti, riceve la cattedra dal Granduca Pietro Leopoldo con l’ordine preciso di insegnare il diritto criminale non più secondo il gius romano, ma secondo il diritto patrio.

Quando scriveva il Borghi, però, Pietro Leopoldo non governava ancora la Toscana, e la polemica sull’insegnamento del diritto patrio era ancora lontana dal giungere ad una soluzione favorevole (88).

Quindi il suo atteggiamento eclettico, che lo porta a richiamare principi romanistici ma anche leggi toscane, ci sembra abbastanza interessante ed innovativo.

Attraverso questa rassegna degli autori citati possiamo concludere che, se da un punto di vista della tecnica didattica il Borghi rimane attaccato al metodo casistico a discapito della dissertazione teorica, al pari dei trattatisti del ’500 e ‘600, tuttavia è proprio l’impostazione pratica che riesce a garantire un certo sviluppo della scienza penalistica, con una ricerca di soluzioni dei problemi giuridici operata direttamente sul campo dell’attività forense ed amministrativa.

Riflessioni conclusive sulle Institutiones iuris criminalis e sui giudizi formulati da alcuni autori riguardo ad esse.

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Assecondando un desiderio che il Carrara gli aveva espresso in precedenza, Pietro Ellero il 22 Giugno 1867 gli spedì il manoscritto delle Institutiones accompagnato da una lettera breve in cui diceva che si trattava dell'opera di un "suo predecessore", e quindi di "cosa propriamente sua" (89).

Ma l'opinione che si fece Carrara di questo corso è ambivalente, e secondo noi condivisibile solo in parte .

Da un lato, infatti, con la frase "quasi alla fuggiasca" (90) sembra sottolineare il punto che le lezioni venissero spiegate a casa dell’insegnante come se si trattasse di una cosa insolita, mentre invece tale pratica era diffusa e talvolta ordinata. Ma il concetto che Carrara vuole evidenziare ci appare un altro: cioè la rottura che in un certo senso questo primo corso istituzionale di diritto criminale rappresentò in un mondo accademico ancora dominato dai "repetentes"(91), i quali leggevano da secoli sui testi romani (92).

Dall'altro lato, però, definendo le Instituzioni criminali un "corso filosofico di diritto penale", non può fare a meno di avvicinare l'autore, come farà oltre cento anni dopo il Padovani (93), a personaggi del calibro di Carmignani.

Forse, però, bisognerebbe tenere presente che, sebbene tra i due criminalisti non intercorrano moltissimi anni, li dividono eventi culturali e politici così rilevanti che possono essere definiti due uomini di epoche diverse.

Perciò, se confrontato con opere come gli Elementa iuris criminalis di Carmignani, è vero che il manoscritto risulta un insegnamento dai confini angusti e limitati (94), ed una disorganica esposizione di nozioni generali sul delitto, sulle circostanze, sullo svolgimento del processo penale e sulle pene (95). Considerando poi i tanti errori di ortografia, di grammatica, di sintassi e di trascrizione delle frasi latine l’aspetto formale appare abbastanza trascurato, tanto da rendere probabile l’ipotesi che lo scrivente fosse un allievo del Borghi il quale scriveva sotto la dettatura del professore, e si sbagliava sovente per colpa della velocità o della sua scarsa cultura.

Ma se collocato nella cornice storica di una Università di Pisa in decadenza, caratterizzata da una visione del diritto penale non ancora scevra da influenze civilistiche, e soprattutto dal domino di un metodo di insegnamento basato sulla lettura del Digesto o del Codice, la visuale ed il giudizio possono mutare.

Infatti, a Pisa come a Siena e a Firenze, in attesa di giuste e razionali riforme legislative in campo criminale, sono i pratici a cercare di soddisfare per quanto possibile le esigenze quotidiane della vita giuridica e forense.

Sono testi come la Pratica Universale di Marc’Antonio Savelli, autore estraneo ai ruoli universitari, a garantire l’ effettivo progresso del diritto criminale e ad avere maggior diffusione (96).

Il corso del Borghi ci appare come una specie di epitome dell’opera del Savelli, spesso citata ed a tratti riportata parola per parola, con l’aggiunta delle innovazioni determinate dalle leggi emanate dai governi toscani tra la fine del ‘600 e la metà del ‘700, e di quelle introdotte dalle consuetudini e dagli usi dei Tribunali.

Lo stile ed il tono della trattazione sono quelli dei manuali di iniziazione alla professione forense, tanto è vero che il Borghi stesso si rivolge ai "giovani studiosi" nella chiusa dell’opera (al termine del quarto libro), indirizzandola soprattutto a loro.

Gli sviluppi più interessanti nel settore del diritto penale quindi, in assenza di contributi teorici che lo rendessero autonomo e sicuro nei suoi fondamenti, si verificarono nella prassi.

Si capisce allora perché Pietro Leopoldo individuò la ragione di fondo per cui era necessaria una riforma non tanto nella opportunità di rendere più mite la legislazione penale, obiettivo già raggiunto in Toscana, quanto piuttosto nella necessità di adeguare l’antica legislazione ancora in vigore alla prassi ormai consolidata e molto diversa (97).

(1) Abbiamo reperito queste informazioni sulla famiglia Borghi nel Repertorio per il libro mdei battezzati dall’anno 1705 all’anno 1710, conservato presso l’Archivio della Primaziale di Pisa, nella Chiesa dei SS. Ranieri e Leonardo, meglio nota come Chiesa di San Ranierino.

(2) BRUNO CASINI, "ll Priorista" e "i libri d’oro" del Comune di Pisa, Firenze 1986, 49.

(3) Cesare Borghi gode del Priorato degli Anziani negli anni: 1727, 1740, 1743, 1749, 1750, 1754, 1755, 1761, 1762, 1765, 1776. (Vedi CASINI, 49).

(4) ANTONIO ANZILOTTI, Le riforme in Toscana nella seconda metà del secolo XVIII, in "Movimenti e contrasti per l’unità d’Italia", Bari 1930, 141-148.

(5) RODOLFO DEL GRATTA - MARGHERITA GIUNTA, Libri Matricularum Studii Pisani (1543-1737), Pisa 1983, 128.

(6) Archivio Arcivescovile di Pisa (= AAP), Dottorati, 42 (1723-1732).

(7) Monti è citato come lettore di istituzioni civili dal 1720-21 al 1734-35, vedi DANILO BARSANTI, I docenti e le cattedre dal 1543 al 1737, in AA.VV., Storia dell’Università di Pisa 1343-1737, 1*,Pisa 1993, 526.

(8) ANGELO FABRONI, Historia Academiae Pisanae, volume III, 264, Pisa 1795.

(9) Archivio di Stato di Firenze (= ASF), Archivio Ceramelli Papiani. Famiglia Borghi di Pisa.

(10) GARGANO GARGANI, autore del Poligrafo Gargani, ha compiuto un lavoro di spoglio di tutte le fonti prosopografiche delle famiglie nobili fiorentine, ed ha messo insieme una miniera di notizie preziose per gli studi storici, artistici e letterari riguardanti la Toscana dal secolo XII al secolo XIX. L’opera, consistente in una raccolta di trecentomila schede ordinate per nomi di famiglie, è conservata nella sala manoscritti della Biblioteca Nazionale di Firenze.

(11) ASF, Deputazione sopra nobiltà e cittadinanza. Famiglia Dal Borgo oggi Borghi.

(12) Archivio di Stato di Pisa (=ASP), Università, Ruoli dell’Università di Pisa dell’anni dal 1700 al 1783.

(13) FRANCESCO CARRARA, Giuseppe Puccioni e la cattedra di Giure Penale, in "Opuscoli di diritto criminale", Volume I , Lucca 1870, 13-14.

(14) CARRARA, 13-14

(15) LUCHETTI, Memorie dei suoi tempi, tomo II (1775-1791). L’originale del manoscritto Luchetti si trova presso la Biblioteca Cateriniana del Seminario di Pisa.

(16) LUCHETTI, op.cit.

(17) LUCHETTI op.cit.

(18) ASF, Archivio Ceramelli Papiani. Famiglia Borghi di Pisa.

(19) FABRONI, Historia Academiae Pisanae, cap. XII, 353.

(20) CARRARA, 13-14.

(21) FABRONI, volume II, 86

(22) ENRICO SPAGNESI, 1543-1737: lo Studio "mediceo", in "Storia dell’Università di Pisa 1343-1737, 1*", Pisa 1993, 244.

(23) ASP, Università, nei Ruoli certe volte Venturini viene detto "pisanus", così come lo chiama "pisanus" EVERARDO MICHELI, Storia dell’Unversità di Pisa dal MDCCXXXVII al MDCCCLIX, Pisa 1879, 38.

(24) MICHELI, 38

(25) Abbiamo preso in esame testi come: Bibliotheca legalis di AGOSTINO FONTANA, Parma 1688; Bibliotheca iuris selecta di BURKHARD GOTTHELF STRUVE, Jena 1756; Bibliotheca realis iuridica di MARTIN LIPEN, Lipsia 1757; Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia, 1891-1906,di GIUSEPPE MAZZATINTI. Non vi è traccia di opere di argomento criminalistico attribuite a Venturini.

(26) Le opere di MARZIO VENTURINI conservate presso la Biblioteca Universitaria di Pisa sono: Consiliorum sive responsorum, Bologna 1648; De Interdictu ne quid in flumine publico, Parma 1657; Decisiones rotae florentinae, Firenze 1708; Decisiones diversorum tribunalium, Firenze 1712, che è la continuazione dell’opera pubblicata quattro anni prima. Sono anche menzionate da FONTANA, 378 e 398; ed anche da LIPEN, 646.

(27) DANILO BARSANTI, I docenti e le cattedre dal 1543 al 1737, in AA.VV., Storia dell’Università di Pisa 1343 - 1737, 1*, Pisa 1993, 537.

(28) Ibidem, 528.

(29) MICHELI, 38.

(30) CARRARA, 13 - 14.

(31) CARRARA, 13 - 14.

(32) TULLIO PADOVANI, Francesco Carrara e la teoria del reato, in "Atti del convegno internazionale Lucca - Pisa 2/5 Giugno 1988", Milano 1991, 276 - 278.

(33) DANILO MARRARA, Lo Studio di Pisa e la discussione settecentesca sull’ insegnamento del diritto patrio, in "Bollettino Storico Pisano", LII, 1983, 17 - 41.

(34) LEONARDO RUTA, Tentativi di riforma dell’Università di Pisa sotto il Granduca Pietro Leopoldo (1765 - 1790), in "Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno", VIII ,1979, 197 - 273.

(35) RUTA, 233-234

(36) CARLO CALISSE, Storia del Diritto Penale Italiano dal secolo VI al XIX, Firenze 1895, 170-172.

(37) MICHELI, 38.

(38) NICOLA CARRANZA, L’Università di Pisa e la formazione del ceto dirigente toscano nel 700, in "Bollettino Storico Pisano", XXXIII - XXXV, 1964-66, 469 - 537.

(39) ANZILOTTI, 479-481.

(40) Collegio Imperiale è un’altro nome per indicare il Collegio di Sapienza. Per la laurea di Della Pura vedi RUTA, Acta Graduum Academiae Pisanae (1700 - 1765), Vol. III, Pisa 1980, 57.

(41) Alla scuola storico-critica, seguace del metodo razionalistico di Galileo Galilei e del Cujacio negli studi del diritto romano, appartennero giuristi come Nicola Buonaparte (che ne fu l’iniziatore), Bartolomeo Chesi, Giovanni Bonaventura Neri, padre di Pompeo, e Giuseppe Averani, il quale fu maestro di Bernardo Tanucci. Sull’argomento vedi ANZILOTTI, 162.

(42) NICOLA CARRANZA, L’Università di Pisa nei secoli XVII e XVIII, Pisa 1971, 43-50.

(43) FILIPPO MARIA DELLA PURA, Dissertazione sopra il Gius Pubblico, Livorno 1757. L’opera fu stampata dall’editore Fanteschi.

(44) ANZILOTTI, 175.

(45) DELLA PURA , 21.

(46) DELLA PURA , 21.

(47) DELLA PURA, 37 - 38.

(48) DELLA PURA, 37 - 38.

(49) DELLA PURA, 38.

(50) DELLA PURA, 38. La Dissertazione sopra il Gius Pubblico del DELLA PURA è esaminata da PAOLO COMANDUCCI nel saggio La scuola criminalistica pisana tra Sette e Ottocento, in La "Leopoldina". Criminalità e giustizia criminale nelle riforme del ‘700 europeo, ricerche coordinate da Luigi Berlinguer, 10, Milano 1990, 242, 248, 264, 285, 289 . Comanducci, sebbene citi più volte l’opera, tuttavia la giudica nel suo complesso "mediocre" (p. 242).

(51) MICHELI, 45

(52) MICHELI, 45

(53) Sulla figura di Gianmaria Lampredi in generale, cfr. PAOLO COMANDUCCI, Settecento conservatore, Lampredi e il diritto naturale, Milano 1981.

(54) Vedi "Giornale de’ letterati", 65, 1787, articolo VII, 194-233. L’attribuzione dell’anonimo "estratto" a Ranucci è confermata anche da GIOVANNI CARMIGNANI, Saggio di giurisprudenza criminale, Firenze 1795, XIV.

(55) L’opinione di Lampredi rispetto alla pena di morte è enunciata nella sua opera Theoremata, II, 3, 6, Pisa 1782, 284-85. Egli reputa inutile il ricorso alla pena capitale nella società civile, ma ritiene altresì che nella potestas eminens conferita dal popolo al sovrano sia anche ricompreso il diritto di uccidere un suddito, quando la sua morte risulti indispensabile per la salute pubblica (vedi COMANDUCCI, La scuola criminalistica pisana.., 289-90).

(56) La posizione di Ranucci può essere studiata in ASF, Saggio di osservazioni per la Riforma del nuovo codice criminale pubblicato in Toscana il dì 30 Novembre 1786, Segreteria di Stato, 1795, prot.8, ins.9. Vedi anche COMANDUCCI, La scuola criminalistica pisana.., nota n.178, 291-92.

(57) Vedi COMANDUCCI, La scuola criminalistica pisana.., nota n.5, 242.

(58) CARRARA, 13-14.

(59) Vedi MICHELI, 46. Sulla figura di Romagnosi in generale, cfr. LUCA MANNORI, Uno stato per Romagnosi, I, Il progetto costituzionale, Milano 1984.

(60) ASP, Università I, 336.9, e Università 2, Sez. C.I.4. Vedi anche EUGENIO MASSART, Tito Manzi professore nell’Università di Pisa (1793-1801), in "Bollettino Storico Pisano", XXXIII-XXXV, 1964-66, 313-346. Inoltre, per una silloge biografica ed una ricca bibliografia su questo personaggio, vedi MARIO MONTORZI, I processi contro Filippo Mazzei ed i liberali pisani del 1799, in "Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico", X, 1981, in particolare 75-78; ora in Giustizia in Contado, Firenze 1997, in particolare 298-99.

(61) Questa affermazione è di COMANDUCCI, La scuola criminalistica pisana.., e viene documentata nella nota n.9, 243. Vedi anche MASSART, 339.

(62) GIOVANNI PREZZINER, Storia del Pubblico Studio e delle Società scientifiche e letterarie di Firenze, Libro VI, Firenze 1810, 164-66.

(63) PREZZINER, 191-196

(64) Il titolo completo dell’opera è Istruzioni per compilare i processi criminali e nuovo formulario criminale, Firenze 1791.

(65) JACOPO MARIA PAOLETTI, Istruzioni.., § XXI, Firenze 1791, 152-55.

(66) PAOLETTI, Istruzioni, 154. Inoltre si menziona la Pratica Universale di MARC’ANTONIO SAVELLI, pubblicata per la prima volta a Firenze nel 1665. Sul Savelli vedi SPAGNESI, 1543-1737: lo Studio "mediceo", in "Storia dell’Università di Pisa 1343-1737", 1*, Pisa 1993, 248.

(67) PAOLETTI, Istruzioni, 154.

(68) CARRARA, 13 - 14

(69) FLORIANA COLAO, L’Università dalla Reggenza al Governo Francese, in "L’Università di Siena - 750 anni di storia", Siena 1991, 67 - 76.

(70) MARIO ASCHERI, La scuola giuridica senese in età moderna, in "L’Università di Siena - 750 anni di storia", Siena 1991, 131 - 144. Riguardo al Progetto di riforma studiato da Floriana Colao, vedi sempre ASCHERI, 141

(71) VINCENZO GUGLIELMI, Pratica criminale secondo lo stile dello Stato di Toscana, Siena 1775, V-VI.

(72) ASCHERI, 142

(73) Sul Savelli e la sua Pratica Universale vedi la nota n. 66.

(74) Vedi MARIO MONTORZI, Il notaio di Tribunale come pubblico funzionario: un primo quadro di problemi, e qualche spunto analitico, in Il notariato nella civiltà toscana, atti di un convegno (Maggio 1981), Roma 1985, 23-24.

(75) Riguardo alla vita ed alle opere di Matteo Neroni vedi sempre MONTORZI, Il notaio di Tribunale.., 49-54.

(76) Sul Saliceto vedi G. ORLANDELLI, voce da Saliceto Bartolomeo, in Dizionario Biografico degli Italiani, VI, 766-768.

(77) Su Pietro Cavallo vedi SPAGNESI, 1543-1737: lo Studio "mediceo", 248.

(78) Su Carlo Pellegrino, autore della Praxis vicariorum et omnium in utroque foro iusdicentium quatuor partibus comprehensa (Venezia 1681) che è citata dal Borghi, vedi LUIGI ACCATTATIS, Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, vol. II, Cosenza 1870, 364; e LUIGI ALIQUO’ LENZI, Gli scrittori Calabresi, vol. III, Reggio Calabria 1955, 77.

(79) La figura di Carlo Antonio De Luca è trattata da L. ROVITO, voce De Luca Carlo Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXVIII, 333-334.

(80) Ricaviamo tali informazioni su Sigismondo Scaccia dal frontespizio del suo Tractatus de iudiciis causarum civilium, criminalium, et haereticalium, Colonia 1738, opera che è anche citata dal Borghi nel titolo III del libro III al n. 26.

(81) In merito alla vita, all’opera ed al pensiero giuridico del Farinaccio vedi A. MAZZACANE, voce Farinacci Prospero, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLV, 1-5.

(82) Per la vita e l’opera di Giulio Claro vedi A. MAZZACANE, voce Claro Giulio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVI, 141-146; inoltre riguardo al suo pensiero giuridico in generale: GIAN PAOLO MASSETTO, La prassi giuridica lombarda nell’opera di Giulio Claro (1525-1575), in Confluence des droits savants et des pratiques iuridiques, Milano 1979.

(83) Della vita del Baiardi parla IRENEO AFFO’, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, vol. IV, Parma 1793, 257-261. L’opera che il Borghi menziona, e per la quale Baiardi ottenne molta fama è Additiones et annotationes insignes, ac solemnes ad Iulii Clari lib. V Receptarum Sententiarum sive praticam criminalem, Parma 1597.

(84) Su Cartari vedi A. MAZZACANE, voce Cartari Flaminio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XX, 787-788.

(85) GIAMMARIA MAZZUCHELLI, Gli scrittori d’Italia, vol.I, parte II, Brescia 1793, alla pagina 615 dice che l’opera Processus informativus ebbe varie ristampe tra il 1606 ed il 1746, tutte effettuate a Venezia. A partire dall’edizione del 1629 il trattato dell’Ambrosini viene corredato dagli scholia del giurista milanese Francesco Bernardini, e da alcune Decisiones Criminales di Farinaccio.

(86) LORENZO CANTINI, Legislazione Toscana, Tomo XXV, Firenze 1804, 154-163.

(87) PREZZINER, 191 - 196;

(88) MARRARA, Lo Studio di Pisa e la discussione settecentesca sull’insegnamento del diritto patrio, 17-41.

(89) AA.VV., Lettere a Francesco Carrara. Questa raccolta di missive autografe, che il Carrara aveva ricevuto da Pietro Ellero tra il 1861 ed 1878, è contenuta nel volume sopra indicato e conservato presso la Biblioteca Governativa di Lucca.

(90) CARRARA 13-14

(91) CARRARA 13-14

(92) DELLA PURA, Dissertazione sopra il Gius Pubblico, Livorno 1757, 38

(93) PADOVANI, 276-278.

(94) CARRARA, 13-14.

(95) PADOVANI, op.cit. 276-278.

(96) Vedi SPAGNESI, 248.

(97) MARIO DA PASSANO, "Leopoldina": Il progetto del Granduca, in "Materiali per una storia della cultura giuridica", XV, 1985, 301 - 316.

NOTE INTRODUTTIVE AL TESTO

 

 

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Le Instituzioni criminali di Cesare Alberigo Borghi costituiscono un’opera di notevole interesse per tutta una serie di ragioni.

Innanzitutto perché rappresentano il primo corso istituzionale di dirirro criminale tenuto nell’Università di Pisa. Il Borghi, infatti, le dettò per la prima volta ai suoi allievi nell’anno accademico 1760-61, dopo avere insegnato per molti anni secondo il vecchio metodo basato sulle lecturae del Digesto e del Codice, come avevano fatto i suoi predecessori.

Il manoscritto è suddiviso in quattro libri più un capitolo dedicato alle definizioni di un certo numero di delitti ed ai loro estremi, e presenta una struttura molto simile alla Prefazione della Pratica Universale di Marc’Antonio Savelli, in cui viene spiegato il modo di "fabbricare e risolvere i processi criminali".

Il testo del Savelli, pubblicato per la prima volta a Firenze nel 1665, viene citato molto spesso dal Borghi, ed addirittura alcuni suoi passi sono riportati parola per parola, tanto che le Instituzioni criminali possono essere considerate una specie di epitome della Pratica Universale.

Questa considerazione conferma il giudizio che si può formulare anche dopo una lettura superficiale del corso del Borghi: cioè che si tratta di un’opera di impostazione pratica, in cui l’autore cerca di esporre in maniera abbastanza sintetica le varie fasi del processo criminale, senza dare grande rilievo alle dissertazioni teoriche su problemi di diritto penale sostanziale.

La trattazione, caratterizzata da uno stile sobrio e da un tono discorsivo, si avvale di molti concetti e definizioni di derivazione romanistica, anche se non mancano interessanti riferimenti al diritto positivo.

Sono infatti menzionate alcune leggi granducali del ‘500, del ‘600 e del ‘700, oltre a Bolle pontificie, a Statuti come quello di Firenze, a consuetudini e ad usi forensi diffusi nei Tribunali toscani.

I destinatari dell’opera sono i giovani i quali si avviavano alla professione forense, e infatti il manoscritto è pervaso da un chiaro intento didattico, che lo avvicina ad altre opere di Pratica Criminale apparse in Toscana nello stesso periodo.

Un parallelo si può istituire, ad esempio, con la Pratica criminale secondo lo stile dello Stato di Toscana, pubblicata a Siena nel 1763 da Vincenzo Guglielmi, e con le Istruzioni per compilare i processi criminali di Jacopo Maria Paoletti, uscite a Firenze nel 1791.

Si riscontrano delle similitudini anche con la letteratura "corporativa" notarile, cioè con quei trattati sulla fede e sulla nobiltà del notariato scritti a partire dal Cinquecento in poi nei quali, oltre ad un intento apologetico, è presente una impostazione pratica e didattica.

Le Instituzioni criminali, quindi, sono un’opera scritta da un pratico per un pubblico di pratici, e forse è proprio per questo motivo che l’aspetto teorico dei problemi penalistici non ci sembra molto approfondito.

Il Borghi affronta le principali questioni di diritto penale sostanziale senza discostarsi molto dalle teorie dei grandi criminalisti del passato come Farinaccio e Claro.

Tuttavia nel testo si riscontrano interessanti progressi in campi importanti come quello della difesa del reo.

Ciò dimostra che in certi casi i pratici avevano saputo fornire delle risposte apprezzabili ai problemi più scottanti della vita giuridica quotidiana, in attesa di riforme legislative e di contributi teorici capaci di garantire al diritto criminale non solo una maggiore autonomia ed organicità, ma anche un più alto livello di civiltà e di rispetto dei diritti della persona umana.

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Vigilantibus, et non dormientibus facta sunt iura, et qui vult Sanctorum servari singula festa, non bene cum Codice potest scire Digesta *

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A. D. MDCCLXVIII

Florentiae

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INSTITUZIONI CRIMINALI

Lib. 1o

Tit. 1o

Che Cosa sia Delitto, e di quante sorte sia

1) Delitto è un’azione cattiva proibita dalla legge, e solamente quelle azioni che sono intrinsecamente cattive, e proibite dalle leggi, sono punite, e gastigate[sic].

2) I delitti altri sono publici //[p.2] e sono quegli ai quali per legge speciale è determinata una pena certa; altri sono privati, e sono quelli ai quali dalla legge non è determinata la pena, ma si rimettono all'arbitrio del giudice, e perché questa divisione è poco adattata all'uso del foro noi dividiamo i delitti in questa forma.

3) I delitti altri sono dolosi, altri colposi, altri casuali.

4) Dolosi si chiamo (1) quelli che si commettono con intenzione o con proposito di delinquere, e se il proposito di delinquere viene da un animo sedato, vi è il vero dolo, e si chiama delictum dolosum, premeditatum[sic], appensatum et //[p.3] deliberatum; se poi il proposito di delinquere nasce dal calore dello sdegnio, o dalla rissa, o di giusto dolore, ha meno di dolo, e si chiama delitto semplice doloso.

5) Delitti colposi sono quegli che si commettono senza intenzione e volontà di delinquere, ma v'interviene qualche colpa del committente, o perché ha dato opera a una cosa illecita oppure a una cosa lecita ma non ha usato tutta la diligenza, perché non seguisce[sic] il delitto, o tali delitti si dicono commessi ex casu improvviso.

6) Finalmente delitti casuali sono quelli nei quali non apparisce né una volontà di delinquere, né alcuna colpa del delinquente, ma si dicono propriamente casuali //[p.4] ovvero commessi a caso.

AVVERTENZA

- I numeri di pagina riportati nell’ "Indice delle Materie del Presente Volume" che precede il libro I, quelli riportati nell’"Indice dei Delitti" posto dopo la fine del capitolo Definizioni dei Delitti e loro Estremi, e quelli messi tra parentesi quadre in tutto l’arco del manoscritto rappresentano i numeri originali delle pagine del manoscritto stesso.

- A causa della frequenza del fenomeno abbiamo deciso di lasciare inalterate tutta una serie di parole in cui il gruppo consonantico gn è erroneamente seguito dalla lettera i (come ad esempio campagnia, sdegnio, ingegnio, consegnia, consegniarsi, consegniato/a, guadagnio, insegniano, contrassegnio, disegnio, bisognio, bisogniando, leggiero, pugniale, cogniome, ignioranti, ignioranza, assegniare/te/ta/bili, segnio, agniati, cogniati, compagnio, accompagniano, indigniazione).

- Molto spesso si registrano errori nei congiuntivi, tanto che abbiamo ritenuto opportuno non modificarli (per esempio siino, sieno, vivino, dichino, possino, perischino, disponghino, devino, faccino,preferischino).

- Non abbiamo modificato le coniugazioni del verbo avere in cui viene erroneamente usata la lettera h (ad esempio habbia, havrà, haveva).

- Diffusi sono i fenomeni di elisione delle vocali. Per questo non sono state apportate correzioni (ad esempio gl’istessi, gl’estremi, gl’incomodi, gl’indizi, gl’interrogatorii, gl’articoli, de’ testimoni, de’modi, de’rei).

- Il pronome dimostrativo quelli viene spesso scritto nella forma quegli, ma lo abbiamo lasciato inalterato così come abbiamo fatto per i pronomi personali di terza persona che in il manoscritto invece di fare li fanno gli (come ad esempio nelle parole rimettergli, esaminargli, prescrivergli, interrogargli).

- Non abbiamo corretto i termini in cui troviamo la e al posto della i (come in respettivi/e, respettivamente, resulta/re, repugni).

- Non sono stati corretti, inoltre, tutti gli errori ortografici caratterizzanti vocaboli assai ricorrenti. Si sono conservate come erano nell’originale le parole publico/a, publicherà, publicamente, doppo, notaro, aito, ogn’uno, non ostante, d’avanti, presistenza,verisimile/i, inverisimile/i. Abbiamo lasciato il verbo constare nella forma usata nell’opera, cioè senza la n, e lo stesso abbiamo fatto per il verbo scoprire che viene scritto scuoprire.

7) Inoltre i delitti si dividono in di fatto permanente e di fatto transeunte.

8) Di fatto permanente sono quegli che appariscono, e che si vedono con gli occhi doppo che sono commessi V:G: (2) l'omicidio, una ferita, l'incendio, il furto con frattura.

9) I delitti di fatto transeunte sono quegli che non lasciano alcun contrassegnio di se doppo che sono commessi V:G: l'ingiurie verbali, le minaccie, gl'insulti il furto senza frattura (3).

10) I delitti poi si chiamano nominati, altri innominati.

11) Delitti nominati sono quegli ai quali la legge ha dato il suo nome speciale, siano publici //[p.5], o privati.

12) Delitti innominati sono quegli ai quali la legge non ha posto il suo nome, e questi si chiamano stellionato.

13) In Toscana vi è altra divisione di delitti, cioè altri da non parteciparsi, e altri da parteciparsi.

14) Devono parteciparsi al Magistrato degl'Otto tutti i delitti, nei quali vi può essere la pena della morte, della galera, dei publici lavori, della frusta, della perforazion della lingua, mediante la bestemmia, o della mutilazione di qualche parte del corpo (4).

Modo da tenenrsi nel parteciparli.

15) Il giudice deve brevemente raccogliere, tanto dal processo informativo //[p.6] che dal defensivo tutto ciò che risulta contro l'inquisito et a favore dell'inquisito, e deve trasmettere al detto magistrato il suo disegnio, e parere, che contenga l'assoluzione dell'inquisito, o la di lui condanna a qualche pena, o alla tortura, e deve addurre in detto disegnio le ragioni per le quali si è mosso a decidere così secondo l'ordine del dì 16 settembre 1559 portato dal Savelli nella prefazione alla Pratica Criminale al no204 e seguenti in detta Pratica alla parola Rettori (5).

16) Non devono parteciparsi tutti gli altri delitti che non sono capitali, e nei quali non s'impongono le sopradette pene, //[p.7] o altre pene afflittive del corpo, giacché in simili delitti i rettori dei luoghi possono sentenziare, e eseguire la sentenza senza la partecipazione degli otto Sabelli di detta prefazione no 208 (6).

17) L'ultima divisione dei delitti è, che altri si chiamano eccettuati, e altri non eccettuati.

18) Gli eccettuati sono quegli che per la loro enormità non sono compresi nella generale disposizione della legge V:G: il delitto d'eresia, di lesa maestà, di simonia, di falsa moneta, di latrocinio.

19) Delitti non accettuati sono quegli nei quali in tutto, e per tutto deve osservarsi ciò che generalmente dispongono le leggi //[p.8] (7).

Tit.2o

Degli Accidenti e Circostanze del Delitto

1) Potendosi ogni delitto, in ogni sua specie render più grave, o più leggiero dalle circostanze per questo le circostanze altre si dividono, in circostanze aggravanti, e in circostanze minuenti.

2) Molte sono, e possono essere le circostanze dei delitti, o aggravanti, o minuenti, ed è impossibile darne di tutte distinta relazione ma solamente accenneremo quelle che il giudice è tenuto ad osservare in qualunque processo criminale

3) La causa per la quale il delinquente, si è indotto a delinquere perché se non ha delinquito per causa //[p.9] alcuna, o per causa debola[sic], e piccola, si dice che ha delinquito per la sola sua perversa volontà, e in conseguenza per dolo positivo, e per ragion della causa resta più grave il delitto.

4) In secondo luogo il giudice osservi la persona del delinquente perché se per ragione del suo stato questa tal persona è obbligata a stare immune dai delitti, il di lei delitto è più grave (8).

5) In terzo luogo deve osservare la persona dell'offeso, dalla dignità della quale, si misura la qualità del delitto.

6) In quarto luogo deve osservare il luogo in cui è stato commesso il delitto, perché se è stato commesso in Chiesa, o nel Palazzo del Principe, o pure contro un privato, //[p.10] è stato commesso nella di lui propria casa, questi luoghi respettivamente aggravano il delitto.

7) In quinto luogo il tempo in cui è stato commesso il delitto, perché se é stato commesso in tempo di funzioni sacre, in giorno spezialmente[sic] consacrato a Dio, (9) in tempo di penitenza, di diguno, o di festa (10) o di notte, tempo destinato alla quiete, (11) i delitti divengono più gravi per ragione del tempo.

8) In sesto luogo, il modo con cui è stato commesso il delitto perché è maggiore delitto l'omicidio proditorio (12), o commesso con dare il veleno, che commesso con assalire apertamente, e colla spada.

Così se alcuno desse schiaffi, o bastonate, o piattonate a qualcuno //[p.11], il che è ignominioso si aggrava il delitto, siccome si aggrava se alcuno ferisce un altro con lo stioppo, ed è meno grave se lo ferisce con la spada, giacché il delitto commesso con lo stioppo, è atroce, e si agguaglia all'assasinio.

9) In settimo luogo deve osservare la quantità giacché la quantità distingue il furto, dall'abigeato, perché chi ruba una pecora, si punisce come ladro, chi ruba il branco si punisce come abigeo, e in Toscana il furto semplice si rende più grave secondo la maggiore o minore

quantità della roba rubata a tenore della legge del 9 settembre 1681 (13) confermata in tutte le sue parti per legge del di 17 dicembre 1744 //[p.12] (14).

10) In ottavo luogo deve il giudice osservare se il delitto è stato ultimato, perché regolarmente sono più gravi i delitti ultimati, che i delitti che rimangono nei termini di semplice attentato, giacché i delitti ultimati si puniscono con la pena ordinaria, i delitti attentati con la pena straordinaria (15).

11) In nono luogo deve il giudice osservare se il delinquente abbia commessi altri delitti del medesimo genere, o di genere diverso, giacché dal commettere due, o tre volte un delitto, s'induce la consuetudine di delinquere (16), e si chiamano delitti reiterati, e moltiplicati e perciò deve imporsi una pena più grave di quello //[p.13] che si imporrebbe se avesse commesso un sol delitto.

Questo si osserva spezialmente[sic] in Toscana a tenore della legge 17 dicembre 1744 (17) per cui si ordina, che per i delitti commessi più volte è in arbitrio del giudice, secondo la condizione delle persone, o accrescere la pena pecuniaria, o mutarla in pena afflittiva.

12) Sarà poi più lieve il delitto, e dovrà diminuirsi la pena non solo se vi saranno le sopraddette circostanze, ma anche se vi concorrano altre circostanze che rendono minore il delitto.

13) In decimo luogo deve il giudice ricercare quanto tempo sia scorso doppo il commesso delitto, perché se il reo havrà commesso //[p.14] il delitto dieci anni fa, sebbene in tal tempo non sia prescritto il delitto, la pena del delitto però deve essere più leggiera.

14) Deve in undicesimo luogo il giudice considerare l'età del delinquente perché se il delinquente ha 7 anni o pure 10 anni e +; o ha nove anni e mezzo se è donna, presumesi che in tal'età non vi sia alcun giudizio, e non possa apprendersi la gravità del delitto, non si deve imporre pena alcuna, sebbene ad esempio degl'altri di tale età può un tal delinquente o in publico, o in privato gastigarsi[sic] colla frusta, se poi è prossimo alla pubertà, o l'ha appena passata presumendosi che non habbia il perfetto uso della ragione, deve //[p.15] diminuirsi la pena del delitto, se non è convinto dal dolo manifesto, e dalla malizia positiva.

Ma se il delinquente havrà compiuti 18 anni chiamandosi di maggiore età in tutte le sue operazioni, e cosi anche rispetto ai delitti, e presumendosi che habbia delinquito per dolo, e per malizia positiva; però non si deve diminuire, ma si deve imporre onninamente la pena secondo del delitto, in vigore della detta legge del 1744 (18) spezialmente[sic] in Toscana o siano i delinquenti sudditi, o forestieri, non dovendosi attendere la disposizione delle leggi statutarie; o la contraria consuetudine della patria del delinquente.

15) Finalmente in dodicesimo luogo //[p.16] deve osservare il giudice, se il deliquente habbia fatto transazione o pace coll'offeso, oppure abbia da lui ottenuto il perdono del delitto, e sebbene questa transazione o pace non estingua il delitto, ma solo diminuisca l'accusa tutta volta diminuisce la pena del delitto, (19) se pure il delitto non é grave ne atroce: purchè per la trasazione (20) sia stata in tutto, e per tutto adempita perchè se non è stata adempita si presume stata con inganno, e l'offeso non perde l'azione criminale, benché avesse a quella rinunziato col giuramento, né può la transazione operare il suo effetto, cioè non può diminuire la pena fino a che secondo la detta legge del 1744 (21) //[17] non è stata la detta transazione adempita.

Tit. 3o

Del Giudizio o del Processo Criminale

1) Il giudizio è un trattare, un disputare, e un giudicare conforme alle leggi intorno a una controversia, tra l'attore, e il reo, d’avanti ad un giudice competente.

2) Sebbene però giudizio, e processo si confondano tra di loro, ed uno si prenda per l'altro, nulla di meno, è differente il processo dal giudizio perché il giudizio vuol dire dissettazione fatta nel Tribunale; processo poi vuol dire maniera, forma, ordine, e metodo con cui si procede in giudizio //[p.18].

3) Giudizio criminale pertanto si dice, allora quando si agisce per applicare principalmente la pena al Fisco, o s'imponga pena corporale, o pecuniaria, ancorché qualche parte della pena in vigore di una medesima legge si applichi a una persona privata; se poi parte della pena si applichi a questa persona privata in vigore di legge diversa allora si chiama giudizio misto.

4) Dal delitto nascono due azioni una civile, l'altra criminale, regolarmente non possono proporsi nel medesimo tempo separatamente queste due azioni; ma proposta in primo luogo l'azione criminale, solo per incidenza //[p.19] può chiedersi l'interesse privato possono però queste due azioni proporsi separatamente una doppo l'altra, se tendono a cose diverse, non già se tendono a una medesima cosa, perché allora una impedisce l'altra.

5) Il giudizio civile resta sospeso per il giudizio criminale V:G: se il reo convenuto civilmente oppone che i testimoni o le scritture prodotte dall'attore sono false in questo caso deve prima terminarsi il giudizio criminale, perché la sentenza, da darsi in questo, o conferma l'azione a favore dell'attore, o somministra al reo eccezzioni[sic] nel giudizio civile //[p.20].

Tit. 4o

Della Competenza del Giudice

1) E' certo che qualsivoglia giudizio, o civile, o criminale, deve incominciare d'avanti al giudice competente.

2) Giudice competente nei delitti criminali è quello che ha l'impero mero.

3) L'impero mero è una somma autorità per mezzo della quale si esercita una somma giurisdizione, cioè si puniscono, i facinorosi, e si condannano anche a morte gli scelerati[sic].

4) La competenza del giudice nasce generalmente da tre ragioni cioè o per ragion del luogo, o della persona, o della causa //[p.21].

5) Per parlare primieramente[sic] del luogo è di tre sorte primo il luogo del commesso delitto, il luogo del domicilio, e il luogo dell'origine.

6) Per ragion del luogo, è competente il giudice se il delitto è stato commesso in quel luogo in cui è giudice ancorché il reo non sia sottoposto alla sua giurisdizione.

7) Per ragion del domicilio diventa il giudice competente, e per domicilio s'intende il luogo in cui abita, con animo di starvi sempre, e non a tempo, perché se avesse animo di starvi a tempo, quel luogo si chiamerebbe habitatio e non domicilium. L'animo poi di starvi per sempre o si dimostra espressamente con parole, //[p.22] o si ricava da qualche fatto, spezialmente[sic] dalla lunga e continua abitazione almeno di 10 anni.

8) Finalmente l'origine del delinquente fa il giudice competente o vi sia nato il proprio delinquente, o vi sia nato il padre, o il nonno, e questo vale più che se vi fosse nato il delinquente stesso.

9) In molti regni si usa che per ragione dell'origine alcuno riconosce il foro del paese in cui ha avuto l'origine tanto nella cause civili che criminali purché non sia andato ad abitare altrove perché se è andato ad abitare altrove può essere convenuto solamente //[p.23] nel luogo dove abita.

10) Potendosi dunque dar la querela ad un delinquente in questi tre fori, e non convenendo che il reo sia querelato in più luoghi per questo deve sempre anteporre il giudice del luogo in cui è stato commesso il delitto, perché egli più d'ogni altro può essere informato del delitto, e del delinquente, perché la maestà d'un tal giudice essendo la più offesa deve vendicare il delitto più d'ogni altro, onde se il delinquente

non è stato catturato nel luogo del commesso delitto, ma è fuggito in altro territorio, allora con lettera sussidiaria può ricercarsi il giudice sotto di cui è il reo perché rimetta il delinquente al luogo //[p.24] dove ha commesso il delitto il che, se il giudice, è sotto il medesimo principe deve farlo per necesità, se è sotto diverso Principe deve farlo per umanità.

11) Il giudice è competente, se il delinquente è sottoposto alla giurisdizione talmente che se il reo, è secolare, è sottoposto al giudice secolare, se è ecclesiastico è sottoposto al giudice ecclesiastico talmente che secondo la diversità del delitto acquista il giudice la giurisdizione.

12) Dunque se il delitto per ragion della materia è ecclesiastico, come sarebbe l'eresia, la simonia che offendono le cose spirituali, siano tali delitti commessi da chiunque, o sia cherico[sic] //[25] o secolare, ne è cognitore il giudice ecclesiastico. E parimente il delitto per ragion del subietto[sic], cioè della persona dà la giurisdizione al giudice V:G: un cherico[sic] commette un omicidio, un furto, ne è cognitore il giudice ecclesiastico.

13) Se poi i delitti sono meramente civili, o secolari tanto per ragioni della materia, che per ragioni del subietto[sic], cioè sono commessi in luoghi non sacri, da persone secolari, e in casa o da persone profane ne appartiene la cognizione al giudice secolare.

14) Se poi i delitti sono misti, per i quali non solo si offendono le cose temporali, ma anche le spirituali, come sarebbe il //[p.26] sacrilegio, la bestemmia, il sortilegio, lo spergiuro, l'adulterio, il concubinato, la sodomia ne potrà esser cognitore tanto il giudice ecclesiastico che il secolare, data però tra loro la prevenzione se pure il reo non è cherico[sic], che in tal caso ne è cognitore il solo giudice ecclesiastico.

15) Ma potendosi incominciare dal giudice competente il giudizio in tre modi, cioè o coll'accusa, o colla denunzia, o coll'inquisizione passiamo a parlare di ciascheduna di esse (22) .

Tit. V

Dell'Accusa

1) Ogn'uno[sic] può accusare, o querelare qualunque persona che gli fa //[p.27] qualche danno, o qualche ingiuria.

2) L'accusa è la maniera ordinaria d'incominciare il giudizio criminale, e si definisce Delatio alicuius criminis ad publicam vindictam principaliter factam" (23).

3) Quest’accusa perché oggi giorno si fa senza alcuna solennità però non si chiama accusa, ma querela, e si ammette senza che sia scritta, o soscritta dall'accusatore, cioè senza alcun libello, e subito dall'attuario (24) deve scriversi ancorché l'accusatore non fosse de iure idoneo perché in tal caso l'accusa si reputa per denunzia, e apre al giudice la strada d'inquirere.

4) Le cose sustanziali[sic] dell'accusa in pratica sono queste, cioè //[p.28] l'accusatore deve esprimere il nome, e il cogniome del delinquente, la specie del delitto, il luogo dove è stato commesso, il modo con cui fu commesso, il tempo, l'anno, e il mese, e non è necessario che vi si esprima il giorno, e ora del commesso delitto, perché può temersi che il reo accusato non corrompa i testimoni per provare che egli in tal giorno, e in tal ora era lontano dal luogo del commesso delitto, e così coartando la negativa per mezzo di testimoni corrotti, potrebbe provare la sua innocenza e la falsità dell'accusa //[p.29].

5) Ma se assegniate le difese al reo, egli fa istanza che l'accusatore dica il giorno, e l'ora, dovrà l'accusatore costringersi a dirlo.

6) Se sono più accusatori il giudice non deve ammetterli tutti ma solamente quegli che egli giudicherà più idonei a sostenere l'accusa: quindi è chi reclama contro un'ingiuria fatta a sé, o ai suoi, deve anteporsi agli altri accusatori estranei; in concorso poi di consanguinei deve anteporsi chi è più prossimo di grado. Se poi sono tutti di grado uguale devono ammettersi tutti, e secondo la pratica più comune, nell'accusa devono anteporsi i consanguinei fino al 4o grado solamente, o siano maschi, e agniati o siano cognati e femmine salva la prerogativa del grado, e a quello dei consanguinei cui spetta il gius d'accusare spetta anche il far la pace; e far transazion del delitto, essendo correlativi accusare, e rimettere //[p.30].

7) Quegli accusatori che cominciato il processo del delitto cessano di mantenere l'accusa si chiamano tergiversatori.

8) Gli accusatori poi che fanno collusioni col reo in pregiudizio al fisco, cioè con accusare leggermente, e con somministrare segretamente difese al reo si chiamano prevaricatori.

9) Gli accusatori e istigatori che fanno per il Fisco si dà copia del processo, o almeno gli si mostra accioché[sic] disponghino il tutto contro il reo, il che non si pratica prima che il processo non sia publicato[sic] per timore che i testimoni non siano subornati, se non richiede diversamente la gravità del delitto nel qual caso il giudice accorto non suol dire il nome dei testimoni da esaminarsi.

10) L'accusatore dovrà punirsi con //[p.31] pena arbitraria se l'inquisito prova che l'accusatore lo ha calunniato, e questa pena arbitraria secondo le circostanze del fatto, dell'accusatore dell'offeso, e secondo altre circostanze potrà estendersi fino alla morte, con giunta la refezione de danni (25) delle spese, e dell'interesse, o vantaggio del calunniato.

11) Se l'accusatore non prova pienamente ma solo semipienamente l'accusa, oppure havrà somministrato indizi per inquirere o havrà avuto un giusto motivo d'accusare non devesi condannare in pena alcuna, neppure alla refezione delle spese, e in Toscana si pratica, che quando l'accusato oppone di essere calunniato dall'accusatore, e chiede che gli sieno rifatti i danni, e le spese, si assegna //[p.32] un termine a detto accusatore a provare la causa, per cui non deva essere condannato di calunnia (26).

Tit. VI

Della Denunzia

1) La denunzia è una manifestazione di qualche delitto d'avanti a un giudice competente.

2) Ogn'uno[sic] può denunziare, e chi denunzia non è tenuto a provare il delitto, com’è tenuto l'accusatore.

3) In Toscana dalle comunità si eleggono ogn'anno[sic] i Sindaci dei Malefici (27) i quali sono obligati[sic] a denunziare ai giudici qualunque delitto, salvo che le ferite la denunzia delle quali spetta ai cerusici che le medicano. Perloché se i Sindaci non denunzieranno //[p.33] i delitti, o indugeranno a denunziarli senza legittima scusa, come sarebbe se i delitti fossero stati commessi in un bosco, o in altro luogo remoto, o perché un altro ha accusato il delinquente, o perché il giudice provvede già ex officio sono puniti detti Sindaci con le pene determinate, e se un Sindaco per far servizio al delinquente non solo non avesse denunziato il delitto, ma avesse riportato dal reo scritta d'obbligazione di rifargli i danni, e le spese, il Sindaco in vigore di detta obbligazione, non può repetere la refezione di detti danni, e spese.

4) Le cose sostanziali della denunzia sono, che il denunziatore deve dire il luogo del commesso delitto, il tempo, la persona del elinquente, col nome, e cogniome, la qualità della persona offesa //p.34], la qualità del delitto con tutte le circostanze che possino rendere il delitto più grave V:G: se un omicidio fosse commesso con armi proibite , e perché tali denunzie sogliono farsi dai Sindaci, o da altre persone ignioranti; però avvertono i giudici che detti Sindaci nello scrivere dette denunzie usino parole del tutto chiare.

5) L'effetto della denunzia, è aprire la strada al giudice per inquirere, cioè per chiamare i testimoni e per usare le altre cautele, per provare il corpo del delitto, e successivamente formare l'inquisizione contro il delinquente.

6) Se poi la denunzia è fatta da un ufizziale[sic] non solo destinato a denunziare, ma anche per guardia di beni la denunzia che fa in vigor del giuramento che ha preso //[p.35] nel principio del suo ufizzi[sic], non solo basta per informare, ma basta anche per condannare se pure il denunziato non prova la sua innocenza.

7) Può il giudice ammettere per testimone un publico denunziante il quale rappresentando doppia persona per quel che egli sia publicamente, potrà denunziare, e come persona privata potrà fare da testimone.

8) Un denunziatore privato poi sebbene non possa ammettersi regolarmente per testimone, tutta volta se vi son poche prove, e dagli atti non costa che egli è stato il denunziatore, ma il giudice dell’inquisizione dice che è giunto alle sue orecchie essere stato commesso il tal delitto, in questo caso //[p.36] potrà esaminarsi come testimone.

9) Se si prova che il singolo abbia denunziato il falso sapendolo, deve punirsi con pena di falso, e devesi condannare nelle spese, e de iure quand’anche non restasse provato il delitto, che egli ha denunziato dovrebbe punirsi ad arbitrio del giudice o almeno condannarsi nelle spese; per consetudine generale però basta che il denunziatore tanto publico che privato proponga testimoni informati.

Tit. VII

Dell’Inquisizione

1) In qualunque modo si cominci il processo criminale, o per accusa, o per denuncia, o ex officio: sempre si ricerca o la verità del delitto, o la verità dell’innocenza //[p.37].

2) Questa parola inquisitio una parola generale, e pare che si stenda ad ogni processo criminale, ma gl’interpreti gli danno un significato particolare, e dicono che questa parola inquisitio specifice, denotet procedendi modum. Il qual modo sia distinto dall’accusa, e dalla denunzia, e vogliono che si dica inquisitio quando il giudice ex mero officio reos inquisit perché vi manca l’accusatore, o il denunziatore.

3) Oggi giorno però vi sia o non vi sia l’accusatore, o il denunziatore, tendendo sempre l’inquisizione al medesimo fine di trovare cioè la verità, o del delitto o dell’innocenza, s’esprime nel principio dell’inquisizione, che si procede non minus ex officio quam ad accusationem //[p.38] vel querelam (28)

4) Cosi si usa in Toscana giacché eccettuato l’adulterio e lo stupro, iudex in omnibus delictis indistinte[sic] ex officio inquisit (29).

5) L’inquisizione si definisce cosi Delicti informatio per iudicem ex officio assumptam (30).

6) L’inquisizione, è di 2 sorte, altra generale, altra speciale (31).

7) L’inquisizione generale è quella che essendo manifesto il delitto, e non sapendosi il delinquente, si fa dal giudice con ricercare in genere chi habbia commesso il delitto e questa si chiama preparatoria ad investigandum delinquentem.

8) L’inquisizione speciale è quando il giudice per l’accusa, o per la denunzia, o in qualche altro modo //[p.39] specialiter inquisit contra certam personam, tam curie[sic] notam (32), e questa come solenne, e ordinaria, è diretta a condannare, e a punire.

9) Ma perché il giudice valide inquirat cioè perché il giudice medesimo ex officio esamini i testimoni, e prenda informazioni del delitto, e del delinquente vi si ricercano più cose.

10) Primo che il giudice habbia l’impero mero, e sia competente rispetto al reo.

11) Secondo che costi del corpo del delitto, cioè che il misfatto sia stato commesso perché mancando la prova del corpo del delitto in una causa criminale il giudice non può mai procedere ad atto alcuno, purché qualche urgente motivo non persuada diversamente, perché si periculum //[p.40] est in mora, cioè se può temersi che il reo non fugga mentre si cercano le prove, e può temersi che il reo non si metta in sicuro sarà meglio farlo catturare innanzi, non perché egli sia giudicato reo, ma perché gli si tolga la facoltà di fuggire (33).

12) In terzo luogo si ricerca che precedano alcuni indizi contro qualcuno, i quali siano reputati legittimi dal giudice; benché per altro questo tale non sia diffamato come reo.

13) In quarto luogo si ricerca che il delitto non sia estinto, cioè che non sia prescritto, o che il reo sia stato assoluto, o che habbia avuto la grazia, e se è stato condannato abbia sofferto la pena, oppure si sia composto col Fisco //[p.41].

14) Concorrendovi tutte queste cose dovranno i giudici usare ogni industria in ricercare tutte quelle cose che credono che in specie possano contribuire a provare il delitto, acciocché dall’informazioni prese e dagl’indizi possano eleggere la serie del fatto, la quale poi devono portare nel libello dell’inquisizione il quale doppo le prove legittime del delitto, e del delinquente, cioè doppo compito il processo informativo, deva formarsi, e intimarsi al reo.

Note al libro I

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(1) Il manoscritto qui commette un errore, una svista. Sicuramente bisogna leggere si chiamano e non si chiamo come è scritto nel testo originale.

(2) V:G: sono le iniziali di verbi gratia che così viene abbreviato in tutto il manoscritto

(3) La distinzione tra delitti di "fatto permanente" e delitti di "fatto transeunte" si trova per la prima volta nel V libro dell’opera Receptae Sententiae (1570) di Giulio Claro. Essa consentiva, riguardo alla seconda categoria di delitti, di passare immediatamente alla fase della inquisitio specialis, pur non avendo a disposizione tracce materiali certe della effettiva commissione del reato. Tale differenziazione accentuò il processo di "dematerializzazione" della dottrina del constare de delicto, e mantenne la sua autorità almeno fino alla metà del secolo XVIII (vedi ALBERTO GARGANI, Dal corpus delicti ai Tatbestand. Le origini della tipicità penale, Milano 1997, 206-212).

(4) CARLO CALISSE, nella sua Storia del Diritto Penale Italiano, Firenze 1895, alle pagine 246-254 dedicate alle Pene Corporali nel periodo del cosidetto "predominio neo-latino", spiega che generalmente i rei venivano puniti nelle parti che avevano costituito lo strumento del reato.Tale criterio, secondo FARINACCIO, si deve applicare quando la legge prevede una amputazione senza specificare di quale membro.

Inoltre sia lui che altri giuristi sostengono che la discrezione del giudice debba sempre dirigersi nel senso della mitigazione della pena.

(5) MARC’ANTONIO SAVELLI, Pratica Universale, Firenze 1696, n. 204, XXII. La parola Rettori si trova alle 346-354.

(6) MARC’ANTONIO SAVELLI, Pratica Universale, Firenze 1696, XII.

(7) Questa classificazione, eccettuata la categoria dei delitti da parteciparsi e da non parteciparsi che è propria della Toscana, riprende quelle fatte dai criminalisti dei secoli precedenti ed ormai divenute tipiche. Il punto di partenza è, anche per il Borghi, il diritto romano, sebbene si notino alcune concessioni alla consuetudine ed alla pratica. Inoltre, quando si tratta dei delitti dolosi, colposi e casuali è rintracciabile un riferimento alle idee del Farinaccio che iniziò ad abbandonare queste distinzioni ferme alla esteriorità delle cose, e spesso foriere di incertezze nella pratica, per guardare al reato in se stesso, cercando di scoprirne la natura (vedi CALISSE, Storia del Diritto Penale Italiano, 267-271).

(8) Su questo punto Borghi aderisce all'opinione enunciata in vari passi del Codice, anche se nel diritto romano non c'è unanimità sulla questione.

(9) Anche nel diritto romano si aggravava la pena per l'idea che il reato avesse violato anche il rispetto della religione (vedi CALISSE, Storia del Diritto Penale Italiano, 206).

(10) Se il reato viene commesso nei giorni dedicati a feste solenni, di cui molti statuti forniscono un elenco dettagliato, la pena è raddoppiata o comunque aggravata (vedi CALISSE, 206-207).

(11) Concetto ripreso da PROSPERO FARINACCI (FARINACCIO), Praxis et Theoricae Criminalis, parte I, titolo I, q.18, n.66, Venezia 1595, fo. 170, in cui si dice che se il reato è commesso di notte va punito più gravemente.

(12) I giuristi laici riprendono dai canonisti il concetto secondo cui l'ipocrisia debba considerarsi circostanza aggravante, ma è un concetto più morale che giuridico come dice Calisse (vedi CALISSE, 209). Qui Borghi cita un passo di GIULIO CLARO, Receptae Sententiae, libro V, § XXI, q. 60, fo. 169 e seguenti, Venezia 1595.

(13) La legge del 9 settembre 1681, citata dal SAVELLI, Pratica Universale, § Ladri, n. 27, 235, stabilisce le pene con cui devono punirsi i ladri nel dominio fiorentino. Tale legge, con il titolo Ordinatione da osservarsi in materia di furti, viene riportata per esteso da LORENZO CANTINI, Legislazione Toscana, XIX, Firenze 1805, 235-242.

(14) Questa legge è riportata da LORENZO CANTINI con il titolo Ordini diversi da osservarsi nelle cause criminali, in "Legislazione Toscana", XXV, Firenze 1804, 154-163. Fu emanata da Francesco III con l'ordine di mantenere in tutte le sue parti, e di rimettere in osservanza nei limiti della compatibilità con i presenti nuovi ordini la legge sui furti del 1681.

(15) Secondo il diritto comune reato tentato o mancato e reato commesso si puniscono con la stessa pena. Invece, secondo la consuetudine generale e secondo molti statuti la pena ordinaria, esclusi i reati atrocissimi, è mitigata per il reato tentato o mancato. Borghi aderisce alla seconda opinione.

(16) La consuetudo delinquendi è già studiata e disciplinata dal diritto romano che per essa prevede una pena maggiore di quella ordinaria ( vedi D., 48, 19, 16 ).

(17) Vedi la nota n.14.

(18) vedi nota 14.

(19) Gli statuti prevedevano che nei reati non gravi la pace desse l'impunità; in quelli gravi mitigasse la pena; mentre in quelli gravissimi non desse diritto ad alcuna riduzione. Ma al tempo del Borghi le "investigazioni filosofiche", come dice il Calisse, avevano portato a considerare il reato non soltanto come un’offesa all'individuo. Quindi il numero dei reati che davano adito all'impunità se c'era la pacificazione erano di molto diminuiti (vedi CALISSE, 232-233).

(20) Nel manoscritto certe volte troviamo trasazione, altre volte transazione ma non c'é differenza.

(21) Vedi la nota n. 14.

(22) Fu Innocenzo III, nella fondamentale Decretale Licet heli, a fissare il principio secondo il quale il prelato, al fine di correggere gli eccessi dei sudditi, può procedere nei loro confronti con tre possibili forme procedimentali: accusatio, denunciatio e, infine, inquisitio (vedi GARGANI, Dal corpus delicti al Tatbestand, 167-172).

(23) Per questa definizione vedi CARLO PELLEGRINO, Praxis vicariorum et omnium in utroque foro iusdicentium, parte IV, sezione III, n.1, Venezia 1686, 304.

(24) Attuario, colui che è deputato a ricevere, registrare e conservare gli atti nei tribunali: notaio degli atti giudiziari, cancelliere. Questa definizione è tratta da GIULIO REZASCO, Dizionario del Linguaggio Italiano Storico ed Amministrativo, Bologna 1881. Ancora alla fine del ‘700 i vicari granducali oberati da masse di affari giurisdizionali potevano assumere, pagandoli di tasca propria, dei coadiutori tra quelli messi a loro disposizione dal Supremo Tribunale di Giustizia. Ad essi venivano affidate singole pratiche ed anche interi processi. I notai del criminale, ad esempio, erano i veri arbitri della giurisdizione criminale, in quanto tenevano saldamente in mano tutta l’istruttoria penale (vedi MARIO MONTORZI, Il notaio di Tribunale come pubblico funzionario.., Roma 1985, 24-27).

(25) Refezione, risarcimento, ristoro

(26) Nel dibattito settecentesco tra i sostenitori del sistema inquisitorio ed i sostenitori di quello accusatorio i secondi, pur ritenendo che l’accusa privata garantisse meglio i diritti del cittadino, cercavano di trovare la maniera più efficace per combattere il fenomeno della calunnia. Il Borghi dimostra che anche nella pratica il problema era sentito, e che in Toscana le persone non erano totalmente sprovviste di rimedi contro i calunniatori. Su tali questioni vedi ETTORE DEZZA, Note su accusa e inquisizione nella dottrina settecentesca, in Saggi di storia del diritto penale moderno, Milano 1992, 13-68.

(27) Sindaco dei malefizi, o semplicemente Sindaco, ufficiale denunziatore dei malefizi e con altre faccende di amministrazione, particolarmente nelle comunità rurali di una parte della Toscana dove qualche volta prese l'aspetto di massaro e simili. Nel contado di Firenze, dove è detto anche Rettore, il sindaco è un ufficiale molto antico che denunciava i malefizi ed i danni delle strade, annoverava la popolazione ne teneva nota e riscuoteva le imposte ed aveva anche altri compiti di minore importanza. Cosimo I dei Medici confermò questi sindaci: uno in ciascuna comunità, eletti dai comunisti. Invece a Firenze ce n'erano 50. Però da Firenze furono spazzati via nel 1700 (evidentemente dopo la metà del secolo, se il Borghi ne parla ancora) perché tra loro si trovavano "spie e relatori". Tale voce è tratta da GIULIO REZASCO, Dizionario del Linguaggio Italiano Storico ed Amministrativo, Bologna 1881.

(28) Vedi SAVELLI, Pratica Universale, Prefazione, n. 9, II.

(29) Tratto liberamente dalla gl. Si praetor, in l. Si praetor; D. 5.1.75 (vedi ESTEVAN DAOYZ, Iuris civilis summa, seu index copiosus, vol. I, alla parola Inquirere, 560).

(30) FARINACCIO, Praxis et theoricae criminalis, libro I, titolo I De inquisitione, q. I, fo. 2-8.

(31) Per la distinzione tra inquisizione speciale e generale, cfr. FARINACCIO alla questione citata nella nota precedente.

(32) Citazione libera dalla gl. Ab universitate, in cap. Vassalli, De pace Constantiae, Institutiones Iustiniani (vedi DAOYZ, Iuris civilis summa, vol. I, alla parola Inquirere, 560).

(33) Da questo passo del Borghi si evince che, sebbene dal punto di vista teorico il primo requisito dell’inquisizione fosse sempre considerato il corpo del reato, tuttavia le esigenze della prassi imponevano certe volte delle eccezioni a tale principio .

Libro II

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Tit. I

Della Prova del Delitto in Genere

//[p.42]

1) Nei giudizi perché qualche cosa non sia, o non appaia come dovrebbe apparire, sono due cose che hanno ugual forza; e però sono assoluti[sic] molti accusatori non perché siano innocenti, ma perché mancano le prove al fisco, perché se l’accusatore non prova il delitto ancorché il reo non adducesse cosa alcuna per provare la sua innocenza deve assolversi però l’accusatore, e il fisco deve usare ogni attenzione in ricercare da //[p.43] ogni parte quegl’indizi, che credono possino contribuire a provare il delitto.

2) La prova est rei dubie (1) per ea quae certa sunt legiptime[sic] iudici factademonstratio.

3) La prova si distingue in piena, e semipiena. La prova piena è quella ex qua iudex omni esitatione, et dubio remoto adeo de delicto et de delinquente persuasusremanet, ut ad eum condemnandum procedat.

4) Questa persuasione nell’animo del giudice si induce per mezzo di due testimoni maggiori d’ogni eccezzione[sic], per mezzo di contesti, per mezzo della confessione dell’istesso reo, per mezzo di documenti manifestissimi, e per mezzo d’indizi certi, e indubitati.

5) La prova semipiena, è quella //[p.44] per quem fit aliqua fides iudice sed non tanta, ut eam inferenda sententia sequi possit, vel teneat.

6) Ma questa prova semipiena o conchiude perfettamente, cioè perché vi è un testimone omni exceptione maior, il quale immediatamente depone del delitto V:G: perché dice di aver veduto Tizio dare delle ferite a Caio, e si chiama semipiena in specie, e basta per la tortura.

7) Oppure la prova semipiena conclude solo imperfecte V:G: la prova della pubblica fama delle dicerie sparse contro l’accusato, la fuga del medesimo ed altre simili cose, e queste si chiamano prove minori semipiene, e ciascheduna cagiona qualche sospetto nell’animo del giudice, e però bastano solo per inquirere, cioè per prendere informazione //[p.45] del delitto, e del delinquente, et anco secondo altri bastano per la cattura, non perché il reo possa essere catturato, ma perché non possa fugire[sic].

8) Ma se queste prove minori semipiene sono congiunte con altri indizi, e così faciunt graviorem presumptionem, allora se il reo è presente, bastano per esaminarlo, e se è lontano, bastano per trasmettergli l’inquisitione[sic], e queste si chiamano, minores semiplene[sic] probationes.

9) Il delitto si prova in due modi: primo in genere, secondo in specie.

Si prova in genere, cum probatum factum; a quo nascitur delictum. Si deve però distinguere se il fatto subiciatur oculis, et sit factumpermanens, oppure non sit subiectum oculis, nec aliquod post se vestigium relinquat, //[p.46] et sit factum transiens.

10) La prova in genere si fa in due modi primo: ex recognitione rei in qua delictum adest, e si chiama corpus facti, seu materiale delicti 2o: si fa per recognizione vestigiorum. V:G: vulnerum in corpore remansorum et corpus delicti, seu formale delicti appellati.

11) Il primo estremo si fa coll’oculare ispezione del giudice o del notaio o de testimoni la quale ispezione volgarmente si dice visum, et repertum, e si chiama così, perché così ordinariamente suol cominciarsi la descrizione, e l’ispezione. V:G: visum et repertum fuit cadaver.

12) Questa ispezione deve registrarsi in atti; giacché il notaro è tenuto a descrivere tutto ciò che ha veduto coram testibus V:G: se si tratta //[p.47] d’un omicidio, è tenuto a descrivere il morto, le di lui ferite, in qual parte del corpo le habbia con qual genere d’armi siano state fatte, e sopra queste cose devono esaminarsi i testimoni, e interrogarli se conoscevano l’ucciso, e qual nome, e cogniome egli avesse.

13) In molti tribunali si pratica far le sopraddette ricognizioni in presenza di testimoni, senza però esaminarli, e così si pratica in Toscana.

14) Il secondo estremo, per continuare l’esempio dell’omicidio si adempie con esaminare due periti, i quali riconoscano il luogo, e la qualità delle ferite, e deponghino se sieno mortali si, o no, se il ferito sia morto per quelle ferite si, o no con qual genere d’armi sieno state fatte quelle ferite, //[p.48] e se siano state fatte di punta, di stoccata, di taglio e d’altre simili qualità.

15) Se poi il fatto è visibile, e non lascia doppo sé contrassegni certi, perché è delitto di fatto transeunte, se è un fatto tale che non saranno stati presenti testimoni del corpo del delitto resterà provato a sufficienza dagli indizi, e dalle congetture.

16) Ma per spiegare con più chiarezza il delitto di fatto permanente dobbiamo qui esaminare alcune cose rispetto ai di lui estremi.

17) Primo si dubita come possa provarsi il corpo del fatto, dove non si trova chi riconosca il cadavere, perché forse l’ucciso, è forestiero, o è senza capo.

18) In questo caso si deve distinguere, //[p.49] o costa del delinquente, o non costa.

19) Se costa per procedere contro di lui, basta che si trovi il corpo dell’ucciso; benché non si sappia il di lui nome, e cogniome.

20) Se poi non costa né dell’ucciso né del delinquente si cercherà d’indagare la cognizione dell’ucciso nel modo che io dirò, e questo supplirà ad una prova di tal sorte. Il giudice farà esporre in pubblico il corpo dell’ucciso, e vi farà assistere molti da lui scelti, perché poi gli riportino tutto quello che sarà detto di quel cadavere da quelli che vi si accostano; giacché dal delitto ora di questo ora di quello potrà facilmente giungersi a conoscer l’ucciso.

21) Che se una tal diligenza non basta, gioverà usare un’altra cautela, //[p.50] cioè descrivere con ogni esattezza l’effigie, l’età, la statura, e i vestiti dell’ucciso giacché da questi alle volte il giudice può venire in cognizione del cadavere, e anche del delinquente.

22) In secondo luogo può dubitarsi del modo con cui possa provarsi il corpo del fatto, e il corpo del delitto, quando il corpo del fatto, cioè il corpo dell’ucciso, o non vi è più o è in luogo immune.

23) E infatti se il luogo del fatto non vi è più, o perchè sia stato sommerso nelle acque, o sia stato bruciato, o sia corrotto, o sia stato in tal forma occultato, che con tutte le diligenze non si trova più allora resta provato il delitto rispetto al materiale, e al formale per mezzo di testimoni onesti, e contesti, se il delitto //[p.51] fu commesso in presenza di testimoni.

24) Se poi mancano i testimoni si deve ricorrere alla fama, e se la fama resterà provata da due testimoni contesti, e sarà veemens[sic] contra certam personam resterà provato anche in questa forma il delitto, sebbene gli accorti criminalisti in questo caso, per provare la fama sogliono esaminare sette testimoni.

25) Che se manca il corpo del delitto, perché è stato bruciato il corpo [dell’] ucciso allora per provare il delitto ne suoi respettivi casi non basteranno i soli testimoni né la fama, ma dovrà farsi anche la recognizione delle ceneri, essendo la cenere del corpo umano abbruciato molto bianca.

26) E similmente quando il corpo si trovasse spogliato di carni allora //[p.52] devino descriversi tutte le ossa, e deve riconoscersi esser ossa di corpo umano.

27) Se poi vi è il cadavere, ed è sepolto in Chiesa il giudice con licenza del Vescovo deve provvedere a farlo disotterrare[sic], e perché resti provato il delitto lo deve riconoscere in presenza di testimoni fattolo portare fuori di Chiesa la qual licenza il Vescovo può, e suol concedere, perché i delitti non restino impuniti senza che il giudice incorra nell’irregolarità; ma se il Vescovo negasse tal licenza, e il giudice lo facesse disotterrare[sic] violerebbe l’Ecclesiastica Immnunità, e incorrerebbe nelle Censure Ecclesiastiche, ma la prova di un tal delitto a mio credere sarebbe valida; la più sicura però sarà se il giudice ricorrerà al Metropolitano, o altro Superiore Ordinario, //[p.53] o lasciato questo rimedio di appello, in cambio dell’attuale ispezione farà la prova per mezzo de testimoni, e così molte volte si è praticato in Toscana.

28) In terzo luogo può succedere che apparisca il corpo del |delitto|del|anzi (2)|del fatto; e così sia evidente il materiale del delitto, e sia poi dubbioso il corpo, o il formale del delitto, V:G: si trova un cadavere sommerso in un fiume, in un pozzo, o in una cisterna, oppure si trova precipitato da alto, o allacciato ad un laccio, o con le fauci tagliate, o con la gola aperta, o in altre forme simili nelle quali poté succedere la morte, o a caso, o per dolo, o perché l’ucciso per disperazione o per pazzia si è da per se stesso sommerso, precipitato, impiccato, strangolato.

29) In questo caso costerà del corpo //[p.54] del delitto, e per parlare con più chiarezza costerà che alcuno sia stato scelleratamente ammazzato da un altro, non solo per mezzo di testimoni, e della fama, ma anche per mezzo d’indizi e di presunzioni.

30) Gl’ indizi che appariscono nel cadavere, V:G: molte concussioni, ferite, contrassegni rimasti nelle dita delle mani colle quali è stato strangolato, e tali indizi prevengono il delitto; come per lo contrario prova che si è ferito da sé chi ha in mano il pugniale, o chi si è lasciato cadere sopra la spada, o chi attaccato a un laccio é stato trovato con le mani sciolte.

31) Le presunzioni poi che provano il delitto sono: l’inimicizie capitali, le contese, le risse, le minaccie fatte da qualcuno ad un altro; //[p.55] e le presunzioni che mostrano che il delitto non è stato commeso da un altro sono se si provasse che l’ucciso era pazzo ipocondrico[sic]

frenetico che altre volte avesse tentato per qualche disgrazia accadutagli, e preso da disperazione avesse tentato di precipitarsi, impiccarsi, ferirsi, e fosse stato impedito; perché queste sarebbero presunzioni, che egli si fosse ammazzato da sé.

Tit. II

Della Prova del Delitto in Specie

Il delitto si prova in specie quando si prova chi è l’autore del delitto, il che succede, o colla propria confessione dell’istesso delinquente, o colla confessione giudiciale spontanea, o colla confessione giudiciale forzata, o con la confessione //[p.56] stragiudiciale, o con la finta il che succede per la forza del reo, o finalmente si prova con apertissimi documenti, o con idonei testimoni, o con indizi indubitati (3).

Tit. III

Della Confessione Giudiciale Spontanea

Confessione giudiciale spontanea, si dice quella che si fa dal delinquente, d’avanti al giudice competente che siede pro tribunali, e in figura di giudizio precedendo però legittimi interrogatorii dell’istesso giudice, e questa confessione se è pura, e semplice e non condizionata, o qualificata, basta per condannare il reo nella pena ordinaria ancorché non sia stata giurata, né ratificata.

Ma di tale //[p.57] confessione più diffusamente a libro III: de Reo Costituto seu examinando tit.[III] (4).

Tit. IV

Della Confessione Forzata

La confessione forzata è quella que[sic] nec libere nec sponte fit, sed a iudice per torturam extorquatur perché se il reo non vuol confessare spontaneamente il delitto il giudice può costringerlo per via di tormenti a confessare, e questa confessione giudiciale basta ancora per condannare il reo nella pena ordinaria purché sia data la tortura legittimis[sic] precedentibus indiciis, e purché il reo dopo i tormenti habbia ratificata la sua confessione e di tal confessione ne tratteremo nel libro 4o [rectius 3o] al tit. [VI] de Tortura Reorum //[58] (5)

TITOLO V

Della Confessione Finta

1) Confessione finta è quella, che resulta dalla contumacia in vigor di statuto, o di costituzione, o di consuetudine; giacché compito il processo informativo dal giudice o dal notaio, si stende, e si forma l’inquisizione, e si cita il reo a comparire nel termine di tre giorni, e a rispondere all’inquisizione formata contro di lui, e se il reo è moroso si cita per la seconda volta, e se neppure la seconda volta comparisce si cita con pubblico editto con affigere[sic] la cedola ai luoghi publici, e consueti, con assegniare al reo cinque giorni per ultimo, e perentorio termine. // [p.59]

2) Se dunque doppo tre citazioni il reo non comparisce, ma seguita ad essere contumace, per questa sua contumacia, si reputa per confesso, e convinto, non de iure communi, sed vigore particularium statutorum, e può condannarsi nella pena ordinaria.

3) Deve però osservarsi che il reo lontano non può citarsi in vigore di queste leggi municipali, se sopra tutto non costa del corpo del delitto, e del delinquente per legittimi indizi, che secondo il sentimento più comune sieno sufficienti per la tortura, e per i quali potrebbe l’inquisito esser condannato nella pena straordinaria, se fosse presente, ma di tal confessione ne tratteremo più diffusamente // [p.60] nel libro 3o al tit. [I] de Rei Citatione.

TITOLO VI

Della Confessione Stragiudiziale

1) La confessione stragiudiciale si fa dal reo di propria bocca, ma in presenza d’ogni altra persona fuori che del giudice, e se si fa in persona del giudice cioè alla di lui presenza non però nel luogo del giudizio, e se si fa nel luogo del giudizio, non si fa in actu iudicis presente scilicet , et parato ad scribendum notario, e se si fa in actu iudicis non si fa però coram iudicem competentem, come sarebbe se un cherico[sic] confessasse il delitto d’avanti a un giudice secolare, imperciochè un tal giudizio //[p.61] si rende nullo per l’incompetenza del giudice, e tutto ciò che il reo ha detto in un tal giudizio si chiama detto stragiudicialmente.

2) La confessione stragiudiciale, alle volte fa una prova piena; e alle volte semipiena.

3) Fa una prova piena, se il reo la ratifichi in giudizio d’avanti al suo giudice competente, oppure riconosca con sua confessione la confessione scritta in carta fatta la tale ratificazione si condanna nella pena ordinaria.

4) Fa una prova semipiena se il reo non conferma in giudizio, anzi nega, e ritratta la sua confessione perché allora si uguaglia a un testimone, che depone de visu, e fa prova semipiena , //[p.62] e però basta per la tortura.

5) Ma perché basti una tal confessione si ricercano più cose primo che se la confessione sarà stata fatta in giudizio d’avanti a un giudice competente si ricerca che sia stata fatta dal reo, atque vi, et motu tormentorum sed sponte.

6) Secondo si ricerca che una tal confessione non sia stata fatta in una causa civile, ma in giudizio criminale.

7) Si ricerca che non sia stata fatta per incidenza ma che il reo ex professo abbia confessato il delitto.

8) Si ricerca che una tal confessione sia verisimile[sic], non sia stata fatta nel calor dello sdegnio non per burla non per iattanza. //[p.63]

9) Devesi però osservare che se una tale iattanza offende publicamente la reputazione di alcuno, cioè se non è stata fatta in segreto, et cum duobus, vel tribus singillatim, ma in presenza di molti merita esser punita, non per ragion del delitto confessato il quale si presume falso, ma perché una tale iattanza per se stessa è delittuosa.

10) Dalla quale iattanza quando torna in diffamazione altrui si può agirsene in un giudizio civile in vigor della legge Diffamari (6), molto più potrà agirsene in un giudizio criminale, e potrà punirsi.

11) Finalmente la confessione stragiudiciale deve esser provata da due testimoni e sebbene vi sia questione tra i criminalisti se i testimoni // [p.64] debbano esser contesti, oppure se bastino anche i testimoni singolari, la più comune è che non trattandosi di provare il delitto ma di provare solamente l’indizio, e indizio che resulta da un fatto reiterabile, ad quod nec requiritur identitas loci, et temporis, però la più comune è

che in questo caso bastino anche i testimoni singolari, purché però eorum singularitas , sic adminiculativa, cioè purché convengano colla sostanza del fatto, sebbene siano differenti nelle cose accidentali del fatto medesimo.

TITOLO VII

Della prova fatta per via di Manifestissimi Documenti

1) Si provano anche i delitti con istrumenti, o con scritture vi è però questa differenza che l’istrumento autentico cioè rogato per mano //[p.65] di publico notaro non solo prova d’essere autentico, ma prova anco quello che in esso è scritto, e prova il delitto che si è commesso in quello; la scrittura poi privata non prova se l’inquisito nega di averla scritta, o di averla fatta scrivere di suo ordine per lo che si deve provare, o che egli l’abbia scritta, o che l’abbia fatta scrivere di suo ordine.

2) La prova che risulta dagl’istrumenti, o dalle scritture altra è diretta, altra indiretta o coadiuvativa.

3) Se il delitto consiste nel medesimo istrumento, o scrittura resta pienamente convinto il delinquente da questa prova diretta.

4) Se il delitto consiste in un fatto //[p.66] separato dall’istrumento, o dalla scrittura allora un tal delitto deve provarsi per via di testimoni che si trovano presenti all’istrumento, o alla scrittura, giacché in questo caso dall’istrumento, o dalla scrittura ne risulta una prova solamente indiretta, e coadiuvativa, e in questo senso deve intendersi quella regola negativa costituita dai criminalisti (perché in detta scrittura o istrumento non costi del manifesto delitto perché allora si procede diversamente ) deve dissi intendersi la regola negativa cioè che i delitti si devino provare per mezzo di testimoni, non per mezzo degl’ istrumenti.

5) Osservi però che il giudice che in questi delitti che possono // [p.67] provarsi per mezzo della scrittura, di far catturare subito il reo, di fargli frugare, e cercar la casa per vedere se vi si trovano tali scritture sospette, V: G: quando contro qualcuno vi siano indizi che sia reo di lesa maestà o di tradimento, o che siano state da lui scritte lettere ai nemici, o che finalmente sia reo di qualche libello infamatorio; o che habbia scritte lettere infami, per vedere se tali cose, o copie simili, si trovano nella di lui casa, vedasi l’Ambrosino de Processu informativo, lib. 1o Cap. 5o no. 4 et seg. dove insegnia la pratica di questa perquisizione. // [p.68]. (7)

TITOLO VIII

Della prova da farsi per mezzo di Testimoni

1) La maniera più particolare di provare che uno è reo si fa per via di testimoni. Ma perchè i testimoni provino pienamente, e convincano il reo vi devono concorrere molte cose.

2) Primo che il testimone sia idoneo, e sufficiente cioè che non gli si possa opporre alcuna eccezzione[sic] né rispetto alla persona, né rispetto a quello che egli ha detto, o deposto, né rispetto al modo con cui lo ha deposto, in una parola si ricerca // [p.69] che il testimone sia maggiore d’ogni eccezzione[sic].

3) Ciascuno si presume che sia testimone idoneo, e maggiore d’ogni eccezzione[sic], e come tale si ammette se pure non si prova che dalla legge è rigettato come non idoneo; tali sono gli ascendenti e consanguinei, e affini che attestano contro il delinquente e secondo il senso comune fino al 4o grado inclusive[sic].

4) Dalla legge sono rifiutati come non idonei gl’impuberi e i minori di 25 anni, e anche le donne le quali però in vigore del gius civile sono ammesse nelle cause criminali come testimoni, sebbene non sieno integre[sic] fidei.

5) Gl’infami, d’infamia di legge, e d’infamia di fatto //[p.70]

6) I poveri ancorché sieno di fama onesta, non si rigettano del tutto ma non gli si deve prestare un intiera[sic] fede.

7) Gl’inimici se pur l’inimicizia, è capitale.

8) Tali testimoni poi sebbene non sieno maggiori d’ogni eccezzione[sic], con partecipazione però del Principe sogliono amettersi (8); e in ogni caso che si ammettano fanno indizio, e prova non piena ma tale quale.

9) Poiché i testimoni provino pienamente (nel caso che dalla legge, o dallo statuto non sia determinato il numero dei testimoni), vi si ricercano almeno due o tre testimoni secondo il detto del Salvatore " in ore duorum, vel trium stat omne verbum" (9) giacché un sol testimone non prova quia //[p.71] vox unius etiam idonei, vox nullius; (10) quindi é che per la testimonianza d’un solo, non può decidersi alcuna causa.

10) Perché i testimoni provino pienamente devono esser contesti cioè debent concordare in circumstantiis personae, loci, temporis, actus seu delicti, (11) perché se depongono di cose diverse, e separate ancorchè siano due o più si chiamano testimoni singolari, e si reputano per un solo, onde vi è la regola testi singulari non creditur; la qual regola con le sue ampliazioni e limitazioni si veda nel Farinaccio q. 64 per totum (12)

11) Il testimone ultroneo non deve ammettersi né esaminarsi ma deve esser citato perché deponga, e se citato non comparisce //[p.72] per non deporre, può costringersi a comparire, e deporre con comminargli l’esilio, pena pecuniaria, la carcere e si può torturare per ricavare da lui la risposta osservata però la consuetudine del luogo. L’Ambrosino de Processu informativo lib. V cap. 3o. (13)

12) Così si procede però in quei testimoni che possono costringersi a fare testimonianza, giacché gl’ascendenti, e discendenti il marito e gl’altri cogniati, affini de quali sopra, e ancora i costituiti in dignità, i malati, la donna prossima al parto che dovrebbe venire ad un tribunale lontano, sono tutte persone che non possono costringersi a far testimonianza se non se nei delitti atrocissimi, e di prova difficile, nei quali //[p.73] casi possono costringersi con licenza del Principe.

13) Che se il testimone da esaminarsi è fuori del territorio del giudice esaminante, sebbene per consuetudine da un tal giudice sogliono scriversi lettere sussidiarie al giudice nel qual territorio è il testimone, acciò che egli lo esamini, e dippoi rimetta l’esame al giudice della causa; è però meglio se il giudice criminale processante farà comparire personalmente d’avanti a sé il testimone con sussidio del Magistrato degl’Otto.

14) Il giudice poi deve chiamare all’esame prima: i testimoni nominati dall’accusatore, o dal querelante; secondo: potrà citare, ed esaminare anche quelli che crederà probabilmente informati.

15) Si ricerca che innanzi // [p.74] all’esame i testimoni toties quoties examinantur, giurino di dir la verità giacché non si crede al testimone che non giura, e tutti i legisti concordemente dicono che nel giuramento consiste la forma, la sostanza, e l’efficacia di ciò che il testimone depone.

16) Si dà il giuramento ai testimoni secolari tactis scripturis come se fossero l’istesso Evangelo ai costituiti in sacris tacto pectore, ai cavalieri tacta cruce, e finalmente agl’Ebrei tacto calamo (14) ed ai nazionali secondo il rito delle loro respettive nazioni.

17) Il testimone deve deporre di sua libera, e spontanea volontà né gli deve esser suggerita dal giudice alcuna cosa. Perché o la suggestione sia manifesta, //[p.75] come sarebbe quando il giudice nell’interrrogatorii suggerisce la risposta al reo V:G: se Tizio abbia ammazzato Caio, nel tal giorno, nel tal luogo, in presenza di Sempronio, e Panfilo, il che sarebbe un interrogatorio delle circostanze e delle qualità del delitto, prima che costi in processo del delitto stesso, oppure la suggestione sia pagliata (15) V:G: quando nel processo non si legge l’interrogatorio, ma solamente si scrive in genere " et ad opportunam iudicis interrogationem respondit " senza esprimere in che consista l’interrogatorio del giudice, anche questa

suggestione in tutto, e per tutto è proibita, e se apparisce dal processo legittimamente è privata (16), non solo il giudice pecca mentalmente, //[p.76] ma anche va a terra tutto il processo, perloché il giudice Cristiano ancorché il reo fosse notorio, e vi fossero contro di lui indizi legittimi deve sempre interrogare il reo in genere cum interrogatoris[sic] dilucidis, et non captiosis, cioè quando, quomodo, quibus annis et in qua parte corporis quis fuerit occisus.

18) Ma per fuggire la suggestione il giudice non solo deve distendere gl’interrogatorii che fa al testimone ma deve anche scrivere la di lui risposta coll’istesse formali parole, non con parole equipollenti, accioché[sic] col mutare le parole dei testimoni il giudice non commetta delitto di falsità, con gravissimo danno della sua anima.

19) Il giudice principalmente osservi //[p.77] che il testimone reddat causam suae scientiae (17), giacché la legge civile, e criminale dispone che non si deva credere a quel testimone qui causam scientiae sui dicti non reddit; perloché se il testimone spontaneamente non reddit rationem scientiae il giudice ex officio è tenuto ad interrogatorlo intorno alla causa della scienza, anzi se si trattasse d’un fatto notturno è tenuto il testimone, causam scientiaein speciem reddere, cioè che era lume di luna o che erano accesi altri lumi, e che era così vicino da poter vedere benissimo il fatto, altrimenti non si deve attendere il di lui deposto. Ambrosino lib.o 1o cap. 2o n. 36 et seguenti. (18)

20) Ma se il testimone dicesse di averlo sentito dire allora deve interrogarsi //[p.78] da chi l’abbia sentito dire, e quei tali devono esaminarsi, o deve registrarsi in atti la causa per cui non si sieno potuti esaminare V:G: perché sono morti, o lontani, giacché i testimoni che depongono de auditu, quando possono aversi quelli dei quali dicono averlo sentito dire non fanno neppure presunzione di delitto se non si esaminano quelli che i primi l’hanno detto, Ambrosinus cap. 20 n. 22 (19).

21) Il giudice deve premieramente chiamare all’esame i testimoni nominati dall’accusatore, o dal querelante, e poi potrà ex officio esaminare anche quelli, che egli probabilmente giudicherà informati.

22) Devono esaminarsi i testimoni //[p.79] separatamente senza che vi sieno presenti i contesti, e potranno anche ritenersi in carcere separate fino a che siano tutti esaminati, anzi in pratica in tutti i tribunali che si esaminino segretamente, e senza citazione della parte non solo perchè i rei non siano fatti fuggire ma anche perché non sieno subornati i testimoni e perché uno non informi l’altro, il che se non si osserva, il loro esame è nullo.

23) Il giudice per scuoprire la verità può esaminare alle volte anche gl’istessi delinquenti se sono più d’uno, con fare però la dichiarazione che sono esaminati come principali rispetto a sé, e come i testimoni rispetto agli altri la qual dichiarazione non deesi[sic] tralasciare, se alcuno confessa il delitto, se è infame, non prova, se non persiste //[p.80] nel suo detto nella tortura che gli si deve dare per poco spazio di tempo, e che gli si deve dare in faccia del compagnio del delitto se é in carcere, ancorché egli abbia confessato colla tortura il delitto dovendo questa seconda tortura essere distinta, e per mezzo di quella si cancella solo la macchia del delitto, ma non si cancellano le altre eccezioni, o difetti che a lui si possono opporre.

24) Quando i testimoni verisimilmente[sic] informati V:G: perché furono presenti, o perché il delitto è stato commesso d’avanti alla loro casa o bottega non vogliono scuoprire il vero e dicono di non sapere, o di non ricordarsi, o di non essere stati presenti, o stando (20) vacillanti, e fanno deposti ora in un modo ora in un altro, e sono contrari al loro //[p.81] primo detto il giudice può soggettarli alla tortura per costringerli a dire il vero, la qual tortura però deve essere (21) piccola e lieve, e

regolarmente si estende a un quarto d’ora, e nei delitti più gravi ad una mezz’ora senza che gli si dia nuova tortura nel progresso della causa

25) Se i testimoni da altri testimoni sono convinti di bugia si possono torturare perché dicano il vero, ma perché i testimoni possano torturarsi come occultatori del vero è necessario che procedano tutte queste cose. Primo che costi del corpo del delitto; 2o che per il delitto possa imporsi la pena capitale, e non la pecuniaria solamente; 3o che siano testimoni, qui etiam inviti ad (22) //[p.82] comparendum, etdeponendum compelli possint; 4o che se si fa speciale inquisizione contro una persona certa, precedano alcuni indizi contro di essa; 5o che i testimoni non habbino alcun motivo probabile rispetto alla sua ignioranza, o alla sua negazione; 6o che non possa d’altrove aversi la verità giacché questa prova per via di testimoni chiamasi sussidiaria.

26) Prima che il giudice proceda all’esame de testimoni ricavi dagl’atti tutti i capi tutti sopra i quali può interrogare i testimoni e nell’esaminarsi fondi l’esame sopra ciascuno di quei capi, e non permetta con tanta facilità che l’esame sia fatto da altri sebbene il giudice non è obbligato a scriverlo //[p.83] ma può servirsi d’un copista specialmente in quelle curie nelle quali vi sono molte cause criminali, anzi che in tali curie si suol commettere l’esame dei testimoni al notaro criminale.

27) Il giudice esaminerà quanti testimoni sono necessarii perché costi della verità così che non possa occultarsi con alcuna tergiversazione perloché sebbene ex officio come sopra abbiam detto possa esaminare non soli i testimoni indotti dall’accusatore, ma anche altri che egli giudicherà probabilmente informati, opererà però con prudenza se ne esaminerà molti benché ne deve esaminare più di due perché in questo caso se fossero date eccezzioni[sic] contro un testimone avrà altri esaminati da quali //[p.84] resulta la piena prova del delitto, e questo deve molto più osservarsi se si sarà fatto il processo senza l’accusatore, oppure se l’accusatore sarà stato segreto presumendosi allora che sia stato accusatore quello, che è esaminato il primo, e però essendo stato accusatore non prova come testimone.

28) Non può darsi certa regola rispetto all’interrogazioni particolari dovendosi necessariamente variare gl’interrogatorii secondo la varietà dei delitti, e secondo le loro circostanze, e secondo le risposte de testimoni le quali a un giudice che sa, e che ha senno sogliono

dare occasioni di conoscere il vero, o il falso di quello che depongono i testimoni, perché tocca al //[p.85] giudice sapere, e conoscere quegl’interrogatorii che debba fare ai testimoni. I novizi possono vederlo nel Pellegrino 4o sectio parte 4o et n.o4 ad 78 (23) e più diffusamente nel Cartaro de Interrogatoris[sic] Rei (24)

Degl’Indizi

1) Quando non può provarsi la verità per via di testimoni si ricorre agl’indizi alle congetture alle presunzioni, e agl’argomenti. Ma sebbene i dottori dicano che l’indizio, la congettura, e la presunzione, e l’argomento sia una cosa sola secondo il rigor della legge però sono indifferenti in questo, //[p.86] che l’indizio è un segnio, e un obietto ovvero un fatto delittuoso che è proposto al nostro intelletto. La congettura poi, la presunzione e l’argomento sono atti del nostro intelletto che razziocinia[sic] sopra il fatto, e che giudica del delitto, e del delinquente, a misura del segnio che ne ha.

2) La prova pertanto per via d’indizi è molto differente dalla prova per via di testimoni perché la prova per via d’indizi si chiama prova presumitiva, essendo fatta per mezzo dell’operazione dell’intelletto che raziocinia sopra detti indizi (25).

3) La prova poi per via di testimoni si chiama prova vera, concorrendo in quella la causa della //[p.87] scienza, cioè concorrendovi il testimone che depone per cagione d’un senso corporeo, V:G: depone d’aver veduto.

4) Ma la legge distingue gl’indizi in verisimili, e probabili, altri certi e indubitati. Gl’interpreti vi aggiungono un altro indizio che chiamasi indizio lieve.

5) L’indizio verisimile[sic], e probabile è quello che ricavasi dalle circostanze prossime al fatto di cui si ricerca, e per le quali circostanze quel fatto il più delle volte suol essere vero, e però induce il giudice a credere hic, et nunc che il fatto sia così sebbene habbia qualche dubbio se il fatto sia, o non sia vero. L’esempio di quest’indizio è la roba //[p.88] rubata che è stata trovata in casa di alcuno, che sia di cattiva fama, la confessione stragiudiciale ed altri indizi di simil sorte da D.D. (26) sono chiamati indizi prossimi, propinqui, semipleni, et valde delictum inferentia.

6) L’indizio certo, e indubitato si ricava da quelle azioni che sono fatte avanti e dopo il delitto stesso, e che è più prossima al medesimo delitto, e il più delle volte, e quasi sempre si verifica, e perciò muove l’animo del giudice a credere fermamente che il delitto il verità (27) è stato commesso da quello che è stato incolpato, e sebbene quest’indizio alle volte possa essere falso tutta volta il giudice deve essere //[p.89] (28) contento della certezza morale la quale si verifica in più operazioni da ciò che il più delle volte accade, e dirado secondo i costumi degl’uomini si discosta dal vero, perché il giudice rispetto ai delitti non può avere una certezza dimostrativa cioè d’evidenza.

7) Indizio lieve chiamasi quello che nasce dalle circostanze molto lontane del delitto, e da un tale indizio ricavandosi dirado il vero perciò si chiama indizio remoto, e induce l’animo del giudice solamente a sospettare. Per addurre l’esempio sono indizi lievi la sola fama, e il detto d’un testimone inabile.

8) Gl’indizi fanno prova in tutti i delitti, o lievi, o gravi o atroci e perché facciano prova //[p.89] devono detti indizi esser provati da due testimoni maggiori d’ogni eccezione, e che sieno contesti sebbene se un sol testimone immediate[sic] depone d’aver veduto commettere un delitto, o di averlo sentito dire da altri fa una prova semipiena, e così fa un’indizio prossimo.

9) Varii autori osservano che gl’indizi che appariscono evidentemente d’avanti agli occhi del giudice come sono la pallidezza, il tremito, la vacillazione non hanno bisogno di prova alcuna ma basta che il notaio gli descriva in atti.

10) Finalmente gl’indizi provati nella maniera detta di sopra se sono verisimili[sic], e probabili bastano per trasmetter l’inquisizione al reo che è lontano //[p.90] e se il reo è presente bastano per esaminarlo, e anco per torquirlo

11) Gl’indizi certi, e indubitati bastano per condannare, e per condannare ancora nella pena ordinaria spezialmente[sic] in questo Stato di Toscana in vigor della nuova legge del 15 Gennaio 1744 (29) di cui al libro 4o [tit. IV] de prolazione[sic] Sententiae (30).

12) Gl’indizi lievi finalmente bastano per pigliare le informazioni del delitto, e alcuna volta per la cattura non perchè il reo sia subito esaminato, e annoverato tra i rei, ma per toglierli la facoltà di fuggire //[p.91].

Note al libro II

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(1) Questa prima parte della frase latina è tratta dalla gl. I In add. marg., in Rub. ff. De probationibus; C. 4.19 (vedi E. DAOYZ, Iuris civilis summa, seu index copiosus, vol. II, Milano 1742, 222).

(2) Anzi, nel manoscritto, indica un pentimento dell’autore, cioè una correzione relativa alle parole evidenziate

(3) Si cita l. Sciant, C. De testibus; C. 4.19. alle parole "Probatio in criminalibus debet fieri per testes idoneos, vel per apertissima documenta, et indicia indubitata" ( vedi DAOYZ, vol. II, 327)

(4) Era opinione comune e regola ammessa da molti statuti tra cui quelli di Lucca e Cecina, che la confessione spontanea e sincera dovesse comportare una mitigazione della pena ( vedi CALISSE, Storia del diritto penale Italiano, Firenze 1895, 220)

(5) Vedi SAVELLI, Pratica Universale, alla parola Confessione, n.7, 86.

(6) La legge Diffamari si trova in C. 7.14.5.

(7) TRANQUILLO AMBROSINI, Processus informativus,sive de modo formandi processum informativum,brevis tractatus, con l’aggiunta di decisiones criminales del FARINACCIO tratte dai titoli "De indiciis " e "De tortura" ,Venezia 1684, 54.

(8). Nel testo è scritto amettersi, ma si voleva scrivere ammettersi

(9). Matteo 18,16. Le parole di Gesù sono riprese dal Deuteronomio 19,15

(10). "Vox unius, vox nullius" è un brocardo che si trova, in l. Ne in arbitris, C. De receptis arbitris, C. 2.55.(V.56).

(11) CARLO PELLEGRINO esprime più diffusamente questo concetto nell’opera Praxis vicariorum et omnium in utroque foro iusdicentium quatuor partibus comprehensa, parte IV, sezione IV n.38 e seguenti, Venezia 1681, 323.

(12) FARINACCIO, Praxis et theoricae criminalis, libro III, Titolo VII, q. 64 De oppositionibus contra dicta testium, arg. De testium singularitate, fo. 173 e seguenti. Farinaccio riporta la regola con le parole "Testes singulares non probant" e la spiega.

(13) Vedi AMBROSINO, Processus informativus, 242-248.

(14) Vedi SAVELLI, Pratica Universale, § Giuramento, numeri 27-28-29, 217; e PELLEGRINO, Praxis vicariorum.., parte IV, sezione IV, n.5, 319, dove dice "Tactus vero scripturarum dum testis iurat, esse debet ad sancta dei Evangelia regulariter"

(15) Pagliata, palliata, cioè vestita accessoriata.

(16) C’è un errore dato che l’autore ha scritto privata ma quasi sicuramente voleva dire provata.

(17) Vedi PELLEGRINO, Praxis vicariorum ... , parte IV, sezione IV, n.44 e seguenti, 324.

(18) Vedi TRANQUILLO AMBROSINI, Processus informativus, 30-32

(19) Tale citazione non è corretta. Quella esatta è libro I, cap.o2o, n.22, 29, sempre dell’opera Processus informativus dell’AMBROSINO.

(20) Nel manoscritto leggiamo stando, ma dobbiamo leggere più correttamente stanno

(21) Deve essere nel manoscritto è ripetuto due volte. Si tratta di una svista.

(22) Ad nel manoscritto è ripetuto per svista due volte.

(23) PELLEGRINO, Praxis vicariorum.., 319-328. Come nelle precedenti citazioni di questo autore si richiamano la Pars IV riguardante la Pratica Criminale, e la Sectio IV De testibus.

(24) FLAMINIO CARTARI, giurista orvietano del Cinquecento, di lui si cita la Praxis et theorica interrogandorum reorum (Venezia 1596), un libro in cui si riscontra il motivo tipicamente umanistico dell’attenzione per la didattica. Inoltre l’autore critica le precedenti opere perché composte senza metodo e razionalità.

(25) Cfr. MARIO MONTORZI, Fides in rem publicam. Ambiguità e tecniche del Diritto

Comune, Napoli 1984, 175-182.

(26) D.D., dottori

(27) Il manoscritto dice in verità ma è una svista, perché si voleva dire in verità.

(28) Nel manoscritto il numero di pagina 89 è ripetuto due volte.

(29) Si tratta della stessa legge citata alla nota n. 14 del libro I.

(30) La dottrina intermedia aveva ereditato dalla canonistica l’aspirazione alla assoluta pienezza della prova, non riconoscendo, in linea di principio, valore probatorio agli indizi ed alle presunzioni. Solo per la tortura, a differenza dalla condanna, erano sufficienti gli indizi in assenza di prove plenae, purché questi fossero gravi e convincenti. L’esperienza concreta, però, dimostrò la difficoltà di procurarsi una probatio plena. Si arrivò così ad estendere la cerchia delle prove a quelle indiziarie, tanto che vennero enumerate ed illustrate ipotesi di "indizi indubitati", sufficienti di per sé, anche in assenza di prove dirette, per la condanna. Borghi testimonia il fatto che tale tendenza aveva contagiato anche il legislatore toscano, il quale aveva accolto il principio nella legge del 1744 (vedi GARGANI, Dal corpus delicti al Tatbestand, 175-206; e ISABELLA ROSONI, Quae singula non prosunt collecta iuvant. La teoria della prova indiziaria nell’età medievale e moderna, Milano 1995, in particolare 120 e seguenti).

Libro III

 

 
 
 
 

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Tit. I

Della Citazione del Reo

1) Terminata l'informazione, o l'inquisizione se ella ha tutti i requisiti dei quali ragioneremo al tit.[VII,libroI] de Inquisizione[sic], deve quella mettersi in buona forma.

2) Sarà l'inquisizione in buona forma se sarà chiara specifica, e breve; deve contenere il nome, cogniome, patria del delinquente, la minuta narrazione del fatto, e delle circostanze il luogo, e il tempo del delitto V:G: il mese, e l'anno; vi sono autori //[p.92] che tengono doversi esprimer il giorno, e l'ora, se può sapersi, o se la parte ne fa istanza per difendersi.

3) Doppo che il notaro ha disteso nella debita forma il libello dell'inquisizione se non vi è il luogo alla carcerazione del reo, per mezzo della citazione si deve mandare al reo il libello dell'inquisizione.

4) In varii luoghi si usa diversamente ma in Toscana a tenor della legge del 1569 (1) i rei sono costretti a rispondere all'inquisizione da per se stessi senza avvocato, senza Procuratore (2), e senza i compagni del delitto.

5) Se il reo doppo tre distinte citazioni (3) a rispondere all'inquisizione fatta nel modo, e forma descritta al tit.[V,libroII] de Confessione Ficta se il reo non comparirà si reputa //[p.93] per confesso, e per convinto, e però si condanna nella pena ordinaria e si chiama bandito, e non può far testamento, né essere erede per testamento, o ab intestato, né può contrarre, e perde tutti quei diritti che gli si competerebbero in vigor degli statuti di quel Principe da cui è bandito, anzi nessuno può parlargli, e può essere impunemente ucciso da chi sia (4).

6) Se un tal reo sarà restituito dal Principe non può esser più convenuto dai suoi creditori per le obligazioni[sic] che avesse contratte prima d'esser bandito, ancorché il reo arricchisse, così Carlo Antonio De Luca, (5) e adduce questa ragione, che per la morte civile rimanendo estinta tanto l'obligazione[sic] civile che naturale, per questo un //[p.94] tal reo debitore rimane libero da ogni debito.

Tit. II

Della Cattura dei Rei

1) Esaminati i testimoni e messe insieme altre prove, sospettando probabilmente il giudice che l'accusato abbia (6) veramente commesso il delitto suole ordinariamente rilasciar la cattura contro di lui ma perché la cattura possa legittimamente rilasciarsi, e eseguirsi vi devono concorrere più cose.

2) In primo luogo è necessario che l'accusato sia sottoposto alla giurisdizione del giudice che rilascia la cattura altrimenti ipso facto è nulla.

3) In 2o luogo che costi del corpo //[p.95] del delitto.

4) In 3o luogo che dagli atti resultino gl'indizi, e le informazioni.

5) In 4o luogo che il delitto sia tale per cui possa rilasciarsi la cattura, e sarà tale se il delitto meriterà la pena di morte, o altra pena afflittiva di corpo. Se poi merita pena pecuniaria si può solamente rilasciare la cattura se il delinquente è vile, e vagabondo che non abbia beni immobili, e che non abbia nulla, e che col fuggire potrebbe scansar la pena e render allusorio (7) il giudizio; ma se poi è di condizione onorata, e possiede beni stabili non se gli deve rilasciar la cattura //[p.96].

6) Non può determinarsi per rilasciar la cattura una regola certa adattabile a ciascun caso, però il giudice in questa stia cautelato, e la conceda con grandissima circospezione, e non la conceda attesa solamente l'accusa, ma quando quella in un certo modo è verificata così che almeno vi possa esser luogo all'inquisizione; e si ricordi che egli è sottoposto ai magistrati, i quali lo punirebbero nel sindacato, e l'obbligherebbero actione iniuriarum a rifare alla parte i danni i quali la parte è obligata[sic] a liquidargli con giuramento.

7) Può procedersi all'esecuzione della cattura anche in giorno feriato (8); e festivo; può farsi catturare il delinquente in casa propria (9) o in casa altrui anche con fare //[p.97] rompere la porta.

8) Se poi il reo è gravemente malato, così che per relazione dei medici non possa essere messo in carcere senza pericolo della vita allora suol porsi in sicuro, o fargli dare i mallevadori (10), o porre i birri a guardarlo.

9) Sebbene la cattura non debba farsi senza che il giudice sia informato, e senza il di lui ordine i famigli (11) però possono arrestare, e condurre in carcere uno che fugga in veder loro, o uno da loro trovato in flagranti crimine supponendosi in tal caso il tacito mandato del giudice e perché i rei non fuggano, e perché sia eseguita la giustizia.

10) La cattura è un atto di giurisdizione contenziosa, e però non può eseguirsi fuori del territorio //[p.98] del giudice che la rilascia.

11) Non può eseguirsi neppure in Chiesa (12), e questa immunità s'estende alla porta, al loggiato della Chiesa, al chiostro, e allo spazio del chiostro, a qualsivoglia cappella, romitorio e a qualsivoglia piccola Chiesa fabbricata di consenso del Vescovo per celebrarsi la messa al cemeterio consacrato dal Vescovo sebbene sia separato dalla Chiesa, agli spedali eretti con approvazione del Vescovo, al dormentorio comune dei religiosi e dei sacerdoti secolari. Al palazzo del Vescovo benché sia disgiunto dalla Chiesa, com’è in Pisa; alla casa dalla Chiesa distinta per l'abitazione dei sacerdoti, purché sia posta in distanza dalla Chiesa non più di 30 o 40 passi, altrimenti non gode, se non è annessa a qualche cappella (13).

12) Il giudice secolare non può far //[p.99] cavar di Chiesa i rei che fuggono in quella, o in altri luoghi immuni, e il fargli cavare è un atto ingiusto, e sacrilego, e nullo come fatto senza giurisdizione, e sono nulli tutti gli atti fondati in tal cattura. Devono tali rei restituirsi attualmente al luogo immune onde sono stati cavati e devono rifargli i danni, e le spese, che per questo hanno sofferto, come dichiarò la Sacra Congregazione dell'Immunità Pignattell. Cons. 170 (14).

13) Perché l'immunità della Chiesa non dia impunità, e licenza di commetter più gravi delitti negli antichi Canoni restarono eccettuati alcuni delitti contenuti nella Bolla di Gregorio XIV e di Benedetto XIII (15), ai quali delitti per esser enormi è tolto il vantaggio //[p.100] dell'immunità della Chiesa.

14) Rispetto dunque alla Bolla Gregoriana non godono l'immunità, primo: i publici ladroni, 2o: gli assassini di strada, 3o: i saccheggiatori delle campagnie, 4o: gli eretici per delitto d'eresia o per altra causa, 5o: i rei di lesa maestà contro la stessa persona del Principe, 6o: quelli che delinquono in Chiesa con volontà premeditata sulla fiducia dell'ecclesiastica immunità V:G: se uno commettesse in Chiesa un omicidio, o una mutilazione di qualche membro, non però se vi si commettessero altri delitti non espressi nella Bolla, 7o: se alcuno sotto pretesto d'amicizia ammazzerà altro 8o: chi per mandato altrui e mercede accettatta ammazzerà un uomo.

15) Rispetto alla Bolla di Benedetto XIII //[p.101] dell'anno 1725 tolse egli le controversie che erano tra i D.D. sopra il vero, e retto senso della Bolla Gregoriana, e dichiarò che un solo assassinio commesso in una strada publica, basta perché alcuno possa chiamarsi publicus latro etgrassator viarum, e dichiarò che nel delitto d’assassinio non solo non godono dell’immunità i mandatarii ma neppure i mandanti quelli cioè che havranno[sic] dato, o promesso un certo prezzo, o in denaro, o in altre robe benché la promessa non habbia avuto alcun effetto.

16) E finalmente il detto Pontefice privò del beneficio dell'immunità altri delitti che non sono espressi nella costituzione Gregoriana.

17) E privò di questa immunità primo quelli che stando in Chiesa o nel cimitero //[p.102] ammazzano quelli che stanno fuori di Chiesa, o fuori del cimitero, o gli troncano qualche parte del corpo, vel et contra, 2o quelli che fanno violenza a chi fugge in Chiesa, o hanno ardimento di cavargli di Chiesa, 3o chi ammazza il suo prossimo, con animo deliberato, e premeditato, 4o chi falsifica lettere apostoliche, 5o i ministri del Monte di Pietà o di altro publico banco destinato per i depositi del Principe, e che commettono furti o falsità nei predetti luoghi, 6o quelli che fanno, adulterano, e tosano (16) qualunque moneta d'oro, o d'argento e che presumono di spendere scientemente le stesse monete, false, adulterate, e tosate così che possino credersi partecipi della frode, 7o quelli che sotto nome della Corte s’introducono in case altrui con animo di commetter ruberie, e

che di fatto le commettono //[p.103] con omicidio, o troncamento di qualche parte di corpo di qualcheduno di quella casa.

18) Se godono, o non godono dell'immunità ecclesiastica quelli che fuggono in essa, il detto Pontefice ordinò che il solo Vescovo ne avesse la cognizione privativa rispetto a tutti gli altri giudici o ecclesiastici, o secolari, e rispetto a questa cognizione ordinò che si osservasse quant'appresso.

19) Primo quando la Curia Secolare ricercherà la Curia Ecclesiastica perché qualche reo secolare sia estratto dal luogo immune, e sia a lei consegniato somministrati gl'indizi che bastano per la cattura, oppure acquistati dall'istessa Curia Ecclesiastica rispetto alla qualità del delitto eccettuato, e rispetto alla realtà della persona, allora la Curia Ecclesiastica con i suoi esecutori,//[p.104] o implorato il braccio secolare bisogniando, o coll'intervento di persona ecclesiastica deputata dal Vescovo, deve procedere all'estrazione di esso delinquente, e deve essere condotto nelle carceri del Vescovo.

20) Di poi il Vescovo fa il processo informativo dal quale deve resultare del delitto eccettuato perché vi sia luogo di consegniare alla Curia Secolare il reo estratto di Chiesa e di più contro l'estratto devono resultare indizi tali che si dice in detta Costituzione secondo le regole di ragione, si chiamano ultra torturam, così che moralmente si possa credere che il delitto sia stato commesso da lui.

21) Fatte queste prove l'estratto dal luogo immune deve consegniarsi alla Curia Secolare con far prima giurare i Ministri di detta Curia //[p.105] e con fargli obligare in valida forma di restituire alla Chiesa l'estratto, sotto pena di scomunica riservata al Papa, nel

caso che il medesimo estratto nelle sue difese, purghi e alterri[sic] gl’ indizi acquistati contro di lui.

22) Se alcuno ardirà di operare contro la detta Costituzione oltre alla nullità degl’atti, incorre nelle Censure Ecclesiastiche, e in altre pene determinate dai Sacri Canoni, e dalle Costituzioni Ecclesiastiche contro i violatori dell'immunità ecclesiastica.

23) Se si desse un caso grave non espresso nelle sopraddette Costituzioni ecclesiastiche (17) il reo che fugge in Chiesa dovrebbe farsi guardare con gelosia, e renderne inteso il Sommo Pontefice per avere da esso la licenza di estrarlo //[p.106].

24) Rilasciato dal giudice legittimamente il mandato della cattura del delinquente, o i familiari lo arrestano, o no.

25) Se non lo arrestano il giudice procederà ad atti ulteriori, e se stimerà doversi procedere contro di lui secondo la gravità del delitto, e la qualità del delinquente piglierà informazione de eius occultatione e procurerà che si concluda, che il reo non si trova, e che sta fuggiasco in varii luoghi e che è difficile il catturarlo, e ricevuta detta informazione lo farà citare ed essendo contumace doppo tre citazioni fatte come sopra si è detto procederà alla condanna.

26) Se poi il reo è catturato nel titolo seguente vedremo che cosa debba fare il giudice //[p.107].

Tit. III

Del Costituto, o dell'esame da farsi al Reo

1) Preso il reo, è messo in carcere solo non si deve permettere che parli con alcuno neppure con gli altri carcerati.

2) Il giudice non può devenire all'esame dell'istesso reo il qual esame chiamasi costituto perché si comincia costitutus personaliter, se non costa del corpo del delitto, e se non vi sono indizi che bastino per la speciale inquisizione.

3) Volendo dunque il giudice venire all'esame del delinquente tenga ben a memoria queste due cose.

4) Primo incominciar l'esame con timor di Dio cioè con animo spogliato d'ogni passione specialmente di sdegnio, e di avarizia //[p.108] non sia accettatore di persone, e faccia il ristretto del processo perché egli sappia che cosa debba fare nell'esaminare, che cosa debba tralasciare, che cosa debba toccar gravemente, che cosa leggermente Ambrosinus libro 3 cap.2 no15 et seg. (18)

5) In secondo luogo veda il giudice di non parlare con i rei con troppa severità né troppa placidezza, se il reo è nobile può trattarsi con più civiltà, e deve farsi sedere nel tempo dell'esame.

6) Dovendo dunque il giudice incominciare l'esame deve domandare al reo il suo nome, cogniome, e patria, e questi si chiamano interrogatorii generali.

7) Rispetto al giuramento da darsi ai rei per legge del 21 Aprile 1769 anzi del 1679 (19) il Gran Duca di Toscana //[p.109] ordinò che i giudici faccino una seria ammonizione ai rei perché dicano il vero, e proibì che non si dia il giuramento a quelli che sono detti rei di delitto sotto pena della sua indigniazione, e della privazion dell'Ufizio[sic], e se questi rei confessano il delitto senza giuramento ordinò che la loro confessione gli deva nuocere come se fosse fatta con giuramento.

8) Ma se doppo la confessione del reo convenisse esaminarlo di nuovo, non come principale ma come testimone rispetto agl’altri socii del delitto allora si osserva il costume di dargli il giuramento, non solo perché cessa il sospetto di spergiuro, ma anche perché il di lui deposto non giurato, non potrebbe nuocere ai consocii com'è ordinato //[p.110] nella medesima legge.

9) Non può darsi una regola certa del come devano esaminarsi i rei perché essendo diversi i delitti e varie le circostanze che l'accompagniano, però chi esamina deve formare l'interrogazioni secondo la qualità e gl’indizi di qualunque caso, con far seria

riflessione a quel che è stato detto dal reo il Cartario (20) , e il Pellegrino ne insegnano le formule, io ne darò alcuni avvertimenti per aito de giudici novizi. (21)

10) Primo se il reo interrogato dal giudice in un linguaggio straniero, il giudice deve chiamare un interprete che sappia quel linguaggio, e deve dare a detto interprete il giuramento di interpretare, e riferire con fedeltà, quel che il reo risponde in linguaggio straniero //[p.111].

11) Secondo se il reo finge d'esser pazzo, o di esser fuori di sé deve il giudice consultare i medici, se veramente quel tale sia pazzo, o finga d'esserlo, dovendo esaminarsi quelli che praticano familiarmente con detto reo, se abbiano mai conosciuto quel tale, come pazzo, e fuori di sé, e i birri devono osservare esattamente tutte le azioni, e le parole del reo dalle quali risulta chiaramente la pazzia; e il Cartario crede che con minacciargli i tormenti, o anche con darglieli possa scuoprirsi la finzione della di lui pazzia.

12) Deve il giudice procurare che il reo dia una risposta categorica cioè risposta si o no, e non solo gli si deve concedere pochissimo tempo a rispondere, ma deve costringersi //[p.112] a rispondere subito senza dargli tempo.

13) Se il reo interrogato dal giudice non volesse in alcun modo rispondere, oppure rispondesse con parole dubbie, ed equivoche V:G: non so, non mi ricordo, le quali dal notaro devono scriversi in atti, potrà costringersi con intimargli la multa con minacciargli che il delitto si avrà per confessato, e nei delitti atroci con minacciargli la tortura, avendolo però monito per tre volte perché risponda precisamente altrimenti sarà condannato alla tale, e tal pena, e se persisterà nella sua contumacia deve condannarsi in detta pena.

14) Se il reo interrogato non vuol rispondere precisamente, e nel progresso dell'esame dice che //[p.113] si rimette a quel che ha detto, l'opinione più vera è che sta in arbitrio del giudice ammettere, o non ammettere una tal risposta relativa ma se il reo è sospetto di falsità deve in tutto, e per tutto costringersi a dir di nuovo una precisa risposta.

15) Se il reo in qualunque modo interrogato dirà di voler confessare quando avrà incominciato a confessare non si deve sospender l'esame ma interrompere con altri discorsi fino a che habbia confessato il tutto, e deve lasciarsi di far qualunque cosa per non dargli occasione di non proseguire la confessione già incominciata.

16) Il giudice deve interrogare il reo dilucide, et non captiose nec per longam interrogationumseriem //[p.114] e ora deve interrogarlo generaliter ora ad hominempro re lata, e non deve usare interrogazioni finte, o ingannevoli, e molto meno suggestive, ma sempre interrogherà il reo in genere, e solamente potrà interrogarlo in specie, nel solo caso che vi siano indizi speciali contro di lui, dai quali apparisca, che veramente habbia commesso il delitto senza però mai fargli interrogatori suggestivi.

E il giudice non può mai fingere qualche cosa, per causa (22) di mettere in chiaro la verità come fece solamente nel suo giudizio.

17) Le parole del reo devono scriversi tali quali da esso son proferite, e non è sicura la pratica di quei giudici che ascoltano prima tutta la risposta del reo, e poi //[p.115] scrivono con mutar le parole credendo di ritenere il senso delle medesime, ma Paolo III Sommo Pontefice in un suo motu proprio ordinò, che il giudice debba precisamente scrivere le parole proprie, e formali dell'inquisito (23).

18) Se mancano indizi bastanti da formare la speciale inquisizione il giudice senza peccato mortale non può interrogare il reo sopra il delitto principale ma solamente può dimandargli per che causa sia stato carcerato, e che cosa habbia fatto; per cui gli sbirri lo abbino carcerato; se poi confessa il delitto questa confessione si chiama spontanea, e se dal giudice saranno verificate tutte le circostanze //[p.116] e le qualità confessate dal reo lo potrà condannare.

19) Se precedono legittimi indizi dal giudice sarà interrogato il reo, ed egli confesserà il delitto, per tal confessione il delitto si dice pienamente provato ed è bastante a condannare il reo.

20) Doppo che il reo avrà confessato il delitto in uno o nell'altro dei sopraddetti modi, il giudice deve assegniare al reo confesso un termine a difendersi ancorché il reo non chieda questo termine e deve assegniarsi termine a dire, ed opporre quel che vuole o può contro la detta sua confessione passato il quale termine se il reo non havrà provato cosa alcuna per sua difesa, suol procedersi a condannarlo nella pena ordinaria secondo il Saliceto lib. 2o de Cost. (24) //[p.117].

Alle volte il reo suol confessare il delitto con aggiungere una qualità che scusa il delitto medesimo e in questo caso per conoscersi se deve attendersi la qualità così aggiunta, o se possa separarsi dalla confessione deve distinguersi così: o la confessione è di un fatto per se stesso malo, e proibito dalla legge, et habet contra se iuris presumptionem[sic], e in tal caso la qualità aggiunta non costituisce il delitto, ma lo scusa; oppure la confessione è di un fatto che in se stesso non è malo, ma il delitto consiste nella qualità aggiunta.

21) Nel primo caso la confessione qualificata può in parte accettarsi V:G: se Seio confessa d'aver ammazzato Caio ma d'averlo ammazzato //[p.118] per difendersi, il fisco accetta la confessione dell'omicidio, ma non ammette che l'abbia ammazzato per difendersi, e se questa qualità non è provata dal delinquente, la confessione dell'omicidio commesso rimane perfetta, e semplice cioè che habbia commesso l'omicidio, senza quella qualità; cioè per difender sé, e la ragione è perché qualunque volta il reo ha confessato la sostanza del delitto, ha contro di sé la presunzione del dolo, e però il fisco accetta la confessione sostanziale del delitto, e lascia al reo il peso di provare concludentemente la qualità.

22) Procede anche così se il reo è convinto del delitto, ed egli propone una qualità che scusa il delitto, e molto più se egli fosse convinto //[p.119] non solo del delitto, ma fosse anche convinto di una qualità contraria a quella che egli dice; e nel solo caso procede

quando cioè la qualità aggiunta abbia del probabile, o del verisimile, V:G: se Tizio confessa d'aver ammazzato Caio, che per essere suo publico nemico, gl’insidiava la vita, Tizio non è obbligato ad strictam probationem della qualità cioè che gl’insidiasse la vita, per questo motivo perché siccome il dolo malo, che è la qualità, si prova per il fisco presumptive[sic], così questa qualità deve distruggersi per contrariam presumptionem[sic].

23) Nel secondo caso poi, quando il fatto in se stesso non è malo ma lo costituisce malo la qualità aggiunta se il reo confessa //[p.120] il fatto, e nega la qualità, la confessione non si divide, e il fisco non può procedere contro il reo se il fisco non prova la qualità che è negata dal reo.

24) Il giudice non può sollecitare il reo a dire la verità con promettergli l'impunità se non ha ottenuto dal Principe la grazia di concederla a qualcuno dei rei che scuopra il delitto, altrimenti questo sarebbe un tradire il prossimo

25) Il giudice alle volte per ricavare il vero suole pressare il reo con dirgli che si disponga a confessare la verità perché non vi è luogo a tergiversare per i moltissimi indizi acquistati contro di lui da quali chiaramente apparisce come sta il fatto, così //[p.121] che quasi è convinto il giudice però non puol far questo se non si sono acquistati moltissimi indizi contro del reo altrimenti sarebbe un ingannare il reo, e non è lecito al giudice il dir bugie per ricavare la verità.

26) Se il reo fa istanza al giudice che gli sia letto il primo deposito, è in arbitrio del giudice il leggerlo, o non leggerlo, l'Ambrosino al libro 4o cap. 14 no 20 (25) e lo Scaccia de iudiciis Cap. 86 no48 (26) i quali credono che il reo fa questa istanza con ragione il giudice non deve negargliela, e se gl’e[sic] la nega, e il reo si protesta che se dirà altrimenti intende di riportarsi al primo esame, perché allora si ricordava meglio dicono detti autori, //[p.122] che tal protesta deve dal notaro scriversi in atti.

27) Alle volte è necessario confrontare i testimoni col reo cioè quando i testimoni non sanno il nome, il cogniome del delinquente ma lo conoscono solamente al viso, al vestito, e ad altri segni apparenti, e in questo caso si fa la recognizione, e il confronto nel modo che segue: si pone il reo con molte altre persone più simili che sia possibile tanto rispetto al volto, che all'età, vestimento e statura, e doppo che gl’istessi testimoni avranno deposto sopra la statura, volto, età, vestimenti, ed altri segni allora si conducono i testimoni al luogo dove il reo si trova mascherato con gli altri, perché lo possano riconoscere, e indicare al giudice //[p,123].

28) Alle volte anche se al giudice pare espediente può devenirsi alla confrontazione del delinquente col socio del delitto nominato dal reo, e allora deve torturarsi in presenza dell'istesso socio del delitto perché ratifichi il suo detto nella tortura ad purgandam maculam complicitatis, e il di lui detto prova contro il socio del delitto purché

però concorrano due cose cioè che gli sia stato deferito il giuramento, perché fa le veci di testimoni, e purché lo abbia confermato fuori de tormenti.

29) Alcuna volta è necessario per convincere il reo che persiste nella negativa, devenire a mostragli le lettere, o le armi ritrovate nell'atto della cattura o avanti, o doppo quella //[p.124].

30) In quanto a mostrargli le lettere deve prima interrogarsi il reo se sappia scrivere, e se dice di sapere allora il giudice gli faccia scrivere nel medesimo costituto parole da dettarsi da lui non tali quali sono nella scrittura, o nella lettera, ma che abbino l'istesse lettere della scrittura, accioché[sic] avuto il carattere certo dell'istesso reo che formi le medesime sillabe o parole, possa da due periti scrittori farsi il confronto, e la recognizione se le dette lettere siano state formate da una medesima mano, o da diversa i quali scrittori però perché provino, devono esaminarsi separatamente dato loro prima il giuramento di dire il vero, e sono obligati a dir le ragioni, e i fondamenti del suo detto. //[p.125] Se poi il reo dirà di non saper scrivere deve convincersi per mezzo di testimoni che deponghino d'averlo veduto scrivere, ed essendo così convinto resultando contro di lui questo gravissimo indizio il giudice potrà venire alla di lui tortura, perché egli o scriva alcune parole, o confessi che la scritta è stata fatta da lui, e si tenga nella tortura fino a che habbia fatto una di queste due cose.

31) Sebbene altri credano, che non si deva torturare, ma si deva solamente convincere della bugia, e per tal bugia deve condannarsi, mossi da questa ragione perché se il reo per un’ora sostenesse la tortura resterebbe purgato l'indizio che resulta dai testimoni e dovrebbe assolversi.

32) Ma può divenirsi all'esibizione //[p.126] dell’armi, e di altri cose V:G: furtive, se non quando il reo ha confessato che le haveva e le riteneva in propria cosa, e le riteneva appresso di sé la quale confessione rilettagli dal giudice, potrà mostrare al reo le dette robe rubate, mescolate con altre robe della medesima sorte perché le riconosca.

33) Nel delitto però di delazione, o di ritenzion d’armi proibite, perché costi del corpo del delitto è necessaria la recognizione e l'esame di due periti i quali con giuramento depongono che quelle armi sono proibite.

34) Finalmente sebbene per mezzo del costituto secondo la legge si induca la contestazione tra il fisco, e il reo cioè //[p.126] (27) quando il reo è interrogato dal giudice ed egli risponde di si, o di no; per general consuetudine però oggi giorno non è più necessaria questa contestazione di lite; rettamente però si pratica questo che nei delitti più gravi si possono fare più costituti ai rei, o perché in un solo esame non possano farsi evacuare tutte le verità o perché il reo ritenute a memoria tutte le interrogazioni fattegli, più facilmente si premunirebbe nell’altre risposte.

35) Il metodo da osservarsi dai giudici nel fare i costituti è questo. Il giudice ne primi costituti faccia sempre interrogatorii generali, e nei costituti successivi faccia interrogatorii speciali. Potrà facilmente fare //[p.127] questo se nel sommario da farsi da lui avanti l'esame,

prima esporrà il fatto che resulta dal processo poi le prove in genere, poi le prove, e gl’indizi in specie che resultano dal processo, innanzi

al delitto, nell'istesso delitto, e doppo il delitto, e finalmente nell'ultimo costituto sogliono cumulargli gl’indizi gravi che militano contro il reo, con obligarlo[sic]ut singulis indicilis satisfaciat (28).

Tit. IV

Della Publicazione, e Legittimazione del processo

1) Avendo il reo fatti i suoi deposti il giudice publicherà l'inquisizione, e assegnerà al reo un termine conveniente a difendersi. In Toscana per consuetudine sogliono //[p.128] assegniarsi dieci giorni, ma per giuste cause il giudice non solo può assegniare termine più lungo ma anche più termini Ambrosinus libo. 3o capo 2o no 33 et seg. (29)

2) Doppo questa assegniazion di termine deve darsi al reo la copia del processo perché possa difendersi.

3) Ma non può darsi al reo questa copia prima che si sia dichiarato di reputare per bene, e rettamente ricevuti e legittimamente esaminati i testimoni che sono stati esaminati per informazion della Corte perché essendo stati esaminati gl’istessi testimoni senza citazione del reo, e in conseguenza contro la disposizion della legge così non provano, però devono repetersi colla citazione del reo, e tutto l'esser legittimo del processo //[p.129] informativo consiste in questa ripetizione di testimoni con aver citato il reo.

4) Questa citazione poi si contiene nella clausula[sic], et fuit monitus posta nel fine della risposta all'inquisizione la quale equivale a detta citazione come dice il Savelli nella prefazione al no68 (30), dove dice che in Toscana si pratica, che doppo alla risposta all'inquisizione unico contestu si spediscono, e la publicazione del processo, e l'assegniazione del termine a difendersi e la citazione suddetta.

5) Non è poi necessaria la repetizione dei testimoni se il reo ha confessato di propria bocca essendo a sufficienza legittimo il processo per la di lui confessione neppure è necessaria la detta repetizione, //[p.130] se gl’istessi testimoni con giuramento, si saranno confrontati col reo. Il Claro alla q.48 al versiculo Ceterum (31) osserva che non è necessaria la ripetizione dei testimoni se il reo contumace sarà stato ammesso a purgar la contumacia e a far le difese.

6) Ma se manca la confessione del reo, e non sarà stato messo al confronto con i testimoni e non avrà voluto reputare i testimoni per bene e rettamente esaminati allora il giudice dovrà rendere legittimo il processo con repetere veramente i testimoni.

7) Ma questa repetizione di testimoni non essendo altro che un nuovo esame dei testimoni sopra le medesime cose con citazion del reo, però in questo nuovo esame deve osservarsi tutto quello che //[p.131] abbiamo detto al titolo[VIII,libroII] de Testibus come se giammai fossero stati esaminati.

8) Ma la repetizione dei testimoni dove farsi dal reo nel primo termine di due giorni, assegniabili per repetergli altrimenti passato questo termine per la di lui contumacia si hanno per repetuti e non vi è più luogo alla repetizione, secondo la forma del decreto che si pratica in questo stato, nella quale non si dice come negli altri stati cioè "alias ad videndumrepetitur " ma si dice alias habendum pro repetitis , e così si trasferisce nel reo stesso il peso di provare in altro modo la sua innocenza.

9) Ma anche doppo la contumacia del reo possono repetersi i testimoni per via di capitoli defensionali //[p.132] non per via d'interrogatorii, e tra i capitoli, e gl’interrogatorii vi è quella differenza che i capitoli si devono notificare al reo, col termine di due giorni, a dar gl’interrogatorii, gl’interrogatorii poi non si notificano né si mostrano ad alcuno.

10) Finalmente se in questo nuovo esame i testimoni non dicessero come nel primo esame, e così distruggessero l'intenzione del fisco, devono ritenersi in segrete fino alla spedizion della causa perché possino esser puniti, come inquisiti di falsità o piuttosto credendosi subornati, sieno sottoposti alla tortura per sapere da essi chi gli abbia subornati a dire diversamente da quello che hanno detto nel primo deposto, deve però //[p.133] il giudice protestarsi che da a loro questa tortura, citra preiudicium iurium fisco quocumque modo competentium; ma se si trattasse di cause lievi, o la variazione dei testimoni non fosse nelle cose sostanziali, o se si potesse in qualche modo conciliare il secondo esame col primo, gl'istessi testimoni non devono molestarsi, o al più si devono licenziare con

mallevadore per assicurare l'interesse del fisco, se pure questo per questo capo dovesse farsi il processo criminale contro di loro d'ordine dei superiori Sabelli nella sua prefazione no 79 et seg. (32).

Tit. V

Della Difesa del Reo

1) Legittimato il processo, in uno, o nell'altro dei sopraddetti modi cioè //[p.134] o con la vera repetizione dei testimoni o colla dichiarazione fatta espressamente dal reo di avere cioè per bene e rettamente esaminati i testimoni esaminati nell'informativo, o colla dichiarazione fatta tacitamente la qual tacita dichiarazione è quando il reo lascia passare il termine assegniatoli[sic] per repetere i testimoni, deve finalmente darsi all'inquisito la copia di tutto il processo la quale deve pagare se pure non è povero nel qual caso gli si deve comunicare gratis Sabelli in detta prefazione no 64 (33).

2) Ma non solo se il delinquente è povero gli si deve dar gratis la copia del processo informativo ma a spese del pubblico deve formarsi tutto il processo defensivo giacché le difese devono //[p.135] concedersi indistintamente a tutti ancorchè alcuno non le chieda, e ancorché abbia a quelle renunziato, e ancorché habbia già confessato il delitto (34); anziché il giudice ex officio deve cercare le difese de rei, ed anche a quelli che condannati in contumacia sono poi catturati si assegnia il termine a dir la causa, per cui non debba eseguirsi la sentenza data contro di loro.

3) Doppo che dunque al reo è stata data la copia del processo deve estrarsi dalle carceri segrete, nelle quali deve sempre tenersi mentre si fabbrica il processo informativo, e deve porsi alla larga, acciocché possa parlare ai Procuratori, e agl’avvocati, e fare ogni altra cosa a lui profittevole, oppure deve rilasciarsi con mallevadore //[p.136] di rappresentarsi ad omne mandatum curiae acciocché faccia le sue difese fuori di carcere, e il Savelli nella sua prefazione al n.o 123 e 136 e alla parola Carcerati al n.o 20 dice che cosi si osserva in Toscana per comando del serenissimo Gran Duca del 12 ottobre 1680 (35).

4) Per conoscere poi quando il reo debba far le sue difese in carcere, e quando possa concedersegli che lo faccia fuori di carcere devono costituirsi tre casi principali.

5) Il primo caso è quando si tratta d’un delitto il quale è gravissimo e in questi casi si tiene il reo in segrete con facoltà di parlare al Procuratore, e all'avvocato, e se lo richiede il bisognio in presenza //[p.137] del giudice e del notaro, o in presenza d'altra persona ad arbitrio dell'istesso giudice.

6) Il secondo caso è quando si tratta d’un delitto il quale sebbene non sia atroce, né gravissimo per cui però può imporsi pena corporale, e allora l'inquisito si ammette a far le difese alla larga, e può parlare a suo piacere ai Procuratori, e agl’avvocati.

7) Il terzo caso è quando si tratta d'un delitto, per cui non deve imporsi la pena afflittiva di corpo, e in questo caso regolarmente, è permesso il rilassare[sic] il reo nelle carceri con mallevadori, anzi se non troverà mallevadori suole per consuetudine ammettersi alla cauzion giuratoria.

8) Sappiano poi i Procuratori e gli //[p.138] avvocati che devono difendere gl’inquisiti con modi leciti, e secondo le regole di ragione, e non con modi illeciti.

9) Il Procuratore pertanto potrà in primo luogo far la repetizione de testimoni che sono stati esaminati per informazion della Curia, deve però farlo nel primo termine assegniato al reo per repetere i testimoni e prima che gli sia data la copia del processo come sopra abbiamo detto, e il Procuratore potrà far questa repetizione di testimoni se spera di poter riportare da questa repetizione qualche fondamento per difendere il reo, e questo modo di difendere, cioè di cavar dal processo informativo fondamenti per la difesa, è il modo più nobile, questa difesa però è difficile, ed è poco praticata //[p.139].

10) Stieno però cautelati i giudici in questo caso perché gl’ interrogatorii che si presentano per la repetizione de testimoni dovendo riguardare una più chiara spiegazione di quelle cose, che gl'istessi testimoni hanno deposto per il fisco, se contengono cose che tendano a distruggere gl’indizi acquistati, il giudice deve resecargli[sic], e stia bene avvertito, perché tali interrogatorii molte volte sono fatti con malizia, e un Procuratore ingegnioso fa gl’interrogatorii, che in apparenza mostrino che si ricerca la

spiegazione del punto detto, ma in verità imbrogliano il testimone perché se è falso, contradica[sic] a quel che ha detto oppure attesti cose inverisimili, per lo che vada a terra la di lui testimonianza.

11) In oltre il Procuratore deve far gl’articoli di difesa cavati, o da //[p.140] ciò che hanno deposto i testimoni nella repetizione, o cavati da altre ragioni che l'avvocato piglierà per difesa del reo, e presenterà quest'articolo al giudice.

12) Rispetto poi a quest'articoli, e testimoni che devono esaminarsi a difesa del reo, devono farsi alcune osservazioni.

13) Primo che gl’articoli non sieno impertinenti, perché se fossero tali né direttamente né indirettamente farebbero per la causa, e il giudice non gli deve ammettere neppure colla clausula[sic] salvo iure impertinentium, siccome non gli deve ammettere se fossero infamatorii, se pure non fossero onninamente necessarii per la difesa del reo.

14) 2o: che a ciascheduno articolo si assegnino i testimoni, dai //[p.141] quali quell'articolo sia provato, sebbene fossero quei medesimi testimoni che prima furono esaminati a favor del fisco purché iam non fuerint repetiti.

15) 3o: che i detti articoli si notifichino all'accusatore, o al querelante, e se questo non vi è si notifichino a chi sostiene le parti della giustizia, e questi tali si citano a dar gl’interrogatorii altrimenti a veder riceversi detti articoli, a veder giurare, e esaminarsi.

16) 4o: i testimoni che sono indotti a difesa devono regolarmente essere esaminati dal giudice stesso ancorché fossero lontani perché la distanza del luogo non si attende ma si citano perché vengano personalmente //[p.142] a deporre.

17) 5o il giudice non ammetterà i testimoni per provare la negativa coartata se prima non si costituiscono in carcere perché i testimoni che depongono sopra la negativa sono subito sospetti di falso: si dice poi che il testimone depone sopra la negativa, V:G: se Tizio avesse contro di sé indizi, d'aver commesso in un tal giorno, e in un tal luogo un omicidio, e per mezzo di testimoni volesse provare che egli in tutto quel giorno fu in altro luogo, e non poteva partire senza esser veduto da quei testimoni.

18) Per aito de novizi mi piace addurre alcuni luoghi dai quali il Procuratore può cavar la difesa del reo //[p.143] (36).

19) In primo luogo pertanto può difendersi il reo contro la sua propria confessione, giacché de iure possono darsi molte eccezzioni[sic], anche contro la propria confessione con opporre V:G: che la confessione non è stata fatta d’avanti al giudice competente, che la confessione è stragiudiciale, che è stata estorta dal reo, con dargli speranza che egli non resterebbe punito, che la confessione non è libera, e assoluta, ma qualificata oppure con ritrattarla e con dire che egli può provare il contrario, oppure con dire, che non costa del corpo del delitto, oppure con dire che non ha fatto tal confessione, e che l'attuario è quello che ha scritto in quella forma.

20) 2o: può difendersi il reo //[p.144] con dire che è perenta l'istanza della causa, la quale de iure resta prescritta in due anni.

21) 3o: può opporsi che è morto l'accusatore, ma questa opposizione vale contro gli eredi dell'accusatore non contro il giudice che procede ex officio.

22) 4o: può opporsi con dire che il reo fu assoluto[sic] dal medesimo delitto come innocente, o fu condannato ed ha soddisfatto alla pena.

23) 5o: può difendersi se ha avuto la pace, e il perdono dalla parte, o se ha avuto la grazia dal Principe; o se del delitto ha fatto composizione, o transazione col fisco.

24) 6o: può difendersi se il delitto è rimasto prescritto V:G: se dal dì del commesso delitto, è //[p.145] scorso tanto tempo che sia rimasto estinto il delitto.

25) 7o: può difendersi se si prova che il delitto non fu commesso V:G: se si procede contro Tizio, perché abbia ammazzato Caio, se si fa comparire in giudizio Caio vivo, si prova che il delitto non fu commesso.

26) 8o: può difendersi se il delitto poteva commettersi V:G: se alcuno avesse ammazzato un bandito, un ladro, un adultero, i quali in vigor di statuto potessero uccidersi impunemente; oppure se l'avesse ammazzato per difendersi, non però la sua roba cum moderamine inculpate[sic] tutelae. (37)

27) 9o: può difendersi con dare eccezzioni[sic] contro i testimoni V:G: perché sono falsi, o non sono maggiori d'ogni eccezzione[sic], o sono singolari //[p.146], oppure non sono esaminati con giuramento, oppure non furono repetuti.//7) Codice, 8,4,1.

28) 10o: può difendersi se per esser tenero d’età non può esser punito come sarebbero gl'impuberi che non sono capaci di dolo.

29) 11o: può difendersi se il delinquente ha commesso il delitto in atto di collera trasportato dall'amore oppure ubriaco.

30) 12o: può difendersi se alcuno avesse commesso il delitto spinto dalla violenza, o dal timore, oppure essendo assalito o provocato, o per ignioranza, o per credulità, o a caso fortuito, e così senza intenzione di far male et sine dolo.

31) 13o: può difendersi per incertezza, V:G: da molti è stato ferito a morte uno, e non si //[p.147] sa chi di loro l'abbia ammazzato, o perché il ferito è morto per un'altra causa fuori che per le ferite fattegli dall'inquisito.

32) 14o: può difendersi con provare la negativa coartata.

33) 15o: può difendersi se il processo è nullo, o per difetto di giurisdizione del giudice, o perché è stato fabbricato contro un minore, cui non sia stato dato il curatore, o perché il processo è fondato sull'inquisizion generale, senza esser fatta alcuna inquisizione speciale.

Tit. VI

Dalla Tortura dei Rei

1) Se non ostante le difese fatte dal preteso reo, egli non si sarà purgato del tutto da tutti gl’indizi cumulati dal fisco nel processo //[p.148] informativo, contro di lui, ma vi rimangono alcuni indizi non purgati, se sono rilevanti allora il giudice proseguendo il processo criminale contro dell'inquisito, può far decreto o proferir sentenza interlocutiva, nella quale dica, che il reo deve esser torturato.

2) Ma in Toscana dai giudici inferiori, o dai rettori dei luoghi non può darsi la tortura senza partecipazione del Magistrato degl'Otto della città di Firenze, e però prima che i giudici proferischino la sentenza interlocutoria di torturare il reo devono ragguagliare il detto magistrato con addurre i fondamenti di dar detta tortura, e fino a che da detto magistrato non sarà rimesso al giudice detto ragguaglio, con approvazione //[p.149] o disapprovazione di detta tortura non possono innovar cosa alcuna ma devono astenersi da ogni esecuzione.

3) Si ricercano però molte cose affinché legittimamente possa dal giudice torturarsi il reo, e affinché il reo possa essere condannato per la confessione da lui estorta con la tortura. (38)

4) Primo: si proceda criminalmente per un delitto perché allora (checché siasi di gius Comune) basta per dar la tortura ancorché il delitto sia lieve, e meriti una pena minore del perpetuo bando, ancorché meriti pena pecuniaria o qualunque altra pena, non afflittiva di corpo Cavallo caso 28. (39) Savelli verb. Tortura no 10 (40).

5) 2o: perché il reo possa torturarsi deve costare del corpo del delitto //[p.150] per questa causa, perché la tortura non si dà per mettere in chiaro il fatto, ma per mettere in chiaro la persona, e non si giusticerebbe[sic] la persona, se la pena fosse data senza la precedente prova del corpo del delitto, ancorché detta prova potesse sopravvenir doppo.

6) 3o: si ricerca che sieno urgenti gl’indizi contro il reo, che siino verisimili, e possibili, e che sieno sufficienti per la tortura come al tito. de indiciis [IX,libroII] perché se il reo fosse convinto dai testimoni contesti o per mezzo d’istrumenti idonei, o per la propria confession libera, o fosse aggravato da indizi certi, e indubitati, non dovrebbe esser torturato, ma condannato, potendo il giudice venire alla tortura solo quando non può //[p.151] cerzionarsi[sic] del vero altrimenti.

7) 4o: si ricerca che la tortura si dia a coloro i quali, secondo le leggi possono esser torturati atteso che non può esser torturato un minore di quattordici anni, un vecchio decrepito, una donna gravida, e neppure ai 40 giorni doppo il parto, un infermo, un cagionoso, o uno che ha qualche malattia.

8) 5o: non può darsi la tortura se il reo non ha fatte le sue difese, e se non ostante le difese fatte, non vi sieno rimasti alcuni indizi bastanti per torturarlo come habbiam detto nel principio di questo titolo; atteso che la facoltà di procedere alla tortura per quei soli motivi che resultano dal processo informativo //[p.152] senza dar le difese, è riserbata solamente ai Tribunali Superiori, i quali sogliono torturare in questa forma, solo nei delitti atrocissimi, e solo contro i rei, contro i quali vi sieno moltissimi e urgentissimi indizi; i quali possino chiamarsi chiari, ed evidenti, e se pure il reo fosse diffamato di aver commesso molti delitti, talmente che se fosse un reo insigne.

9) 6o: si ricerca che i tormenti sieno soliti a darsi, e in Toscana sono questi quattro, cioè la fune che specialmente si chiama tortura, ed è approvata dal gius Comune la vigilia, che oggi si chiama capra (41), dall’istrumento con cui oggi si dà i dadi gli zufoli, ed anche le bastonate o nerbate //[p.153].

10) 7o: si ricerca che nel dar la tortura il giudice usi moderazione cioè torquisca i rei ora più leggermente, ora più gravemente, secondo la qualità del delitto, e degl’indizi; questa moderazione poi di tortura consiste in in gradibus in tempore, et in repetitione ipsius torturae (42).

11) I DD. comunemente assegniano tre gradi di tortura.

12) Dicono che il primo grado è quando il reo si tiene alzato da terra per poco tempo V:G: di due o tre minuti senza alcuna scossa di corpo.

13) Dicono che il secondo grado é quando il reo ritenuto più lungo tempo nella tortura V:G: per un quarto d'ora, per mezz'ora, per tre quarti d'ora, o anche per un’ora intiera aggiuntavi una, o più //[p.154] scosse di fune, o più quassazioni (43).

14) Il terzo grado è quando oltre alle scosse di fune il giudice comanda che il reo sia torturato con legame di ferro ai piedi, o con qualche grave peso legato a piedi.

15) Alcuni costituiscono un altro grado di tortura, cioè quando il giudice non avendo indizi sufficienti per la tortura intimorisce il reo con minacciargliela, o comanda che egli sia spogliato, legato, e applicato alla corda talmente che manchi il solo alzarlo da terra, ma questi atti, sono uno spaventare, e un minacciare il reo non un torturarlo.

16) Il giudice non può continuare il tormento della fune più di un’ ora quando tortura il reo come principale per scuoprire la verità //[p.155] perché se la tortura per scuoprire i complici, e i fautori non lo può torturare più di mezz’ora e se lo tortura come testimone verisimilmente informato lo può ritenere nella tortura per un quarto d'ora, e alcuna volta per mezz'ora. Non può continuare la tortura, se il reo si sviene nei tormenti, perché non segua la di lui morte seguitandolo a torturare, e perciò quando il giudice può dubitare del vero svenimento, subito deve levare dal tormento il reo, e deve far descrivere dal notaro il modo dello svenimento, e deve far descrivere d’aver asperto nel di lui volto acqua o aceto, o altri rimedi, che avrà usati.

17) Che sia di gius Comune il giudice non può ridar nuovamente la tortura per i medesimi indizi, e però se il reo è stato torturato a proporzione degl’indizi non gli si //[p.156] può dar nuova tortura se non sopravvengono nuovi indizi i quali de facto, e sostanzialmente siano differenti dai primi.

18) Il Savelli verb. Tortura al no 19 (44) osserva che ne delitti atroci se il reo è giovane, e robusto il giudice può dividere il tempo decretato nella tortura, e può ripeter la tortura in giorni interpolati; purché però quando ordina che il reo sia deposto dalla prima, o dalla seconda tortura faccia scrivere dal notaro che lo leva della tortura con animo di torturarlo di nuovo, anziché se il delitto è atrocissimo, e gl’indizi urgentissimi il giudice può ordinare la quassazione, oppure ordinare l'intiera tortura, con riservarsi la facoltà di condannare il reo in qualche pena straordinaria, e ivi dice il Savelli che in questo //[p.157]

Stato in cambio della quassazione suol praticarsi la capra il qual tormento non può dividersi ne ridarsi di nuovo, ma può tenersi il reo in quel tormento per dieci, o dodici ore, ed anco più.

19) Se per un istesso delitto devono torturarsi molti s’incomincia la tortura dal più sospetto che sia di mala vita, e fama, e sono tutti ugualmente sospetti s'incomincia dal minore; dal più debole e dal più timido siccome se tra i rei vi è una donna si deve incominciar la tortura dalla donna, e se vi è il figlio, e il padre si deve incominciare dal figlio il quale deve torturarsi in vista del padre, e se son rei i servi, e i padroni si deve incominciar la tortura dai servi. Il Baiardo (45) osserva che se il padre in veder torturare il figlio confessa il delitto, o al contrario,//[p.158] si direbbe che ha confessato nei tormenti, e però non si sta alla di lui confessione, se non è ratificata.

20) Perché possa credersi alla confessione estorta dal giudice o col dolor de tormenti, o col timor de medesimi è necessario che il confesso sciolto dalla fune fuori dalla stanza della tortura doppo un certo tempo ratifichi che la confessione d’avanti al giudice che siede pro tribunali il qual tempo per certo non trovandosi determinato nella legge regolarmente è doppo 24 ore oppure nel dì seguente.

21) Se il reo non vorrà ratificare la sua confessione anzi la ritratterà come fatta per timore o per il dolor de tormenti, il giudice di nuovo lo potrà sottomettere alla tortura, e se confessasse //[p.159] in questa seconda tortura, e poi non volesse ratificare la confessione si tortura per la terza volta, e se per la terza volta non volesse ratificare la confessione non può torturarsi la quarta volta essendo comune sentimento che il reo non può torturarsi più di tre volte.

22) Osservano però varii autori due cose, la prima che il reo il quale non avrà variato il suo detto, ma sempre avrà negato nella tortura, possa torturarsi solamente due volte.

23) La seconda cosa che osservano è che se il reo non dice che la confessione da lui fatta nella tortura è falsa, e che egli ha detto così per dolor de tormenti, ma dice che la sua confessione è erronea, e che intende di provar l'errore, osservano varii //[p.160] autori che il reo non deve nuovamente torturarsi ma deve porsi nella publica carcere con assegniarli[sic] il termine che egli asserisce, anzi a provar l'errore.

24) Torturato però il reo, o egli ha negato d'aver commesso il delitto, o lo ha confessato.

25) Se lo ha negato secondo le leggi dovrebbe con sentenza definitiva essere assoluto, tutti i Tribunali però costumano d'assorverlo, ma colla clausula[sic]rebus sic stantibus, ovvero ex hactenus deductis ovvero con fargli dare il mallevadore di rappresentarsi toties quoties, e allora si rilascia dalle carceri e se non gli è stata data l'intiera tortura può condannarsi alla pena straordinaria.

26) Se poi il reo ha confessato, //[p.161] ed ha ratificato la sua confessione fuori dei tormenti il giudice è obligato ad assegniarli[sic] un breve termine conforme e lui parrà, purché dica contro la confessione ratificata passato il qual termine, e dentro a quello prodotte e allegate, o non prodotte, né allegate dal reo quelle difese che puote, e vuol fare finalmente il giudice pronunzierà la sua sentenza definitiva.

Note al libro III

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(1) Ci si riferisce alla legge del 19 Novembre 1569 il cui testo viene riportato da LORENZO CANTINI, Legislazione Toscana, VII, Firenze 1803, 117-124, con il titolo Provvisioni concernenti l’Amministrazione della Buona Giustizia nelle cause criminali dello stato, fermate, e stabilite dalli Mag. Luogot. e Consiglieri, con partecipazione delle Eccell. loro Illustriss. del dì 19 Novembre 1569 (vedi anche SAVELLI, Pratica Universale, alla parola Citazione, n.66, 76).

(2) Nel testo troviamo prore, forma sincopata per procuratore, ma abbiamo deciso di scrivere sempre la parola per esteso.

(3) Nei precedenti secoli del cosiddetto "periodo del predominio neo-latino" bastava che il reo non si presentasse alla seconda citazione per esser messo al bando (vedi CARLO CALISSE, Storia del Diritto Penale Italiano, 260-261).

(4) Come il Friedlos del periodo barbarico, oltre a perdere i diritti di cittadinanza, di proprietà, di famiglia e della persona anche ai tempi del Borghi il bandito, pur con molte mitigazioni, poteva essere impunemente offeso o ucciso da chiunque (vedi CALISSE, 261-262).

(5) Anche se il riferimento è estremamente generico, e non ci permette di individuare precisamente il passo menzionato, possiamo dire che l’opera di CARLO ANTONIO DE LUCA citata dal Borghi è quasi sicuramente: Praxis iudiciaria in civilem divisa, et criminalem, pubblicata per la prima volta a Napoli nel 1685, e messa all’indice l’anno successivo a causa della sostanziale laicità del suo indirizzo.

(6) Nel manoscritto troviamo habbia ma la lettera h è cancellata dallo scrivente.

(7) Allusorio, è un errore di trascrizione perché, come si evince dal senso del discorso, lo scrivente voleva dire illusorio.

(8) Feriato, nel diritto canonico questo termine indica i giorni in cui generalmente non si possono compiere atti processuali.

(9) Nel diritto romano, come si vede dal passo del Digesto che dice "nemo de domosua extrahi debet" (50,17,103) , ed anche in statuti cinquecenteschi tra i quali quello di Lucca era vietato procedere all’arresto di chi si trovava in casa propria. Però nel Settecento tale principio non valeva più, e per prelevare il delinquente dalla propria casa era lecito anche l’uso della forza (vedi CALISSE, 200).

(10) Mallevadore, soggetto che garantiva l’osservanza e l’esecuzione del giudicato del Tribunale (vedi GIULIO REZASCO, Dizionario del Linguaggio Italiano Storico ed Amministrativo, Bologna 1881, 594-595).

(11) Famiglio, servente di un magistrato, oppure sinonimo di birro. Viene anche detto famiglio della giustizia (vedi REZASCO, 410).

(12) Qui il Borghi inizia una ampia digressione di diritto canonico, disciplina che conosceva bene in quanto era stato lettore pomeridiano di istituzioni canoniche dal 1736-37 al 1742-43 nell’Università di Pisa.

(13) Con le riforme di Pietro Leopoldo furono abolite le immunità dei luoghi sacri (vedi NICOLA CARRANZA, L’Università di Pisa e la formazione culturale del ceto dirigente toscano del Settecento, in "Bollettino Storico Pisano", XXXIII-XXXV, 1964-66, 469-537. Più in generale sulla figura di Pietro Leopoldo e sulle sue riforme, vedi ADAM WANDRUSZKA, Leopold II, Wien-Munchen, 1965

(14) Molto probabilmente il Borghi si riferisce ad una Bolla di Innocenzo XII (Antonio Pignatelli, 1615-1700), il cui testo si può leggere in Magnum Bullarium Romanum, VII, Lussemburgo 1727-1730, 127 e seguenti.

(15) Il testo della Bolla, emessa da Gregorio XIV nel 1591 in materia di immunità, si può leggere in Magnum Bullarium Romanum, II, Lussemburgo 1727-1730, 765-766; mentre la Bolla emanata nel 1725 da Benedetto XIII, la quale riprende quella di Gregorio XIV, è riportata sempre in Magnum Bullarium Romanum, VII, Lussemburgo 1727-1730, 482-485.

(16) Tosare significa ridurre il valore intrinseco delle monete, in genere limandole.

(17) Prima dell’articolo il nel manoscritto è riportata la parola contro ma cancellata, quindi espunta dallo scrivente.

(18) TRANQUILLO AMBROSINI, Processus informativus, 161-162 .

(19) La legge del 21 Aprile 1679 viene citata dal SAVELLI, Pratica Universale, § Giuramento, n, 36, 218, e riportata da LORENZO CANTINI, Legislazione Toscana, XIX, Firenze 1805, 109-111, con il titolo Sopra il non darsi giuramento nelle cause criminali, o miste, a rei delinquenti.

Nei processi che si celebravano al tempo del Borghi l’istituto del giuramento era molto diffuso, ma la riforma penale del 1786 lo abolì sia nelle cause criminali che in quelle civili, perché foriero di gravi inconvenienti (vedi PIETRO LEOPOLDO D’ASBURGO LORENA, Relazioni sul governo della Toscana, a cura di Salvestrini, volume I, Firenze 1969, 135-136).

(20) In questo punto, come poco dopo al n. 11, viene citata, anche se in maniera assai vaga, l’opera di FLAMINIO CARTARI, Praxis et theorica interrogandorum reorum (vedi retro la nota n. 24 del libro II).

(21) Giudice novizio, così era chiamato chi sedeva per la prima volta in qualche magistrato (vedi REZASCO, 689). Questo passo evidenzia il forte intento didattico che anima il Borghi.

(22) Per causa, nel manoscritto è ripetuto due volte per un errore di trascrizione.

(23) Borghi cita una Bolla di Paolo III del 1548, la quale si può leggere in Magnum Bullarium Romanum, I, § 9, 776-778.

(24) BARTOLOMEO DA SALICETO, In Secundam ff. veteris Partem Commentaria, Venezia 1586. Seguendo alla lettera il manoscritto si dovrebbe ritenere che la rubrica citata sia De Constituta pecunia; fo. 55-57, ma secondo il senso del discorso è più probabile che ci si riferisca alla rubrica De Testibus, fo. 157-160.

(25) Tale citazione è errata perché nel capitolo 14o del libro 4o dell’opera Processus informativus dell’AMBROSINI il no 20 non esiste.

(26) SIGISMONDO SCACCIA, Tractatus de iudiciis causarum civilium, criminalium, et haereticalium, Colonia 1738. La citazione proviene dal libro I, capitolo LXXXVI, n. 48, 256-257.

(27) Il numero di pagina 126 è ripetuto due volte.

(28) A partire da questo passo il Borghi comincia ad elencare tutta una serie di "regole di mestiere". Ciò dimostra abbastanza chiaramente che le Instituzioni costituiscono un manuale di iniziazione alla professione forense.

(29) Questa citazione è errata perché nel capitolo 2o del libro 3o dell’opera Processus informativus dell’AMBROSINI il n.33 non esiste.

(30) SAVELLI, Pratica Universale, IX.

(31) GIULIO CLARO, Receptae Sententiae, libroV, § XXI, q. 48, n. 4, Venezia 1595. Il versiculo non è Ceterum ma Caetera, e si trova al fo. 145.

(32) SAVELLI, Pratica Universale, X.

(33) SAVELLI, Pratica Universale, VIII.

(34) Le prassi giudiziarie del secolo XVIII mostrano che in materia di processo informativo non si erano realizzati grandi progressi rispetto alle dottrine di Claro e Farinaccio. Tuttavia erano state introdotte interessanti novità riguardo alla concessione di una più larga difesa all’imputato (vedi Storia del Diritto Italiano, a cura di Pasquale Del Giudice, vol. III, parte II, cap. IX, Milano 1927, 390-392).

(35) SAVELLI, Pratica Universale, il n. 123 si trova a XIV; il n. 136 a XV; la parola Carcerati a 58.

(36) Qui si può effettuare un parallelo con la letteratura "corporativa" notarile (vedi MARIO MONTORZI, Il notaio di Tribunale come pubblico funzionario.., Roma 1985, 22-24 e 36-58)

(38) In Toscana, benché nessuna legge scritta l’avesse ancora condannata, la tortura nella seconda metà del Settecento era quasi in desuetudine. Infatti Pietro Leopoldo notò che già prima della sua ascesa al trono non si praticava più. Poi la riforma penale del 1786 la abolì definitivamente insieme alla pena di morte (vedi PIETRO LEOPOLDO, Relazioni sul governo della Toscana, a cura di Salvestrini, volume I, Firenze 1969, 133-134; vedi anche, più in generale, ADAM WANDRUSZKA, Leopold II, Wien-Munchen 1965).

(39) PIETRO CAVALLO, Resolutiones Criminales, Firenze 1646. Il caso 28 é trattato alle 48 e 49.

(40) SAVELLI, Pratica Universale, 146.

(41) Capra, strumento di tortura usato nei sec. 16o-18o in casi molto gravi. Era un cavalletto che terminava in alto con una punta, su cui si faceva sedere l’imputato, tenuto fermo in quella posizione da un sistema di corde.

(42) Citazione dal SAVELLI, Pratica Universale, alla parola Tortura, 415-420.

(43) Quassazioni, dal verbo quassare che significa sbattere, scuotere.

(44) SAVELLI, Pratica Universale, 417-418.

(45) GIAMBATTISTA BAIARDI (1530-1600), Additiones et annotationes insignes, ac solemnes ad Iulii Clarii lib. V Receptarum Sententiarum sive praticam criminalem, Parma 1597, fo. 208 nel quale si commenta la q. 64, n. 91, "Quaero si plures".

Libro IV

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Tit. I

Delle Pene

// [p.162]

1) Dovendo il giudice prima di sentenziare determinare la certa (1) e giusta pena secondo la qualità del delitto del delinquente, e delle circostanze (2), però tratteremo in primo luogo delle pene.

2) La pena est malum passionis quod infligitur a superiore ob malum actionis. (3)

3) Dicesi male di patimento non perché la pena sia una cosa mala, e repugni alla giustizia essendo anzi cosa buona perché tende a correggere il delinquente, ed a conservare l'umana società //[p.163] ma si chiama male di patimento, in quanto che quello che soffre la pena, reputa per cosa cattiva il gastigo[sic], e gl'incomodi che gli cagiona il gastigo[sic]; questa pena deve imporsi solamente per il male dell' azione cioè per il commesso delitto, e può imporsi solamente dal

superiore cioè da chi ha la somma potestà, e ha l'impero meno, e non deve imporsi da un giudice incompetente, e molto meno da una persona privata.

4) Le pene si dividono in capitali, e non capitali.

5) Le capitali sono quelle colle quali per i delitti più atroci si toglie la vita.

6) Le non capitali sono quelle //[p.164] per le quali per una cattiva azzione[sic] s' impone un male di patimento senza toglier la vita naturale.

7) L'altra division della pena è in ordinaria, e straordinaria.

Pena ordinaria si chiama quella che è determinata dalle leggi, o è stata costituita dal Principe, o dalla consuetudine.

8) La straordinaria è quella che è imposta dal giudice a proprio arbitrio. (4)

9) Secondo l'uso del foro la pena ordinaria s'intende la pena della morte; la pena straordinaria si chiama qualunque altra pena che si dà senza morte.

10) L'ordine dei gradi della pena //[p.165] secondo il giudice civile è questo.

11) Il grado infimo è la pena pecuniaria la quale può accrescersi, e diminuirsi secondo la maggior o minor qualità della pena da sodisfarsi[sic].

12) Succedono le pene incorporali che hanno i suoi gradi V:G: la privazion del magistrato, o dell'ufizio[sic], l'esser rigettati da poter far testimonianza, l’infamia (5), la relegazione, (6) e l 'esilio. (7)

13) Ne seguono le pene corporali senza la morte V:G: la condanna alla berlina; l'esser frustati l'esser condannati a tratti di corda, al bollo (8) alla galera ai lavori publici, o al taglio di qualche parte del corpo.

14) La pena maggiore è la pena di morte che ha i suoi gradi //[p.166] maggiori, o minori nella sua atrocità (9) V:G: l'esser attaccato alla forca, l'esser troncato il capo, esser tirato al patibolo a coda di cavallo; esser dilacerate le carni con tanaglie infocate, essere stritolate l' ossa con una ruota, esser bruciati vivi.

15) Devono dunque imporsi quelle pene che sono ordinate dalle leggi se pure sono in uso, giacché il giudice non può imporre quelle pene che non sono in uso.

16) Alle volte però un qualche delitto è punito in vigor di più e diverse leggi V:G: per un istesso delitto dal gius comune è imposta una pena, un altra dallo statuto municipale un altra finalmente da un editto, o da una legge particolare; alle volte non trovandosi //[p.167] nella legge determinata la pena di un delitto è in arbitrio del giudice.

17) Alle volte finalmente per qualche circostanza più grave, o più piccola il giudice deve variar la pena imposta dalle leggi, con accrescerla, o con diminuirla.

18) Rispetto al primo caso dunque si dà questa regola generale.

L'editto particolare fa che non si può imporre la pena imposta dal gius comune, e dallo statuto ancorché la pena ordinaria dell’Editto particolare fosse una pena minore della statutaria, o di quello che ordina il gius comune, seppure non fosse un nuovo editto, o una nuova legge che fosse cumulativamente ordinata insieme //[p.168] colla pena del gius comune, o dello statuto, oppure se non fosse una legge interpretativa di un'altra antica legge controversa perché in questo caso dovrebbe imporsi l'una, e l'altra pena.

19) Se poi l'Editto o la legge particolare dispone della pena di quel delitto si deve imporre la pena disposta dallo statuto, e non la pena disposta dal gius comune.

20) Se lo statuto poi non dispone della pena di quel delitto si deve attendere il gius comune.

21) Quando poi la legge rilascia in arbitrio del giudice il determinare la pena, s' intende un arbitrio di un uomo onesto, un arbitrio non libero ma appoggiato // [p.169] alla legge, e alla ragione, e però opererà con più sicurezza il giudice se nell'assegniare la pena confronterà il delitto con altri delitti simili a quali è stata assegniata la pena ordinaria, o regolerà il suo arbitrio non libero, ma con gl’ esempi d'altri illustri Tribunali in un caso simile, o colle dottrine dei criminalisti le quali sono tante che non si può dar caso alcuno non più sentito che non si trovi descritto nei criminalisti. (10)

22) Rispetto al terzo caso se nel delitto vi è qualche circostanza non detta nel titolo [II,libroI] de Circumstantiis delicti per la quale deve accrescersi, o diminuirsi la pena, il giudice deve osservare una regola che è questa che se il delitto merita un'accrescimento di pena quella si accresce fino al grado più prossimo // [170], talmente che se la pena ordinaria è l'ultima in una specie di delitto, e in quel delitto vi è una qualità molto aggravante, l'arbitrio del giudice si può estendere al grado infimo dell'altra specie maggiore fino alla morte.

23) In simil forma nel diminuire la pena deve osservarsi il grado più prossimo nella lievità della pena, secondo il modo, e l'ordine sopraddetto conforme insegniano i dottori.

24) Il giudice non può imporre la pena al delinquente, né però la medesima eseguirsi se il delitto è rimasto estinto giacché in più modi restano estinti i delitti, e sono rimesse le pene //[p.171].

Tit. II

Dei Modi con i quali resta estinto il Delitto e sono rimesse le Pene.

1) In più modi resta estinto il delitto, e così non si dà più luogo alla pena cioé colla morte, col tempo, colla sentenza, con aver sodisfatto alla pena colla transazione, e coll'abolizione.

2) Si dà per regola che per la morte finiscono i delitti se è morto il reo (11), o l' accusatore.

3) Ma questa regola non è vera in alcuni delitti che durano anche doppo la morte, imperciorché sebbene per la morte non vi sia più la pena, anzi la //[p.172] persona sopra di cui cada la pena dura per anche il delitto rispetto al corpo del morto, e alla di lui memoria, e forma (12), ed anco rispetto ai beni dell'istesso delinquente defonto.

4) Dura rispetto al corpo, e alla memoria, e alla fama del morto nel delitto d' Eresia, per cui si disotterrano[sic]; e si bruciano le ossa, e si confiscano i beni. Dura nel delitto di Lesa Maestà in cui si confiscano i beni, e i figli del defonto sono spogliati d’ogni dignità, e non possono adire alcuna eredità.

5) Rispetto ai beni, dura solamente il delitto in tutti i delitti eccettuati, e generalmente negl’altri delitti, nei quali de facto, et de iure la legge //[p.173] e lo statuto impone la pena della perdita de beni.

6) Nei delitti poi non eccettuati rispetto ai beni dura solamente il delitto se sarà stata contestata la lite col defonto, e se sarà seguita la condanna, con questa dichiarazione però che se nella sentenza vi sarà stata imposta accessorie[sic], cioè per di più la pena pecuniaria, e questa sentenza non sarà passata in cosa giudicata, perché sia stato interposto l'appello, e pendendo l'appello oppure nel termine concesso ad appellarsi, se ne more il reo il delitto è estinto anche rispetto all'istessa pena pecuniaria. Se poi la pena pecuniaria è stata imposta // [p.174] principalmente allora indistintamente dura il delitto rispetto ai beni ancorché sia stato interposto l'appello dalla sentenza.

7) Finalmente nei delitti privati basta che la lite sia stata solamente contestata col defonto.

8) Anche per il tempo restano estinti i delitti quando è scorso tanto tempo in cui la legge vuole che il delitto resti prescritto. In 20 anni (13) de iure restano prescritti tutti i delitti e questo tempo si reputa larghissimo,

e deve contarsi dal dì del commesso delitto, e deve esser detto tempo continuato, e non interrotto per la querela, o per l'inquisizione che ne faccia il giudice //[p.175] ex officio, e il delitto in tal caso non resterebbe prescritto, ancorché il reo non fosse stato citato.

9) I delitti poi d'adulterio, di stupro, incesto, lenocinio, e simili delitti, e simili, e ancora il delitto di denaro pubblico rubato restano prescritti in soli 5 anni (14) se però non sono congiunti con altri delitti, che in tal caso si deve attendere la prescrizione più lunga.

10) In questo Stato di Toscana però sebbene in vigor della legge del 12 Settembre 1562 (15) regolarmente i delitti restano prescritti in cinque anni, sono però eccettuati il furto, la falsità, la ribellione, il tradimento, l'assassinio, la violenza fatta a maschi o alle femmine, per atti disonesti, giacché //[p.176] questi delitti restano prescritti solamente in dieci anni se pure non si richiede più lungo tempo a prescrivergli dagli Statuti di Firenze, o dagli Statuti del luogo ov’è stato commesso il delitto, giacché la detta legge fu promulgata non per restringere le disposizioni statutarie ma per ampliarle.

11) Resta estinto il delitto per sentenza del giudice se il reo fu assoluto come innocente, oppure se per difetto di prove fu assoluto con sentenza definitiva, perché in tal caso non può essere più inquisito né inquietato dal medesimo accusatore, né da altri, neppure dal Fisco, ma sempre può difendersi coll'eccezzione[sic] della reiudicata.

12) Se poi il reo non sarà stato //[p.177] semplicemente assoluto ma sarà stato assoluto ab instantia, ovvero ab observatione iudicis, o exhactenus deductis, o rebus sic stantibus, o in fide: cioè con obbligo di rappresentarsi sopravvenendo nuovi indizi, in questo caso non si può difendere coll'eccezzioni[sic] della reiudicata, perché sebbene tale assolutoria sembri che equivaglia[sic] alla sentenza definitiva per il motivo che non può rivedersi se non sopravviene qualche nuovo indizio; considerato però l’effetto, deve chiamarsi sentenza interlocutiva perché può rivedersi anche dal medesimo giudice fino a che dura il gius d'accusare.

13) Si estingue il delitto, con soccombere alla pena cioè se alcuno sarà stato condannato, e averà[sic] sofferta la pena interpostagli, e così avrà soddisfatto alla pena //[p.178] dalle leggi imposta, e alla sentenza del giudice, e il che per certo succede se avrà soddisfatto l'intiera pena perchè siccome il debitore non è liberato se non avrà pagato tutto il suo debito, così non resta libero il reo se non avrà soddisfatto tutta la pena talmente che se uno che s’impicca, si strappa il laccio, e non resta impiccato, il Claro, il Savelli, e il Cavallo, dicono che questo tale deve rimettersi nel supplizzio[sic] fino a che habbia pagata l'intiera pena con la morte.

14) Si estingue il delitto con la transazione cioè se il reo si compone col fisco in qualche pena pecuniaria questa transazione però è differente da quella transazione di cui parlammo nel titolo [II,libroI] //[p.179] de CircumstantiisDelicti, perché per quella resta estinta solo l’accusa, e

resta diminuito il delitto, ma per questa resta estinto l'istesso delitto, e il reo non può esser più molestato; giacché il denaro pagato succede in luogo della pena, perché si applica al Fisco, e questa specialmente si chiama composizione (16).

15) Ma questa transazione o composizione col Fisco può aver luogo solamente se non è stata data la sentenza, e se non costa pienamente del delinquente, e se non può condannarsi in pena alcuna, e se si dubita dell'evento della causa criminale, cioè perché può succedere che un reo che veramente ha delinquito, o resti assoluto col difendersi, o col //[p.180] sostenere la tortura, e in questa forma rimane impunito, o essendo per lo contrario veramente innocente può succedere che sia condannato, o perché non si è difeso a sufficienza, o perché per forza de tormenti ha confessato un delitto che non ha commesso.

16) In questa composizione col Fisco perché habbia il suo effetto devono osservarsi tre cose.

Primo: che il Fisco non l'ammetta se l'offensore non avrà soddisfatto all'offeso, altrimenti varrebbe solamente rispetto al Fisco e non rispetto all'offeso; secondo: per fuggire la disputa, se il giudice possa o non possa far la composizione la più sicura è che prima convenga col reo che paghi una certa somma di denaro per la pena //[p.181] del delitto, e che per sentenza lo condanni in detta pena pecuniaria; terzo: deve osservarsi che il reo chieda questa composizione con la clausula[sic] ad se eximendum per liberarsi cioè dalle molestie della Curia, e del Fisco, accioché[sic] facendo altrimenti non si pretenda che egli abbia confessato il delitto.

17) Finalmente il delitto si estingue coll'abolizione se è concessa dal Principe, e si chiama propriamente indulto giacché al solo Principe spetta il far grazia dei delitti.

18) Il Principe alle volte suol concedere la grazia generale, alle volte speciale, o privata.

19) L'Indulto generale è quello quando il principe motu proprio perdona i delitti, e si muove //[p.182] a concedere una tal grazia in congiuntura di nozze, nascita del primogenito, ed in simili congiunture, e si estende solamente alle persone comprese in esso e produce a loro favore una perpetua perenzione del delitto.

20) L'Indulto particolare è quando il Principe col rescritto speciale fa grazia della pena al reo che lo supplica.

21) Suole però il Principe concedere alcuna volta la grazia piena, alle volte meno piena perciò deve attentamente considerarsi il tenor del rescritto; cioè con quali parole sia stato concesso.

22) Inoltre perché vaglia[sic] la grazia fatta dal Principe bisogna che nel memoriale in cui è stato fatto il rescritto non sia stato espresso //[p.183] il falso, e non sia stato occultato il vero, altrimenti si chiamerebbe surrettizzio[sic], o cavillizzio[sic], e perciò è necessario che il memoriale contenga il delitto commesso, la qualità dell'istesso delitto la qualità della pena in cui è stato condannato il delinquente.

23) Il Principe però non suol concedere questa grazia privata se non é mosso da qualche giusto motivo, e in ogni caso non suol concederla se l'offensore non ha fatta la pace coll'offeso (17), e ordinariamente se non è scorso un anno dal tempo del commesso delitto.

24) Tali grazie poi devono accettarsi dentro il mese doppo che il Principe ha fatto il Rescritto per questo i Rettori dei luoghi sono obligati[sic] a notare nel rescritto il giorno in cui è stato presentato e da quel giorno incomincia a //[p.184] correre il mese, passato il quale, il rescritto è di nessun momento il che però deve intendersi in quei graziati i quali son fuori di carcere, perché per i carcerati non correndo il tempo per questo non sono obligati[sic] ad accettar la grazia e dice il Savelli (18) che il Principe dopo aver passato il mese suole restituire alla medesima grazia i rei che lo supplicano, e suol rimettergli in buon giorno.

25) Finalmente se la grazia è stata concessa dal Principe ex capite iustitie[sic] perché il condannato abbia provata la sua innocenza, il graziato in questo caso recupera tutti i suoi beni che aveva perduti per la condanna, e recupera i frutti de medesimi beni.

26) Se poi il Principe ha concesso //[p.185] la grazia ex capite iustitie, anzi excapite gratie[sic], non si estende più di quello che è espresso nel rescritto, e recupera solamente i beni che ha nelle mani il Fisco non però quelli che il Fisco ha alienato, e molto meno recupera i frutti.

Tit. III

Della Sentenza

1) Al processo criminale pertanto si dà termine con la sentenza definitiva, e colla di lei esecuzione. La sentenza è una pronunzia del giudice la quale contiene la decision della causa, e si chiama sentenza a sentiendo giacché la sentenza deve darsi secondo il sentimento dell'animo cioè considerate le prove che si sono ricavate //[p.186] per il Fisco, e per il reo dovendosi sentenziare secundum acta et probata non secondo la propria opinione, o credulità, ancorché il giudice sapesse che la verità del fatto è contraria agl’atti, e alle prove.

2) La sentenza si divide in due specie in interlocutoria, e definitiva.

3) Si chiama interlocutoria quella che si dà tra il principio e il fine della causa, e che si dà incominciata, e non per anche terminata la lite.

4) La sentenza definitiva è quella che pone fine alla controversia principale, il che si fa o con assolvere o con condannare il reo.

5) Per terminare poi il giudizio criminale è così necessaria la //[p.187] sentenza che non basta che alcuno sia confesso, o convinto, o che sia notorio il delitto da lui commesso, o che habbia commesso un delitto, per cui ipso iure sia imposta la pena, ma si ricerca che sia condannato per sentenza, e senza sentenza non può eseguirsi alcuna pena contro i rei.

6) Ma in più modi il giudice può sentenziare, cioè o con sentenza assolutoria, o con sentenza condennatoria[sic], e in pena ordinaria o straordinaria.

7) In tre modi può il giudice dar la sentenza assolutoria. Primo: se dall'inquisito non solo sono stati evacuati gl’indizi ma, di più, è stata provata la sua innocenza allora con sentenza definitiva deve assolversi come innocente, et ex capite innocentie[sic] //[p.188].

8) 2o: se il reo era indiziato ma ha confutato, ed ha evacuato gl’indizi oppure se essendo stato torturato per gl’indizi ha retto nella tortura, ha negato il delitto, e non ha confessato cosa alcuna, de iure deve assolversi con sentenza definitiva; ma in tutti i Tribunali si costuma di assolverlo rebus sic stantibus o colla clausula[sic] ex hactenus deductis, oppure si rilascia con fargli dar mallevadore di rappresentarsi toties quoties.

9) 3o: se nel processo informativo non vi sono indizi bastanti per la tortura, il reo deve assolversi con la sopraddetta clausula[sic], e molto più deve assolversi se dal processo costa che in nessun modo egli ha commesso il delitto anzi allora deve assolversi ab observatione iudicis //[p.189].

10) Rispetto alla sentenza condennatoria[sic] nella pena ordinaria il giudice può darla in più casi.

11) Primo: se il reo avrà confessato vel vere, vel ficte; e non avrà provato l' errore della sua confessione se è presente; o non avrà provato la sua innocenza se è lontano, deve condannarsi nella pena ordinaria.

12) 2o: se il delitto sarà rimasto pienamente provato benché il delinquente lo habbia negato tutta volta il giudice lo condannerà per sentenza nella pena ordinaria.

13) 3o: condannerà il reo nella pena ordinaria se nella tortura ha confessato, e doppo la tortura ha ratificato la sua confessione.

14) 4o: se il reo sarà stato convinto almeno per due indizi indubitati, potrà condannarsi nella //[p.190] pena ordinaria, quali siano questi indizi indubitati l' ho detto nel tit.[IX,libroII] de Indiciis.

15) I criminalisti disputano se il reo così convinto debba condannarsi nella pena ordinaria, o straordinaria, ma in Toscana è tolta questa disputa per la nuova legge del 17 Dicembre publicata il di 15 Gennaio 1744 (19) nella quale si ordina che la prova che resulta da indizi indubitati anche di diverso genere, dai quali però resulti una certezza morale contro dell'inquisito si abbia per prova piena, e che però basti per condannare il reo a morte ugualmente che se il reo avesse confessato di propria bocca o se fosse stato legittimamente convinto per testimoni.

16) Inoltre se il reo è stato torturato //[p.191] sebbene la sentenza più comune sia che possa condannarsi solamente in qualche pena straordinaria, perché non si credono pienamente purgati con la tortura gl’indizi indubitati tutta volta secondo il disposto di legge; se lo stesso reo confessa nel tormento, o in vista del tormento, e aggiunge circostanze che non gli sono state confessate ma che contribuiscano per verificare la confessione, e secondo l'arbitrio del giudice, aiutano gl’indizi probabili in questo caso non è necessario in Toscana la ratificazione della confessione, ma è riposto nell'arbitrio del giudice, tralasciata tale ratificazione, condannare il reo nella pena ordinaria qualunque volta lo giudica aggravato da indizi indubitati che resultano dalla sua //[p.192] confessione, e dalle aggiunte circostanze.

17) La pena straordinaria poi può imporsi dal giudice in più casi.

18) Primo: si può imporre quando il reo colle difese non si sarà del tutto purgato, ma vi saranno rimasti contro di lui alcuni indizi leggieri in questi casi il giudice può condannare il reo fino all'esilio, sotto pena della galera non osservando.

19) Secondo: se gl’indizi sono più gravi, e si tratta d’un delitto più grave, o gravissimo, il giudice può condannare il reo all'esilio sotto pena della galera da incorrersi anche per la prima volta irremissibilmente, o lo può condannare immediatamente alla pena //[p.193] stessa della galera.

20) Terzo: ogni qual volta il giudice vede che il reo stima poco i tormenti, e il delitto è atroce e vi sieno indizi urgentissimi, non suole il giudice fargli dare l' intiero tormento ma suole tralasciar qualche parte per poterlo condannare nella pena straordinaria nonostante la tortura datagli.

21) Quarto: il giudice può recedere dalla pena ordinaria, e imporre la straordinaria, ogni qual volta vi sono circostanze che accrescano, o diminuiscano il delitto delle quali già si é parlato nel titolo [I,libroI] de Circumstantiis Delicti.

22) Il che particolarmente si osserva in Toscana per la sopraddetta nuova legge nella quale si ordina //[p.194] che stia in arbitrio del giudice o accrescer la pena pecuniaria, o mutarla in pena afflittiva, secondo la condizione delle persone, e secondo le circostanze del delitto.

23) Ma nell'imporre la pena straordinaria iudex maxime ponderabit causam propter quam penae ordinariae locus non sit e secondo le diverse qualità della causa ben ponderata impone anco la pena straordinaria.

24) In primo luogo adunque se non può imporre la pena ordinaria perchè non resta perfettamente provata la sostanza del delitto la pena straordinaria deve contenersi nel genere della pena ordinaria V:G: se la pena ordinaria è corporale la pena straordinaria deve esser corporale //[p.195], o nella medesima specie di pena, o in diversa.

25) 2o: se non può imporsi la pena ordinaria per una qualità che diminuisca l'atto malizzioso[sic], in questo caso può non darsi la pena ordinaria, e può ridursi all' altra pena, V:G: dalla pena corporale può ridursi alla pena non corporale, con osservar sempre che quanto meno l'azione è dolosa tanto minore deve esser la pena.

26) 3o: se deve imporsi la pena straordinaria per rispetto allo stato della persona, V: G: perché la persona è troppo giovane, o troppo vecchia, perché è inferma, perché è costituita in dignità, deve bilanciarsi la qualità del delitto in confronto della qualità //[p.196] della persona, e se la qualità della persona supera a proporzione la qualità del delitto la pena può mutarsi da un genere in un altro, e così di pena corporale può ridursi a pena non corporale, ma se la qualità della persona non supera a proporzione la gravità del delitto, non si fa questa mutazione di pena.

27) Dunque doppo che il giudice avrà data la sua sentenza con averla prima scritta la publicherà[sic] nel Tribunale dentro al termine della citazione in presenza di due testimoni, e sebbene in pratica non si osserva il costume di citare il reo, tutta volta il giudice registrerà in processo la publicazione[sic] della sentenza con la clausula[sic] //[p.197] solita opporsi; lata, data, letta e pubblicata coram nn. et nn. testibus.

28) Data la sentenza si notificherà al reo, e se il reo è lontano si notificherà secondo lo stile del Tribunale in cui è il giudice. Se il reo è presente gli si notifica; gli s’intima, e gli si denunzia, sebbene in alcuni

luoghi soglia pubblicarsi in presenza del reo, né giammai rispetto a questa notificazione si deve operar contro la pratica del luogo in cui è il giudice.

29) In Toscana però si notificano solamente le sentenze dell'esilio, e anche della fune, e della pena pecuniaria con termine di un mese a pagarla.

30) (20) Non si notificano poi le sentenze //[p.198] che contengono la pena della morte; o le pene corporali quando in quelle non si contiene qualche riserva a comparire, o a supplicare il Principe come dice il Savelli nella sua prefazione al numero 134, et seg. (21) ma solamente tali sentenze si notificano al Procuratore de Poveri (22), il quale fa memoriale al Principe chiedendo l'assoluzione, o la diminuzione della pena, delle quali grazie se il Principe non ne concede alcuna allora si denunzia al reo la sentenza di morte.

31) Perché però la sentenza sia giusta, e per questo possa eseguirsi si ricercano due cose; la prima è che la sentenza dipenda dal processo, la seconda è che la sentenza //[p.199] dipenda dal processo (23), la seconda è che la sentenza sia certa.

32) Dipendere dal processo consiste in questo, cioè che si esprima nella sentenza il delitto con tutte le sue circostanze aggravanti, o minuenti, per lo ché[sic] se dal processo non apparisce che è stata imposta tal pena per questo, perché quel tale ha commesso il tal delitto, e perché in questa forma si è cresciuta o diminuita la pena, perché dal medesimo processo costa che il reo è uomo di cattiva vita, e di mala fama, o che è solito a delinquere; o per lo contrario se dal processo apparisce non che si è diminuita la pena, perché il reo ha delinquito per essere stato provocato, trasportato dalla collera, per fragilità la sentenza sarà ingiusta //[p.200], e però dovrà restringersi, e sebbene non manchino alcuni che dicono non essere il giudice obligato a esprimere nella sentenza il motivo per cui accresca, o diminuisca la pena, altri però giudicano che basti se il giudice esprime in genere il motivo colla clausula[sic] "per giuste cause moventi l'animo nostro".

Ma la più vera, e sicura opinione è che dal giudice si dica nella sentenza il motivo per cui nell'imporre la pena, si è discostato dalla pena che è prescritta dalla legge, o dallo statuto, e così si pratica in Toscana come osserva il Savelli nella sua prefazione al numero 130. (24)

33) In primo luogo deve contenere espresso il nome, e cogniome del giudice, perché il suo nome di giudice senza esprimere il nome, e //[p.201] cogniome della persona, renderebbe nulla la sentenza e sarebbe incerta per parte del giudice.

34) 2o: deve contenere il nome espresso del reo, perché uno non possa esser preso per un altro.

35) 3o: deve esser espresso il delitto con le sue circostanze aggravanti, o minuenti.

36) 4o: deve imporsi una pena certa la quale precisamente corrisponda al delitto.

37) Finalmente se il reo può solamente condannarsi in pena pecuniaria, ma nel tempo in cui deve darsi la sentenza costa che egli non ha da pagare, dicendo la legge, quod qui non habet in ere[sic] luatin corpore (25): per questo in tal caso il giudice in un'istessa sentenza potrà comprendere l'una //[p.202] e l'altra pena, cioè che se il reo dentro a tanti giorni non pagherà tanta somma, sia condotto in prigione, o sia frustato essendo la più sicura il far così, che il pronunziar nuova sentenza.

Tit.IV

Dell'Esecuzion della Sentenza

1) Data dunque la sentenza se nel termine di 10 giorni non sarà stato interposto l' appello passerà in cosa giudicata, e però deve farsi eseguire dal medesimo giudice che ha sentenziato, essendo certo che anche nelle cause criminali si dà l' appello //[p.203].

2) Si dà l'appello de iure, e in molti luoghi dell'Italia, gli Statuti dei luoghi non vogliono che nelle cause criminali si dia l'appello come osserva il Cavallo nella resoluzione 110 n.17 (26) e in Firenze pure vi è lo Statuto che proibisce appellarsi dalla sentenza criminale, sia definitiva, o interlocutoria; eccettuati i casi che hanno pena mista cioè la pena criminale e civile, la quale appartiene parte al Fisco, e parte al privato, purché però la pena non sia determinata dalla medesima legge ma da diverse leggi, e quando vi è la pena mista si dà l'appello noostante lo Statuto che impedisce appellarsi.

3) Nella sentenza poi che si //[p.204] dà in contumacia del reo si riserbano al reo 15 giorni o al più un mese a comparire, e difendersi, e se compare si ascolta e non si eseguisce la sentenza, ma passato questo tempo la sentenza passa in cosa giudicata, e per conseguenza deve eseguirsi, così il Savelli nella Prefazione al numero 135 e alla parola contumaci n.66. (27)

4) Il che per certo si osserva non solo se il reo è presente, ma anche se è lontano, purché però sia un reo che possa essere ucciso impunemente da chi si sia, e che abbia la taglia dietro secondo gli Statuti quasi di tutta l'Italia.

5) Chi ammazza poi un bandito per conseguire il premio è //[p.205] obbligato a portare il capo del bandito morto nel Tribunale perché successivamente possa esser riconosciuto da due testimoni che quel capo, è il capo del tal bandito, e fatta tal recognizione si pone in publico all'esempio degl’altri, e così suol farsi in Toscana.

6) Se poi il bandito è catturato vivo, e cade nelle forze della Curia, deve farsi anche in questo caso la recognizion del medesimo perché costi in atti che quello è il reo che apparisce condannato nella sentenza o nel bando.

7) Ma in più modi può sospendersi l'esecuzion della sentenza condannatoria, ancorché lo Statuto impedisca l'appello.

8) In primo luogo in questo stato s'impedisce la sentenza, anzi //[p.206] per meglio dir si sospende fino a che dal Procuratore dei Poveri a nome del reo, non sia fatta supplica al Principe per la grazia; o per la diminuzion della pena; la qual grazia però dal Principe non suol concedersi, o in ogni caso che la conceda mai la concede se il reo non ha avuta la pace.

9) 2o: si sospende, se il Principe ha ammesso il reo a far le nuove difese, la qual grazia alle volte suol concederla, se il reo comparisce dentro l'anno, ed anche se è in cattura; e la concede anche dopo l'anno se il reo è stato condannato per lievi indizi: in questo nuovo giudizio però di difesa tocca al reo il peso di provare appieno la sua innocenza, e conseguentemente //[p.207] non può egli dare eccezzioni[sic] contro le prove del Fisco.

10) 3o: se il Principe rimette in buon giorno il reo cambia la sentenza, in questo caso non tocca al reo, ma al Fisco a far le prove.

11) 4o: si sospende se dal Principe malamente, o non abbastanza informato si fosse il reo appellato al medesimo Principe meglio informato il quale appello facendosi per via di supplica veramente, e propriamente si chiama appello quando cioè il reo implora la benignità del Principe perché voglia con più attenzione e serietà restare informato.

12) Se dunque il reo non è ammesso alle nuove difese, e non //[p.208] ha ottenuto la restituzione in integrum, e non ha ottenuto che la causa sia di nuovo esaminata, e non ha ottenuto né l'assoluzione né la diminuzion della pena, in tal caso deve mettersi in esecuzion la sentenza.

13) La sentenza pertanto deve intimarsi al medesimo reo, e ordinariamente gli s’intima, o per mezzo di Religiosi, o per qualche altro mezzano, o per mezzo del Bargello secondo il costume de luoghi, il qual costume deve onninamente osservarsi.

14) Si concede poi al reo qualche spazio di tempo perchè possa prepararsi al pentimento, e in più luoghi si concedono più giorni; in qualche stato poi si concedono poch’ore[sic], e in quelle ore il reo è //[p.209] custodito dai Religiosi, e se veramente si pente gli si dà il Sagramento dell'Eucaristia; che se il reo non ostante tutte le diligenze non vuol confessarsi il giudice non deve ritardar l' esecuzione.

15) L'esecuzione della testa deve farsi publicamente[sic] dal carnefice di giorno, e non di notte, nel luogo solito, e nel giorno destinato, se non nel caso di delitti più atroci nei quali è permesso al giudice fare eriger le forche nel luogo del commesso delitto, e in questo stato ai nostri tempi senza avere alcun riguardo suol farsi l'esecuzione nel luogo del commesso delitto.

16) Le spese per eseguir la giustizia regolarmente spettano al Fisco //[p.210] se non vi è consuetudine al contrario, giacché in molti luoghi tali spese sogliono pagarsi dalle comunità.

17) Finalmente se il reo è condannato in più pene, la sentenza deve eseguirsi così nei segenti (28) respettivi casi:

18) Primo: se il reo è condannato in più pene, e le pene sono tra loro incompatibili perché tutte sono capitali, e nessuno non può morire se non se una volta sola allora è in arbitrio del giudice eseguir quella pena che egli vuole.

19) 2o: se le pene sono compatibili tra di loro V:G: se alcuno è condannato al taglio di una mano, e alla pena della morte //[p.211], devono eseguirsi tutte le pene ma deve incominciarsi dalla più mite.

20) 3o: se le pene sono pecuniarie devono senza dubbio eseguirsi tutte, se una non assorbisce l'altra V:G: se dopo la condanna pecuniaria sopravvivesse la confiscazione di tutti i beni.

Parranno lunghe queste Istruzioni e avrebbe forse desiderata una maggior brevità, ma io non ho creduto di dover restringere una scienza così importante per conoscere i delitti, e le pene che meritano e per dar una giusta sentenza, né ho voluto tralasciar cosa alcuna che necessaria fosse per rintracciare la verità se mi è mancata l'abilità d'istruirvi voi studiosi giovani //[p.212] riscattatela con lo studio e coll'ingegnio.

LAUS DEO

Note al libro IV

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(1) La certezza è un requisito fondamentale della pena anche per il Beccaria (vedi CESARE BECCARIA, Dei delitti e delle pene, a cura di F. Venturi, sull’edizione di Harlem 1766, Torino 1965, § XLVI, 102-104).

(2) In questo passo il Borghi enuncia l’importanza della corrispondenza della pena non solo al reato, ma anche alle circostanze di esso ed alla personalità del delinquente. Tale concetto è uno dei cardini del pensiero del Beccaria riguardo alle pene (vedi CESARE BECCARIA, Dei delitti e delle pene, ed. cit., § VI, 19-22).

(3) HUIG van GROOT, De iure belli ac pacis libri tres, libro II, cap. XX De poenis, § 1, Parigi 1625, 557. Grozio era uno degli autori più stimati e citati dai giuristi toscani del Settecento, e la sua definizione di pena era largamente apprezzata e condivisa (vedi NICOLA CARRANZA, L’Università di pisa e la formazione culturale del ceto dirigente toscano del Settecento, in "Bollettino Storico Pisano", XXXIII-XXXV,1964-66, 513. In generale, sul clima culturale di questo periodo cfr. ANTONIO ANZILOTTI, Le riforme in Toscana nella seconda metà del secolo XVIII, in "Movimenti e contrasti per l’unità d’Italia", Bari 1930; e FRANCO VENTURI, Settecento Riformatore. Da Muratori a Beccaria. I, Torino 1969).

(4) Sulla scia delle teorie di MONTESQUIEU e di BECCARIA, il ruolo ritagliato nel Codice penale del 1786 per il giudice è quello di mera "bocca della legge". Egli deve solo fare applicazione al caso concreto dell’astratta previsione normativa, senza modificare o interpretare la legge. Di conseguenza già a partire dai lavori preparatori si prevede di ridurre al minimo indispensabile le pene arbitrarie (vedi MARIO DA PASSANO, "Leopoldina": il progetto del Granduca, in "Materiali per una storia della cultura giuridica", XV, 1985, 301-316. Inoltre, riguardo al dibattito settecentesco sulla rforma del processo penale, e soprattutto sull’esigenza di separare la magistratura inquirente da quella giudicante al fine di garantire l’imparzialità di quest’ultima, vedi ETTORE DEZZA, Note su accusa e inquisizione nella dottrina settecentesca, 13-68).

(5) L’infamia, si distingue in infamia iuris ed infamia facti. La prima si suddivide a sua volta in tre tipi: il primo colpisce chi commette una azione dichiarata infamante direttamente dalla legge. Il secondo deriva da una sentenza del magistrato. Il terzo dalla qualità della pena. L’infamia facti, invece, colpisce chi ha commesso una azione che, pur non rientrando nei casi dell’infamia iuris, è tale da togliere al suo autore la pubblica stima. L’infamia iuris è più grave perché chi ne è colpito non può rendere testimonianza o accusare. Mentre un infame ex facto può testimoniare o accusare purché confermi le sue asserzioni sotto tortura (vedi CALISSE, Storia del Diritto Penale Italiano, 265-267).

(6) La relegazione, ossia il confino dentro lo stato, non era molto diffusa in Italia anche se si potevano riscontrarne esempi in Toscana (vedi CALISSE, 259-260).

(7) L’esilio, la pena dell’esilio, regolata secondo le norme del diritto romano, era frequente. Poteva essere perpetua o temporanea; oppure semplice o accompagnata da pene accessorie quali la confisca (vedi CALISSE, 259).

(8) Bollo, marchio impresso come infamia sulle carni dei condannati. Quando certi statuti stabilirono che il bollo si facesse sul viso, i giuristi proposero di mutarlo in flagellazione o fustigazione, affinchè la faccia dell'uomo su cui si rispecchia la bellezza divina, come dice il Codice, non restasse deturpata (vedi CALISSE, 253-254).

(9) Visto che il numero dei reati puniti con la pena di morte era notevole, nella morte stessa si cercava una graduazione della pena, perché fosse in qualche modo corrispondente all’entità del reato (vedi CALISSE, 247-249).

(10) Nel Borghi continua a dominare l’idea, già cara ai più famosi trattatisti del passato, che il metodo casistico prevalga sulla dissertazione teorica. Questo atteggiamento, evidente in tali consigli dati ai giudici per limitare il loro arbitrio, ci fornisce una interessante testimonianza sulle condizioni in cui versava la scienza penale. Essa infatti non era ancora fondata su autonomi principi generali, ma era sempre caratterizzata da una impostazione civilistica e pratica. Le descrizioni dei reati, spesso scarne e prive di sistematicità, sia nella dottrina che nella legislazione erano corredate dall’illustrazione di un’ampia casistica di riferimento, mentre sull’individuazione dei fatti punibili erano lasciati notevole autonomia e potere ai giudici. Si evidenziava così una politica criminale volta soprattutto a soddisfare esigenze di repressione, piuttosto che a tutelare la sfera di libertà degli individui (vedi GARGANI, Dal corpus delicti al Tatbestand, 115-116).

(11) La regola è tratta dal Digesto, 48,1,6, e dal Codice, 9,6,1. Però, affinché ogni azione penale rimanesse estinta, si richiedeva che la morte del reo precedesse la condanna, altrimenti la sentenza pronunciata doveva essere eseguita, per quanto possibile (vedi CALISSE, 229-230).

(12) Forma, è un errore. Molto probabilmente l’autore voleva scrivere fama come fa poco dopo.

(13) La massima fondamentale per cui ogni azione penale si prescrive in 20 anni è ricavata dal Codice, 9, 22, 12.

(14) Anche nel diritto romano questi delitti si prescrivevano in 5 anni ed erano disciplinati dalla lex iulia de adulteriis coercendis (vedi CALISSE, 227-228).

(15) Ci si riferisce alla legge municipale del 22 settembre (e non 12 settembre) 1562. Questa legge è citata in SAVELLI, Pratica Universale, alla parola Prescrizione, n.1, 329. Il testo, col titolo Sopra la cognitione e prescrizione dei malefici, viene riportato da LORENZO CANTINI, Legislazione Toscana, IV, Firenze 1802, 396-398.

(16) Nell’ambito della fattispecie del danno dato si riscontra, in Diritto Comune, una duplice tendenza. Da un lato si differenzia l’entità della sanzione alle diverse condizioni sociali dell’offensore e dell’offeso, richiamando lo schema privatistico del guidrigildo. Dall’altro si tende a fiscalizzare la figura dell’illecito, ancorando l’entità delle sanzioni all’ammontare effettivo del danneggiamento, e devolvendo l’importo dei proventi di comminatoria non al privato danneggiato, bensì al fisco (vedi MONTORZI, Gli arredi del vivere civile. Una lettura giuridico-istituzionale, in Pontedera e le guerre del Contado, Pisa 1994, 113-117. In merito al danno dato vedi anche la nota n. 24 al capitolo Definizioni dei Delitti e loro Estremi). Dalle parole del Borghi si evince che la tendenza alla fiscalizzazione si era estesa ad un numero abbastanza consistente di delitti, e costituiva una causa di estinzione dei medesimi.

(17) Nel Diritto Comune era molto rispettato il principio secondo cui il perdono dell’offeso era condizione perché il condannato potesse godere della grazia. L’appiglio romanistico era rinvenuto in alcuni passi del Codice, e la ratio del principio era ricercata in un concetto privatistico secondo cui nemmeno il principe poteva disporre di ciò che apparteneva ad altri. Ma la pratica evidenziò che la vera giustificazione della fattispecie era evitare le vendette private. Con l’avvento dei governi assoluti l’accordo delle parti interessate fu talvolta trascurato a vantaggio di esigenze di pubblico interesse, ma non cadde mai in desuetudine come dimostra il Borghi (vedi CALISSE, 223 e seguenti).

(18) SAVELLI, Pratica Universale, § Grazie, 219.

(19) Su questa legge vedi la nota n.14, libro I.

(20) Il numero di paragrafo 29 è ripetuto due volte. La seconda indica il numero 30 che è saltato.

(21) SAVELLI, Pratica Universale, XV.

(22) Procuratore dei poveri, o avvocato dei poveri, era obbligato ad assisterli non tanto nella difesa davanti ai giudici, quanto piuttosto dopo la loro condanna, per chiedere la grazia al principe (vedi GIULIO REZASCO, Dizionario del Linguaggio Italiano Storico ed Amministrativo, 72; e PIETRO LEOPOLDO D’ASBURGO LORENA, Relazioni sul governo della Toscana, a cura di Salvestrini, vol.I, Firenze 1969, 124.

(23) Questa frase è errata perché costituisce una ripetizione di quella immediatamente precedente.

(24) SAVELLI, Pratica Universale, XIV.

(25) Questo brocardo è tratto da gl. Si de incen. ruina, l.Si quis iniuriam, 35 de iniuriis; D. 47.10.35 (vedi DAOYZ, Iuris civilis summa, seu index copiosus, vol. II, Milano 1742, 369).

(26) PIETRO CAVALLO, Resolutiones Criminales, Firenze 1646. Il caso 110 n.17 è a pagina 229.

(27) Il n. 135 si trova nella prefazione alla Pratica Universale, Firenze 1696, XV. La seconda citazione invece è errata in quanto alla parola Contumaci si trovano solo 29 loci.

(28) Segenti, così nel manoscritto, ma deve essere corretto con seguenti.

Definizioni dei Delitti e loro Estremi

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I

Dell'Omicidio

L'omicidio è la perdita dell'uomo seguita violentemente per opera di altro uomo, per cui l'anima resta separata dal corpo.

Gli estremi sono, la precedente vita del cadavere, e la successiva morte;

Le ferite, percosse, o altri segni per cui s'induce la morte non naturale, ma violenta dell' ucciso.

Si prova per la vista del notaro, // [p.216] e testimoni e per la perizia dei medici.

II

Dell'Omicidio Semplice

L'omicidio semplice è quando la volontà di uccidere nasce nell'atto della provocazione, e della rissa.

Gl’estremi sono la rissa, la provocazione, e la successiva morte.

III

Dell'Omicidio Doloso

L'omicidio doloso è quello che si commette con animo, intenzione, e proposito di uccidere.

Gl’estremi sono: l'animo da principio della rissa, o terminata che sia; ma nel calor di quella qualora la causa di uccidere fosse stata una rissa (1).

IV

Dell'Omicidio Colposo // [p.217]

L'omicidio colposo è quello che si commette per mera colpa senz'animo, ed intenzione di commetterlo, e specialmente senza dolo.

Gl’estremi sono una insufficiente diligenza accuratezza cautela, e circospezione non usata dall'uccisore.

V

Dell'Omicidio Necessario

L'omicidio necessario è quello che si commette necessariamente per

salvar se stesso cum moderamine inculpate[sic] tutelae (2).

Gl’estremi sono la provocazione, o l'aggressione con timor di perdere la propria vita, il timore però deve esser tale che cadat in costantem visum che non avesse altro modo l'uccisore di liberarsi dalla // [p.218] morte, che gli minacciava l'aggressore, se non con privarlo di vita (3).

VI

Dell'Omicidio Casuale

L'omicidio casuale è quello che si commette senza alcuna colpa dell' uccisore ma segue per mero accidente, e caso fortuito.

Gl’estremi sono la diligenza usata dall'uccisore, e che non poteva prevedere, e insomma l'esclusione di qualunque colpa (4).

VII

Dell'Omicidio Deliberato

L'omicidio deliberato si dice quando procede (5) una deliberazione d' animo di uccidere.

Gl’estremi sono la deliberazione e proposito precedente // [p.219].

VIII

Dell'Omicidio Insidioso

L'omicidio insidioso è quello che si commette per mezzo d'inganni.

Gl’estremi sono gl'inganni, come lo stare in luogo recondito, o mutarsi l'abito per non esser conosciuto.

IX

Dell'Omicidio Proditorio

L'omicidio proditorio si commette sotto pretesto d'amicizia, e contro uno che non ha alcun motivo di temerla.

Gl’estremi sono la precedente conversazione, cioè gli atti amicabili, o finti, o veri dell'uccisore con l'ucciso, e l'esclusione di rissa od odio (6).

X

Dell'Assassinio // [p.220]

L'assassinio si commette quando uno ordina ad un altro che ammazzi alcuno, dandogli, o promettendogli prezzo o mercede.

Gl’estremi sono il mandante, e il mandatario, lo sborso, o la promessa di denaro; l'accettazione del mandatario la causa di delinquere nel mandante, e l'esclusione della medesima nel mandatario;

e finalmente la morte data per la consecuzione del premio (7).

XI

Del Patricidio e Matricidio // [p.221]

Questi delitti si commettono propriamente quando dal figlio fosse ucciso il padre, o la madre, il fratello dal fratello, il figlio dal padre, o dalla madre, il marito dalla moglie.

Gl’estremi sono la prova della parentela e la morte non naturale (8).

XII

Dell'Aborto

L'aborto si commette quando uno ammazza il feto esistente nell' utero animato.

Gl’estremi sono il feto animato, il dolo, l'assunzione dei medicamenti cagionanti l'aborto, la quantità e la qualità dei medicamenti le percosse, e finalmente la morte del feto, e la perizia dei periti.

XIII

Della Soffogazione dei Bambini nel Letto

Questo delitto si commette quando dalla madre, o da altra persona con dolo, o colpa vien soffogato[sic] il bambino nel letto.

Gl’estremi sono l'età del bambino, il dolo, o colpa i segni della soffogazione[sic] come livido o nero il viso // [p.222] la visita dei periti e la loro relazione.

XIV

Del Veleno

Questo delitto si commette quando uno uccide un altro con veleno dandogliene a bere, o a mangiare, o in altro modo.

Gl’estremi sono la recognizione fattane dai periti quali devono deporre de segni del veleno; il precedente stato di salute, il dolo, e la scienza.

XV

Dell'Esplosione

L'esplosione è uno sparo d'arme da fuoco fatta contra hominem.

Gl’estremi sono lo sparo con animo di uccidere, l'arme da fuoco atta a sparare e che sia carica di materia atta ad offendere // [p.223].

XVI

Dello Sparo d'Archibuso

Lo sparo d'archibuso[sic] si dice propriamente che segua quando si spiana l'archibuso contra hominem, e che il cane sia alzato che per scaricare non manchi che sgrillettare.

Gl’estremi di questo delitto sono il dolo, lo stato del fucile cioè che sia appunto con la martellina calata, e cane alzato.

XVII

Del Furto

Il furto è una dolosa, e fraudosa[sic] esportazione da un luogo ad un altro di una qualche cosa, o il di lei uso o possesso, fatta contro la volontà del vero padrone con animo di lucrare, o di appropriarsela (9).

Gl’estremi sono la preesistenza della cosa rubata presso il padrone, e la successiva //[p.224] deficienza della medesima il dolo la translazione della medesima dal luogo ov'era, ed il suo valore (10).

XVIII

Dell'Abigeato

L'abigeato si commette da quelli che rubano dalle stalle , o da pascoli bestie di numero determinato.

Gl’estremi sono il dolo il numero delle bestie portate via, la perfezione degli animali nel suo genere, il luogo, la presistenza, e la deficienza, ed il valore.

XIX

Del Latrocinio e Rapina

Il latrocinio è un furto commesso latentemente assalendo di nascosto con armi, e senza, e si dice proprio quando ne segue la morte.

La rapina si commette quando si ruba //[p.225] con violenza alla presenza del padrone con armi, e senza.

La grassazione (11), o ruberia si commette nelle pubbliche strade, e sempre con armi.

Gl’estremi sono, l'offesa della persona, o l'aggressione con armi, benché non segua la morte, lo spogliare l'offeso, e l'animo precedente di rubargli.

Della rapina la presistenza, e la deficienza della medesima roba rapita, e la violenza fatta coram domum rei.

Della grassazione; che si fa nella pubblica strada.

(11) In altri testi dell' epoca invece di grassazione si trova crassazione. Anche nella definizione del delitto di Armazione per la Campagnia si legge crassazione.

XX

Del Peculato

Il peculato è un furto del denaro e roba del Principe, e del publico[sic].

Gl’estremi sono la presistenza e la deficienza della medesima che fosse del // [p.226] Principe, o del publico, e nel resto si prova come nel furto.

XXI

Della Truffa

La truffa si commette quando uno si appropria una cosa destinata ad altro uso, e quando uno vende una cosa falsa per buona.

Gl’estremi sono la consegnia della cosa, fatta dal truffato al truffatore, l'appropriazione della roba fatta dal truffante, la visita fatta dai periti della roba falsa venduta per buona, e la prova del prezzo di detta vendita.

XXII

Della Concussione

La concussione è una estorsion di denaro o di altra cosa che si //[p.227] ottiene con incuter terrore sotto specie di pubblica autorità, potestà, o ufizio[sic].

Gl’estremi sono la forza usata; e il timore incusso per estorcere il denaro, o altro e l'appropriazione del medesimo.

XXIII

Del Plagio

Il plagio è il furto di un uomo e si dice ancora la vendita, e compra di un uomo libero, o servo.

Gl’estremi sono la presistenza e deficienza dell' uomo le conquestioni del padre, o padrone, il prezzo, e vendita perfetta.

XXIV

Dell'Espilazione dell'Eredità

L'espilazione dell'eredità (12) è il furto di robe ereditarie prima che sieno //[p.228] possedute dall'erede.

Gl’estremi sono la presistenza della roba nel patrimonio del defunto, e la deficienza prima che sia stata adita l'eredità.

XXV

Dello Stupro

Lo stupro è una deflorazione di una donna vergine onesta.

Gl’estremi sono l'istessa deflorazione gl’amori la frequente conversazione con la stuprata; le confidenze i regali; e la buona fama, ed onesta vita per la parte della stuprata (13).

XXVI

Dell'Adulterio

Adulterio, è la violenza dell'altrui letto maritale (14).

Gl’estremi sono il matrimonio, la copula carnale con la seminazione nel vaso, e la scienza nel delinquente //[p.229].

XXVII

Del Lenocinio

Il lenocinio si commette con indurre donne, fanciulle oneste, e ragazzi a cose disoneste per farvi guadagnio.

Gl’estremi sono gl’atti reiterati, l'effetto seguito che sia fatto per guadagnio, e a donne di buona vita.

XXVIII

Della Sodomia

La sodomia è la congiunzione di maschio con maschio, o con

femmina ma fuori del vaso maritale.

Gl’estremi sono la recognizione delli cerusici, e la seminazione nel vaso.

XXIX

Dell'Incesto

L'incesto si commette fra quelle persone tra le quali non si può //[p.230] contrar matrimonio.

Gl’estremi sono la parentela, la copula carnale, e la seminazione nel vaso.

XXX

Del Ratto

Il ratto si commette quando si conduce via per forza dalla propria casa, o da qualche altro luogo sicuro in altro luogo una qualche donna, per saziar la libidine o per contar matrimonio (15) contro la volontà de maggiori, o d'altre persone dalle quali la donna dipende.

Gl’estremi sono la translazione della donna, l'animo di aver la copula o di contar matrimonio, e che sia seguito senza il consenso della medesima e di quelli che l'hanno in custodia.

XXXI

Del Concubinato //[p.231]

Il concubinato è la congiunzione di maschio e femmina liberi per rimedio dell'incontinenza, con patto di tenerla per concubina.

Gl’estremi sono la lunga coabitazione dell' uomo, e della donna le frequenti copule, e la condizione diversa della femmina (16).

XXXII

Della Falsità

La falsità è la mutazione , o occultazione della verità fatta con

scienza, e dolo a pregiudizio del terzo in atto o in potenza.

Gl’estremi sono l'alterazione della verità fatta con dolo, e il pregiudizio del terzo (17).

XXXIII

Del Parto Supposto

Questo delitto si commette da chi dice di aver partorito quando realmente il vece (18) del proprio figlio ne ha //[p.232] preso un altro.

Gl’estremi sono il non essere stata gravida la donna che ha supposto di aver partorito la procurazione di qualche bambino per farlo creder per proprio.

XXXIV

Della Bigamia

La bigamia si commette quando nell'istesso tempo si ha più di una moglie, o più di un marito respettivamente.

Gl’estremi sono le prove dei matrimonii, e che la moglie, o marito respettivamente[sic] vivino, e la copula già seguita.

XXXV

Dell'Aiuto ed Opera Prestata al Delitto

Questo delitto si commette da coloro che scientemente, e dolosamente prestano aiuto in qualche maniera al delinquente principale.

Gl’estremi sono la scienza, e il dolo //[p.233] nell'ausiliatore.

XXXVI

Della Falsità di Monete

La falsità nelle monete si commette, o con fabbricarle senza licenza del Principe, con adulterarle, o tener l'istrumento per quoniarle[sic], spendere e radere (19).

Gl’estremi sono l'istessa moneta fabbricata, adulterata, spesa, o rasa la reperizione degli arnesi, e il giudizio dei periti.

XXXVII

Della Falsità di Scritto

La falsità nelle scritture si commette quando uno cancella, aggiunge,

leva, rade (20) o contraffà la mano altrui nelle scritture.

Gl’estremi sono la medesima scrittura cancellata; il dolo; e l'utile

di chi l'ha falsificata, e nel contraffare il carattere la comparazione //[p.234] di altro carattere con quello dell'imputato, e recognizione del medesimo.

XXXVIII

Della Falsità dei Testimoni

La falsità dei testimoni si commette quando questi nel secondo e terzo esame dipongono diversamente da quello che hanno deposto nel primo.

Gl’estremi della falsità dei testimoni sono gl'istessi diversi esami dei quali deve costare in atti, le promesse, preghiere, e premii ricevuti per deporre il falso, e il dolo.

XXXIX

Delle Ferite

Le ferite sono quelle aperture che esistono nella carne, o mutilazioni di membro.

Gl’estremi sono lo stato precedente e presente del ferito, le ferite le //[p.235] loro qualità, e la relazion dei periti| intorno alla falsità, eildolo | anzi | (21) che dichino se son mortali, o no, e con qual armi sono state fatte (22).

XL

Dell'Ingiuria

L'ingiuria si commette, in detto, in fatto, ed in scritto, ed è tutto ciò che si fa ad un terzo a torto e contro le leggi.

Gl’estremi sono le parole, fatti, o scritti ingiuriosi, e la persona a cui sono diretti (23).

XLI

Del Libello Famoso

Il libello famoso è una carta scritta, o dipinta, e pubblicata per diffamare altrui.

Gl’estremi sono l'istessa carta ingiuriosa, //[p.236] e l'affissione, o pubblicazione della medesima.

XLII

Del Turbato Possesso

Il turbato possesso è quando uno impedisce al vero padrone di godere il suo pacificamente.

Gl’estremi sono il possesso del turbato, gli atti turbativi, e il dolo.

XLIII

Degli Alberi Tagliati Furtivamente

Questo delitto si commette da quelli che tagliano, o guastano furtivamente gli alberi fruttiferi nel territorio di un altro.

Gl’estremi sono l'incisione, o sradicazione dolosa, e furtiva di alberi fruttiferi; e l'esistenza avanti l'incisione //[p.237].

XLIV

Del Danno Dato

Il danno dato, è la deteriorazione, o diminuzione del patrimonio con la corrosion della cosa.

Gl’estremi sono la presistenza, e deficienza della cosa, il valore del danno, il dolo, e il dominio del dannificato (24).

XLV

Della Delazion dell'Armi

Questo delitto si commette da coloro che portan l'armi senza licenza, e che sono proibite portarsi o tenersi.

Gl’estremi sono l'asportazione, o retenzione dell'armi l'armi per se stesse proibite, e la mancanza della licenza.

XLVI

Della Caccia

Cadono in questo delitto quelli che //[p.238] in tempo proibito ammazzano animali, o li ammazzano in luoghi proibiti.

Gl’estremi sono il tempo, il luogo la qualità degli animali, e la morte dei medesimi cagionata dal cacciatore.

XLVII

Della Bestemmia

La bestemmia è un'ingiuria gravissima che si fa a Dio ed è peggiore di qualunque peccato, e si commette, in detto, e fatto.

Gl’estremi sono le parole che importino bestemmia, della bestemmia in fatto, e deve costare della deturpazione delle Sacre Imagini[sic] per mezzo della visita giudiciale (25).

XLVIII

Dell'Incendio

L'incendio un abbruciamento di //[p.239] qualche cosa seguito per opera di qualche persona dolosamente.

Gl’estremi sono la recognizione della cosa bruciata cioè ceneri, vestigii e segni di fuoco studiosamente attaccato col lume (26).

XLIX

Della Bisca

La bisca è un'adunanza di persone per giocare in luogo murato.

Gl’estremi sono la conventicola delle persone il luogo murato, e che quello che tiene si faccia pagare dagl’avventori.

L

Della Lesa Maestà

Il delitto di lesa maestà si commette, o contro Iddio, o contro il Principe, e chi rappresenta immediatamente la di lui persona //[p.240] in suo disprezzo, si commette ancora col ribellarsi, col rivelar cose segrete importanti, col disprezzare i suoi ministri.

Gl’estremi sono la verificazione del fatto cioè dell'eresia, o

bestemmia che il delinquente è Cristiano.

Nell'altro caso, che sia suddito di quel Principe, e non Feudatario, e la ribellione, o verificazione di quel dato fatto (27).

LI

Della Baratteria

Questo delitto si commette dagli ufizziali[sic], e magistrati che prendono roba, o denaro per far ciò che non devono e per far ciò che devono; come ancora si commette questo delitto da quelli che danno o pretendono di corrompere la giustizia.

Gl’estremi sono la roba ricevuta //[p.241] ob faciem, vel non, la cosa promessa.

LII

La Calunnia

La calunnia si commette quando uno dà una falsa accusa.

Gl’estremi sono la precedente accusa con dolo, e la susseguente innocenza dell'imputato per sentenza, o evidenza.

LIII

Della Simonia (28)

Simonia è una studiosa volontà di comprare, o vendere cose spirituali, o a quelle annesse.

Gl’estremi sono i segni, o gli atti di vendere, o comprare; la successiva compra, o vendita seguita.

LIV

Dello Spoglio

Lo spoglio si commette quando //[p.242] alcuno spoglia il vero possessore dei proprii beni.

Gl’estremi sono il possesso dei beni nello spogliato, il dolo, la violenza.

LV

Dello Spergiuro

Lo spergiuro è un mendacio confermato con giuramento.

Gl’estremi sono |ilpossessodeibeni nello spogliato (29) il dolochesi desume mancanza |anzi | il mendacio giurato il dolo, il pregiudizio del terzo in atto, o in potenza (30).

LVI

Dell'Infanticidio

L'infanticidio si commette dai padri, e dalle madri che uccidono i fanciulli nati di poco.

Si commette ancora dai padri, o dalle madri l'esposizione degl'infanti cioè quando si espongono //[p.243] perché perischino.

Gl’estremi dell'infanticidio sono se la donna avrà celata la sua gravidanza, o avrà concepito da un illecito concubito, e di nascosto e la violenza fatta all'infante.

LVII

Della Fuga dal Carcere

Questo delitto si commette da quelli che per frattura scasso, o altro

mezzo fuggono dalle carceri.

Gl’estremi sono la presistenza, e deficienza del carcerato, lo scasso, e la causa per la quale era ritenuto in carcere.

LVIII

Dell'Esimizion della Curia

L'esimizion della Curia è la resistenza fatta ai famigli, o alla giustizia.

Gl’estremi sono il mandato di cattura //[p.243] (31) dato, o pesunto (32) la resistenza dell'arrestato, e d'altri.

LIX

Del Duello

Il duello non è altro che la pugnia fra due persone con due patrini[sic] (33).

Gl’estremi sono l'animo deliberato, di combattere, la diffida fatta, o a voce, o in scritto, o per un terzo, la determinazione del luogo e del tempo per battersi, e l'intervento dei patrini.

LX

Dell'Armazione per la Campagnia

Questo delitto si commette da coloro che come fuori usciti, o banditi si portano per la campagnia con armi proibite, e fuori dalle vie pubbliche.

Gl’estremi sono l'esser questi tali, //[p.244] o fuori usciti, o banditi il secondo almeno di 4 in comitiva, l'esser armati, l'andar vagando per la campagnia fuori dalle vie pubbliche, e se in tal tempo commettessero delitti allora si dice crassazione (34).

LXI

Dell'Amozion dei Termini

Questo delitto si commette da coloro che muovono i confini da un luogo destinato per estendere il proprio fondo, o per vincere una lite, o per vendetta; o per rubare il termine.

Gl’estremi sono, l'amozione dolosa la scienza che quel termine serve per confine, e la presistenza, e deficienza del medesimo.

LXII

Del Recatto

Il recatto è quando si arresta un //[p.245] uomo non solamente in

casa o in altro luogo abitato ma anche nelle pubbliche strade per estorcergli denaro.

Gl’estremi sono l'arresto, l'estorsione della roba, o del denaro.

LXIII

Della Contravvenzion dell'Assisia (35)

Questo è un delitto che si commette da quelli che vendono i commestibili a più caro prezzo di quello che è stato fissato.

Gl’estremi sono la scienza in chi vende del prezzo fissato la vendita della roba, a prezzo maggiore della tassa stabilita che la roba sia commestibile, e che la tassa sia stata affissa ai luoghi soliti.

LXIV

Del Servo Corrotto

Questo delitto si commette quando //[p.246] s'instiga[sic] un servo, a far qualche cosa cattiva, o a delinquere.

Gl’estremi sono, le parole inducenti, o persuasive a commettere il delitto, e che il servo istigato all'attual servizio, o le minaccie[sic].

LXV

Del Sacrilegio, o Furto Sacro

Il sacrilegio è una violazione delle cose sacre, o vituperazione delle medesime sotto il qual nome si comprendono ancora le persone.

Il sacrilegio si divide in tre specie cioè, riguardo alle persone se uno percuote un cherico[sic], se avrà commercio con monaca sacrata; riguardo al luogo, se uno violerà o contaminerà qualche luogo.

consacrato a Dio con effusion di sangue, o con spargimento di seme, e finalmente con furto di cosa sacra //[p.247] in luogo sacro (36).

Gl’estremi del sacrilegio sono il luogo sacro, la persona, il furto le quali cose costituiscono il sacrilegio.

LXVI

Dello Stellionato

Lo stellionato comprende tutti i delitti che non hanno né nome né titolo.

In questo delitto si deve provare il dolo, in committendo, non in omittendo (37).

Molti altri sono i delitti di cui potrebbesi ragionare ma ho creduto ristringermi a queste semplici definizioni ed estremi, essendo più comuni, e necessarii.

Laus Deo

Note alle definizioni dei delitti

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(1) L'omicidio doloso si divide in semplice e deliberato. Nel secondo caso, trattato al numero VII, all'atto del compimento precedono meditazione e preparazione, come ad esempio accade nell'omicidio proditorio. Per questi reati si applica la pena di morte, come pena ordinaria, anche se il reo è un nobile. Per l'omicidio proditorio, in aggiunta, si infligge un peggior modo di morte, o la si accompagna con la confisca, secondo l' uso romano (vedi CARLO CALISSE, Storia del Diritto Penale Italiano dal secolo VI al XIX, Firenze 1895, 285-288).

(2) Confronta MARC’ANTONIO SAVELLI, Pratica Universale, § Omicidio, n.22, 292 " sendo stato osservato il moderame dell'incolpata difesa...", ma soprattutto Codice, 8, 4,1.

(3) Questo tipo di omicidio si considera compiuto per giusta causa, e quindi non si hanno né reità né pena per il reo (vedi CALISSE, 286).

(4) Come nell'omicidio colposo anche qui manca il dolo, per cui non si infligge la pena ordinaria ma quella straordinaria, più mite, consistente nella multa, nell'esilio o nel carcere (vedi CALISSE, 286).

(5) Nel manoscritto si legge procede ma è uno sbaglio. Sicuramente si voleva scrivere precede.

(6) Confronta la nota n.1.

(7) Nell'assassinio il mandato faceva aumentare la pena ordinaria. Infatti, le leggi contro i bravi e gli scherani che commettevano reati di sangue su richiesta ed a pagamento, e contro i loro mandanti erano severissime. La pena inflitta era la morte, che si inaspriva anche se il delitto non aveva avuto effetto, o era stato solo richiesto, o accettato, o solamente iniziato (vedi CALISSE, 213-214).

(8) L'ampiezza del reato deriva dalle disposizioni della legge Pompea (vedi Digesto, 48, 9,1). Non operava la prescrizione e si comminava la pena di morte aggravata.

(9) La definizione del furto è tratta dal Digesto, 47,2,1.

(10) Il diritto barbarico qualificava come grave il furto avente ad oggetto una cosa di grande valore. Alla pena pecunaria del quadruplo o del nonuplo del valore della cosa rubata, nei secoli successivi fu sostituita la pena corporale: prima come surrogatoria per il caso del mancato pagamento, poi come autonoma. La morte si dava solo se qualche speciale ragione, secondo l'antica regola di Carlo Magno, avesse di molto aggravato il reato (vedi CALISSE, 293-297).

(12) L'espilazione è una ruberia, una appropriazione indebita.

(13) In generale si distingueva a seconda che allo stupro fosse stata unita la violenza o no. Nel primo caso il diritto comune prevedeva per il reo la morte, più la confisca. Nel secondo lo stupratore avrebbe dovuto sposare o dotare la donna, anche se certe legislazioni gli infliggevano una pena non grave di carattere arbitrario o pecuniario. Borghi, però, non accenna neppure a questo problema. Vedi SAVELLI, Pratica Universale, § Stupro, Firenze 1696, 394-400.

(14) L'adulterio, pur ledendo interessi pubblici come la pubblica moralità e la pubblica pace, è perseguibile solo su querela di chi ha ricevuto l'offesa in modo diretto. In ciò, il diritto canonico ha cancellato ogni differenza tra uomo e donna. Il reato, eccetto casi particolari, écomune e sono quindi competenti sia il giudice secolare che quello ecclesiastico. Riguardo alla pena si ha diversità tra i vari diritti e le varie consuetudini. Il diritto romano prevedeva la morte che però, nella pratica, veniva mitigata e commutata in pene meno gravi. Tale tendenza si conferma in epoca moderna, visto che giuristi come il Claro si lamentano per il fatto che molti reati di adulterio rimangano impuniti (vedi CALISSE, 282-284; e MARONGIU, voce Adulterio, in Enciclopedia del Diritto, II, 621-622).

(15) Nonostante oscillazioni sia dei teorici che dei pratici, l'uso generale, conformemente al diritto canonico, prevedeva che il matrimonio successivo al ratto togliesse o diminuisse di molto la pena (vedi CALISSE, 285).

(16) Il concubinato era punito per diritto canonico, ma non per diritto comune (vedi CALISSE, 276).

(17) Questo delitto e le altre specie di falsità cioè: di monete, di scritto e di testimoni rientrano nel genus della lesa maestà. Nella distinzione di tali reati il Borghi segue, come i criminalisti precedenti, le norme del diritto romano.

(18) Nel manoscritto leggiamo il vece ma è un errore e si deve intendere invece.

(19) Radere, significa raschiare via una leggera sfoglia di metallo dalle monete.

(20) Rade, in questa accezione il verbo radere designa la cancellazione di scritti ed ipoteche.

(21) Quando nel testo la parola anzi segue una frase o un'altra parola sottolineata, indica un pentimento, una correzione fatta dallo stesso autore.

(22) I criminalisti hanno sempre visto il reato di ferite in relazione all'omicidio che ne può seguire, ed hanno discusso per determinare il nesso tra di loro, e per enunciare alcuni criteri generali. C'erano statuti e legislazioni che davano la pena pecuniaria. Ma, avvicinando le ferite all’omicidio, si affidò la determinazione della pena al giudice secondo il suo arbitrio e secondo le circostanze, sebbene ci fosse molto scetticismo sulla possibilità di estenderla fino alla morte (vedi CALISSE, 290-293).

(23) L'ingiuria è il genus di cui le ferite, per esempio, sono una species. Tale reato ha carattere privato, e quindi è perseguibile mediante querela. Riguardo alla pena vale quanto detto in materia di ferite.

(24) L’espressione danno dato designava un’ampia fattispecie dai contorni scarsamente definiti la quale, come si vede dalla prima legge generale sulla materia emanata da Cosimo dei Medici del 7 settembre 1688, spaziava da ipotesi di responsabilità civile, sino alla materia penalistica, sovrapponendosi alle condotte delle moderne fattispecie di furto o di danneggiamento. Quindi il danno dato rappresenta una testimonianza della tendenza a passare da una "pena privata" alla maniera del guidrigildo, ad un vero e proprio reato contro l’ordine pubblico per esigenze repressive, imposte dal costante incremento quantitativo del fenomeno (vedi MARIO MONTORZI, Gli arredi del vivere civile. Una lettura giuridico-istituzionale, in Pontedera e le guerre del Contado, Pisa 1994, 113-117).

(25) La bestemmia è un reato contro Dio, punito in maniera diversificata ma sempre pesante: taglio o perforazione della lingua (vedi al libro I,tit.I,n.14), galera, frusta, multe gravi, esilio ed in casi gravi la morte. La deturpazione delle immagini sacre è un reato affine, tanto che le pene previste per essa erano ugualmente severe ed il Borghi la considera uno degli estremi della bestemmia (vedi CALISSE, 271-273).

(26) L'incendio, se doloso, era punito con la morte dalle leggi italiane solo in casi di speciale gravità, secondo il diritto romano. Negli altri casi il giudice infliggeva una pena corporale non capitale e l'autore del reato era ipso iure scomunicato.

(27) Onorare il principe, vedendo in lui l'autorità derivata da Dio, era un precetto ecclesiastico ma i delitti contro di lui o contro i suoi rappresentanti assunsero carattere prevalentemente civile ed ebbero vasta applicazione, sia riguardo alle persone contro cui potevano essere rivolti, sia riguardo ai fatti che potevano esserne oggetto. La pena prevista era la morte accompagnata da una serie di gravissime aggiunte sia contro la persona del reo ucciso e contro la sua memoria, sia contro la sua famiglia che subiva l' infamia e la confisca. Con i governi assoluti furono ricompresi sotto questa fattispecie anche i delitti in qualche modo dannosi per la vita politica e sociale (vedi CALISSE, 277-278).

(28) Il nome di questo delitto deriva da Simon Mago, il Samaritano che cercò di comprare da S.Pietro il potere di comunicare i doni dello Spirito Santo, vedi Atti degli Apostoli 8,9-25. Era competente il giudice ecclesiastico, e si puniva con la perdita dell' ufficio così ottenuto o con altre pene arbitrarie.

(29) La parola anzi, nel testo, indica un pentimento dell’autore relativamente alla precedente frase sottolineata.

(30) Per lo spergiuro i giureconsulti consigliavano pene lievi, richiamandosi al diritto comune. Ordinariamente lo spergiuro perdeva la lite, o subiva l'infamia, o una limitazione a testimoniare ed a ricoprire pubblici uffici. Questo atteggiamento si spiega considerando che le leggi romane a cui si faceva riferimento erano ispirate a principi civilistici, trasposti dai giureconsulti nel diritto penale (vedi CALISSE, 280).

(31) Nella numerazione delle pagine la 243 viene ripetuta due volte.

(32) C' è un errore perché evidentemente si voleva dire presunto.

(33) Il duello fu considerato reato in maniera chiara solo a partire dalla legislazione del XVI secolo. In Toscana Cosimo I ed il Comune di Lucca avevano stabilito di punire i duellanti perfino con la pena di morte (vedi CALISSE, 289-290).

(34) Vedi la nota n.11.

(35) Assisia o assisa, termine usato anticamente nell'Italia settentrionale nel senso di imposta a carattere personale o reale ed anche nell'Italia meridionale nel senso di calmiere, prezzo fisso, e indirettamente imposta sul consumo (vedi Giulio Rezasco, 61-62).

(36) Il furto sacrilego, o furto di cosa sacra in luogo sacro era punito ordinariamente con la morte. Però, se certe volte veniva inflitta anche aggravata secondo le circostanze del fatto e la qualità delle persone, certe altre per l'arbitrio del magistrato ci si limitava ad una pena straordinaria (vedi CALISSE, 296-297).

(37) Alberto Gargani, Dal corpus delicti al Tatbestand. Le origini della tipicità penale, Milano 1997, 117.