1. Cominciamo dalla fine. Il passo in cui
Radulfus Niger racconta dellintervento del misterioso Pepo
o Pepone nel placito tenutosi in Lombardia alla presenza
di Enrico IV è divenuto ormai famoso[1].
Quanti si sforzano di gettare luce sulle origini del rinascimento
giuridico medievale, lo hanno letto e riletto indagandone anche i
minimi dettagli. Eppure, ogni ulteriore lettura di quel passo
sembra proporre motivi di interesse e spunti di riflessione
sempre nuovi.
La vicenda è notissima[2].
Radulfus ci presenta il magister Peppo nellatto di
reagire energicamente alla comminazione di una pena pecuniara nei
confronti delluccisore di un servo. A giudizio
dellantico maestro, sebbene espressamente prevista per casi
del genere dalle vigenti leggi longobarde, una semplice multa non
può in ogni caso esser sufficiente a sanzionare un delitto come
lomicidio: i giudici avrebbero senzaltro dovuto
comminare la pena capitale. Lepisodio è lo stesso
Radulfus a chiarirlo poco oltre dovrebbe esemplificare
latteggiamento della Chiesa riformatrice ormai apertamente
contraria al giudizio di tipo germanico, imperniato sulle compositiones
e su sistemi probatorî ordalici[3].
Piuttosto si potrebbe rimanere sconcertati nel vedere
limperatore così pronto a recepire un discorso dai toni in
verità un po inquietanti e, da un punto di vista di
stretta legalità, alquanto eversivo.
Sono le argomentazioni prodotte da Pepo a
sollevare, in effetti, i maggiori problemi. Due, in particolare,
i principî sui quali egli costruisce il proprio ragionamento.
Per il primo, il diritto naturale richiede che luccisione
ingiustificata di un uomo sia senzaltro punita con la morte
delluccisore. In secondo luogo, la modifica dello status
personale (cioè laddictio servitutis) non incide
sulla naturale condizione umana e quindi non giustifica deroga
alcuna al principio precedente. Si è creduto di poter avvertire
nel discorso di Pepo lontani echi ciceroniani[4].
Si è anche pensato a letture patristiche[5].
Ennio Cortese ha tuttavia fatto notare come laurora
surgens della rinata iuris disciplina come
pomposamente il Niger definisce Pepo[6]
sembri comunque richiamarsi più alla biblica legge
del taglione che non al maturo e raffinato diritto penale
romano[7].
Soprattutto, e ciò del resto ben si accorda con entrambe le
altre testimonianze che del magistero di Pepo sono giunte sino a
noi[8],
è Isidoro di Siviglia la sua fonte principale, quella da cui
trae lidea della appartenenza della legge del taglione
al diritto di natura[9].
Non si può certo dire che lispirazione che muove Pepo sia
quella del romanista rigoroso.
Tuttavia il Niger e non vi è
motivo per dubitare qui della nostra fonte ci dice pure
che il vecchio bàiulus del Codice e delle Istituzioni
avrebbe firmato il suo discorso allegando leges e sacrae
constitutiones imperatorum. E alle leggi romane,
evidentemente, che Radulfus intende riferirsi. Sappiamo, in
effetti, come, sullo scorcio del secolo XI, il diritto
romano andasse aprendo crepe sempre più ampie nel sistema
normativo longobardo-franco. Papi e imperatori venivano
progressivamente accorgendosi di quale formidabile strumento di
potere esso potesse divenire in mani appositamente addestrate[10]. E pertanto del tutto naturale che
Pepo cercasse di far breccia nel cuore di Enrico IV attraverso
altisonanti citazioni di antiche leggi e augusti predecessori. Se
fu infatti Isidoro a fornirgli lispirazione principale, è
chiaro che ben difficilmente Pepo sarebbe riuscito a scardinare
agli occhi dellimperatore un giudizio tecnicamente ben
confezionato (multiplici allegatione iuris) dai giudici
regi, appoggiandosi sulla sola autorità di quel manuale
enciclopedico che erano le Etymologiae del vescovo
spagnolo. Quel suo ragionamento, così
rivoluzionario, avrebbe potuto aver successo solo
contrapponendo alle norme longobarde auctoritates
giuridiche indiscutibilmente superiori: la legge divina innanzi
tutto e, appunto, il diritto romano cui nessuno nemmeno
fra i longobardisti pensava di poter contestare la
qualifica di lex omnium generalis.
Ma quali potrebbero essere, in concreto,
le norme romane richiamate in quel placito? Quelli sono appunto
gli anni in cui, nelle medesime contrade dellItalia
centro-settentrionale che vedono attivo Pepo, ricordi e citazioni
dei volumina giustinianei si facevano sempre più numerosi
e puntuali. Benché non numerosissimi, la compilazione contiene
nondimeno alcuni passi che il misterioso Pepo avrebbe potuto
utilimente allegare a sostegno del suo ragionamento.
Egli conosceva certamente le Istituzioni e
il Codice sui quali, chissà dove, teneva lezioni. Attraverso le
prime Pepo avrebbe potuto citare la lex Cornelia de sicariis
quae homicidas ultore ferro persequitur (Inst.
4.18.5)[11]. Sempre un passo delle Istituzioni
ricordava poi come la lex Aquilia de damno consentisse al
padrone del servo ingiustamente ucciso di agire per il
risarcimento del danno e al tempo stesso di intentare contro
luccisore un giudizio per omicidio (Inst. 4.3.11)[12]. Dal Codice avrebbe quindi potuto trarre
un breve passaggio forse ancor più rispondente ai suoi bisogni.
In una costituzione del 385, sia pure in maniera vaga, Graziano e
Teodosio sembrano infatti alludere al ius talionis proprio
nella repressione dellomicidio (C. 1.4.3.3):
homicida et parricida quod fecit semper expectet[13].
Allegando questi passi, in sostanza, Pepo
avrebbe potuto dimostrare principalmente due cose. La prima è
che, secondo il diritto romano, il padrone del servo ucciso era
abilitato a sollevare una autentica accusa criminale nei
confronti dellomicida. La seconda è che le leges
romane prevedevano che lomicidio fosse senzaltro
punito con la pena capitale[14] e
che forzando un po il significato delle norme
nemmeno lapplicazione della legge del taglione era del
tutto sconosciuta[15].
Non è esattamente la piena conferma del suo argomentare ma,
rivolgendosi a un pubblico educato a una logica giuridica non
proprio raffinata e si può immaginare pressoché
digiuno di diritto romano, a Pepo poteva forse essere
sufficiente.
Eppure il Corpus iuris contiene
ancóra una norma che si sarebbe adattata ottimamente al caso e
avrebbe completato mirabilmente il quadro di puntelli normativi
su cui poggiare la logica un po esaltata di Pepo. Si tratta
di un frammento del giurista Marciano, il quale, commentando la
ricordata lex Cornelia, fra laltro scrive: Et
qui hominem occiderit, punitur non habita differentia, cuius
condicionis hominem interemit. Il passo appartiene tuttavia
ai libri terribiles del Digesto (D. 48.8.1.2) e quindi
lipotesi che Pepo abbia potuto conoscerlo e citarlo
parrebbe senzaltro da escludere[16].
E anche possibile, tuttavia, che
Pepo potesse disporre di fonti giuridiche romanistiche estranee
alla compilazione di Giustiziano. Un sospetto in verità
assai fugace potrebbe già prendere corpo di fronte a un
passo delle Pauli Sententiae ripreso nel Breviarium
alariciano e di lì passato nei Libri de synodalibus causis
di Reginone di Prüm: in esso, sia pure riferite ad altra
fattispecie criminosa, ritroviamo infatti quasi le identiche
parole (
sive is servus sive liber sit, capite punietur
) che il Niger mette in bocca a Pepo[17]. Ma che Pepo potesse conoscere il Breviarium
o lopera di Reginone è, in realtà, un eventualità
anchessa piuttosto improbabile[18].
Il sospetto assume invece contorni ben
più concreti e definiti non appena si prende a leggere
quelloperetta tardoantica che ci è nota come Lex Dei
o Collatio legum Mosaicarum et Romanarum. Loriginale
tentativo di comparazione tra le norme mosaiche e il diritto
romano comincia, infatti, proprio dal reato di omicidio. Già
nellimpostazione la Collatio risultra perfettamente
congeniale al discorso condotto da Pepo innanzi
allimperatore. Al principio veterotestamentario (lex Dei)
secondo cui chi cagiona la morte deve essere a sua volta ucciso
(qui, in particolare, si cita Num. 35.16-17, 20-21),
lignoto autore contrappone una pluralità di fonti
giuridiche romanistiche, appunto nel tentativo di metterne in
risalto la corrispondenza. In particolare, egli riporta qui
alcuni passi relativi alla lex Cornelia estratti dagli
scritti di Paolo e Ulpiano (Coll. 1.2-4). E
soprattutto il frammento ulpianeo ad attirare lattenzione
dal momento che, a ben guardare, esso avrebbe consentito a Pepo
di ovviare alla sua ignoranza del Digesto. Ulpiano, infatti,
ripropone lo stesso principio dellantica legge romana
riferito da Marciano nel frammento di cui si è detto prima e che
sarebbe tornato così utile nel placito lombardo (Coll.
1.3.2 = Ulp. lib. VII de officio proconsuli sub tit.de
sicariis et veneficis):
Conpescit item eum, qui hominem
occidit, nec adiecit cuius condicionis hominem, ut et ad
servum et peregrinum pertinere haec lex videatur.
Potendo disporre di un testo come la Collatio
che oltretutto contiene anche un titolo (il terzo)
specificamente dedicato ai maltrattamenti arrecati ai servi[19] Pepo avrebbe quindi avuto modo di
completare la serie di auctoritates romanistiche con le
quali firmare il suo iudicio e lasciare in
confusione gli altri giudici al cospetto
dellimperatore. Inoltre, cosa ancor più importante,
avrebbe potuto dimostrare che quanto egli andava affermando non
era affatto il frutto di una sua personale elucubrazione. Né si
trattava di una costruzione edificata unicamente sulla base di
autorità letterarie e patristiche. Era, al contrario,
unautentica raccolta giuridica a sancire la
perfetta consonanza esistente a quel proposito fra la legge che
Dio stesso aveva dettato a Mosè (e che, nella visione cristiana,
era al tempo stesso diritto divino e naturale) e il diritto
universale per eccellenza[20],
quel diritto di Roma, cioè, della cui applicabilità in un
giudizio tenuto dallautorità imperiale non doveva
dubitarsi.
Ci si può chiedere, a questo punto, se
sia effettivamente ipotizzabile una conoscenza della Lex Dei
da parte di Pepo[21].
Si vedrà che una simile ipotesi è assai più verosimile di
quanto non possa sembrare a prima vista. E il momento di
abbandonare il placito lombardo e rivolgersi alla storia di
questa operetta così peculiare.
2. Della Lex Dei quam praecepit Dominus
ad Moysen questo è propriamente il titolo che si
ricava dai manoscritti sappiamo in realtà assai poco. Non
ne conosciamo lautore[22],
non lesatta datazione[23]e
nemmeno, al di là delle diverse ipotesi formulate, possiamo
esser veramente sicuri della sua redazione in ambiente ebraico o,
altrimenti, cristiano[24].
Nel porre di fronte la legge mosaica e il diritto romano in un
sistematico confronto, questoperetta costituisce certamente
uno fra i primissimi esempî di comparazione tra due sistemi
giuridici. Soprattutto, però, essa è anche una delle poche
fonti della giurisprudenza romana pregiustinianea che siano
giunte sino a noi.
Non può sorprendere quindi che, dal
momento della sua riscoperta e della sua prima edizione avvenuta
nel 1574 ad opera dellumanista francese Pierre Pithou[25], la Collatio sia divenuto un
tradizionale campo di ricerca per gli storici del diritto romano.
Assai meno comprensibile riesce invece il silenzio che, salvo
poche eccezioni, hanno tributato a questa operetta gli studiosi
del diritto medievale. Eppure, a pensarci bene, la tradizione
manoscritta della Collatio è tutta medievale e, sempre
allalto Medioevo, appartengono anche le poche tracce che
son parse sino ad ora documentare un qualche impiego di quel
testo. Sarebbe stato quindi del tutto naturale investigare le vie
attraverso le quali quelloperetta volgare fu tratta
nuovamente alla luce dopo circa quattro secoli di oblío.
Soprattutto, però, incuriosiscono i motivi che indussero a fare
delle nuove copie di quellinsolito testo, iniziandone così
una circolazione che fu tuttaltro che modesta e che, per
quanto ne sappiamo, si estese dal secolo IX sino allo scorcio
dellXI interessando lItalia e la Francia.
La Lex Dei benché si sia
cercato di negarlo[26]
era certamente conosciuta da Incmaro arcivescovo di Reims.
Lo rivelano due passaggi del De divortio Lotharii regis et
Thetbergae reginae che egli scrisse intorno allanno
860. In una prima circostanza Incmaro ricorda un passo del Levitico
lo stesso con cui si apre il tit. de stupratoribus
della Collatio (Coll. 5.1) e poi ne segnala
la convergenza con le norme romane che il vescovo trovava
raccolte in un apposito capitolo, appunto intitolato de
stupratoribus[27].
Più oltre Incmaro rinvia nuovamente a quanto disposto dai
capitoli de stupratoribus e de incestis et turpibus
nuptiis che egli dice essere il sesto e il settimo del primo
libro di una non meglio precisata Lex Romana[28]. Tra le fonti romanistiche a noi
note, titoli di ugual tenore e in tale successione si trovano
solamente nella Lex Dei[29].
Lincidentale quod legens quisque inveniet che
Incmaro fa seguire al primo rinvio, lascia poi intendere come il
vescovo non ritenesse affatto difficile la reperibilità di
questi testi e quindi, presumibilmente, della stessa Collatio:
è unindicazione da non trascurare soprattutto perché
sembra essere supportata da ulteriori indizî.
Al Mommsen, per cominciare, parve di avere
individuata una interessante conferma in un manoscritto della Lex
Romana Visigothorum conservato a Parigi (Paris, BN lat. 9652)
e risalente anchesso, al pari dello scritto di Incmaro, al
sec. IX. Nellultima carta di quel codice, una mano di poco
posteriore a quella che ha copiato il Breviarium ha
infatti trascritto il versetto biblico di Ex. 22.7
premettendovi liscrizione X. De deposito:
esattamente in questo modo inizia appunto il decimo titolo della Collatio[30].
Più tardi, cioè nei primi decenni del
sec. XI, anche lautore della Collezione canonica in
cinque libri[31]sembra
utilizzare la Lex Dei. In particolare, inframezzato a una
corposa serie di estratti dallEpitome Iuliani, egli
riproduce un passo delle Sententiae di Paolo (PS 5.23.3)
che non è fra quelli presenti nel Breviarium Alaricianum
e che è invece contenuto nella Collatio (7.1)[32]. Il fatto che nella rubrica il passo sia
attribuito a Iustinianus rex si spiega facilmente
constatando come la medesima inscriptio sia costantemente
preposta anche ai molti excerpta dallEpitome
Iuliani fra i quali, come sè detto, si trova inserito[33]. E noto, del resto, come in Italia
patria certa della collezione canonica usasse
riferire a Giustiniano ogni testo giuridico romanistico
allepoca in circolazione[34].
La Collectio V librorum, oltre a citare questi
testi di diritto romano e altre norme longobardo-franche, si
segnala anche per la massiccia presenza di citazioni dalla Bibbia
e in particolare dal vecchio Testamento: una circostanza
piuttosto inconsueta che ha fatto pensare allinfluenza
delle raccolte canoniche di origine irlandese e, in particolare,
della Hibernensis[35].
Tre sole attestazioni pur niente
affatto fragili e insignificanti non sono certo molte e
non potrebbero consentire alcuna sicurezza circa la effettiva
conoscenza della Lex Dei in età altomedievale. A dare
loro forza e a confermare la circolazione di quel testo,
sopravviene tuttavia un ulteriore argomento della cui solidità
sarebbe invece difficile dubitare: la tradizione manoscritta. La Collatio
è giunta sino a noi attraverso tre testimoni. Con tutta
probabilità, anche se non direttamente, i tre codici discendono
dal medesimo archetipo[36].
Il più antico manoscritto della Collatio
è conservato a Berlino (Berlin, DN, lat. fol. 269) ed è noto
soprattutto perché contiene un fascicolo aggiunto con la fine
delle Istituzioni e il principio del Digesto. Se questo singolo
fascicolo pare databile alla prima metà del IX secolo[37], il resto del manoscritto, che contiene
lEpitome Iuliani, la Collatio e
unappendice di varî pezzi romanistici, dovrebbe essere
precedente e risalire allinizio di quel secolo o
addirittura alla fine del precedente. Lorigine è
senzaltro italiana e si può pensare con una certa
probabilità allItalia settentrionale[38].
Al secolo IX, ma più probabilmente alla
fine, appartiene invece il secondo manoscritto della Lex Dei:
il ms. Wien, ÖNB 2160. Contiene grosso modo i medesimi testi del
berlinese e può dirsi anchesso italiano. Indizî
paleografici sono sembrati anzi in tempi recenti ricondurlo più
precisamente alla zona di Roma[39].
Il terzo e ultimo codice è quello
conservato nella Biblioteca del Capitolo di Vercelli con la
segnatura 122. Benché questo manoscritto sia stato copiato uno o
due secoli dopo i precedenti (sec. XI), ad essi è tuttavia assai
vicino per il contenuto[40].
Di nuovo ritroviamo assieme alla Collatio, lEpitome
di Giuliano e una serie di testi molto simile a quella già
incontrata nei codici di Berlino e Vienna. Come il viennese, poi,
anche il vercellese sembra esser stato copiato in area romana[41]. Sul finire del sec. XI appartenne a un
privato, un tal Ambrosius iudex, con tutta probabilità un
lombardo, che vi fece alcune annotazioni e vi aggiunse, in calce
a uno stemma cognationum, il cap. 153 dellEditto di
Rotari, anchesso relativo ai gradi di cognazione[42].
Tre testimoni è questo un dato che
occorre sottolineare non sono affatto pochi per
quellepoca. Soprattutto se si considera come molte opere
giuridiche dellalto Medioevo, assai più frequentate dai
medievisti, si siano conservate in un unico esemplare[43]. Poiché è da escludere che i
manoscritti e in particolare quelli giuridici si
copiassero per semplice diletto, un certo interesse per questo
testo è quindi senzaltro da ammettere[44]. Volendo tornare alla domanda da cui
eravamo partiti, lesame in particolare del codice
vercellese non solamente ci rassicura sulla circolazione della Collatio
nellepoca che precede immediatamente Irnerio, ma pare
oltretutto ricondurci in quel medesimo ambiente di giudici padani
in cui il racconto di Radulfus Niger colloca appunto il magister
Peppo.
3. Riconosciuti dunque leffettiva
circolazione e limpiego della Lex Dei nei secoli
altomedievali, è ora il momento di interrogarsi sui motivi che
decretarono una simile fortuna per quelloperetta
tardoantica.
Non è certo il caso di affrontare qui,
per lennesima volta, una questione storiografica tanto
complessa e forse addirittura irrisolvibile quale
è quella sullorigine della Lex Dei[45]. Tuttavia, proprio al fine di
meglio comprendere quella singolare fortuna, può essere utile
riportare alla memoria una vecchissima tesi del Bluhme secondo la
quale la Collatio sarebbe stata concepita per essere
inserita tra le fonti giuridiche impiegate dagli ecclesiastici
nellepiscopalis audientia[46]. Il suo contenuto e ancor più la
medesima struttura ben si accordano, in effetti, con una simile
finalità pratica. Non sappiamo se, così come ci è pervenuta,
lopera sia da considerarsi ultimata. Essa si presenta
comunque come una sòrta di manualetto di diritto penale. Il
confronto fra le norme del Pentateuco e quelle romane si
sviluppa seguendo il filo conduttore dei comandamenti penalistici
del Decalogo (V-X = Exod. 20.13-17 e Deut.
5.17-21)[47]. La corrispondenza è anzi ancor più
evidente nella Lex Dei di quanto non sarà, più tardi,
negli stessi Libri Poenitentiales altomedievali[48].
La tesi del
Bluhme, a dire il vero, ha trovato lopposizione di
autorevoli studiosi, i quali hanno piuttosto sostenuto, e
continuano a sostenere, lidea di una origine giudaica
dellopera. Come già altri hanno osservato, tuttavia,
contro la paternità ebraica della Lex Dei depone
gravemente lassenza in essa di ogni riferimento alla Torah
orale[49] e al Talmud[50]. Per gli ebrei del IV e V secolo,
entrambi costituivano infatti consolidati e imprescindibili
complementi nella interpretazione e applicazione della legge
mosaica[51].
Daltro canto, i maggiori ostacoli
alla ipotesi di una origine cristiana dellopera
risiederebbero nel fatto che lautore della Collatio
non solo omette di avvalersi della legislazione costantiniana e,
in genere, di quella degli altri imperatori cristiani, ma nemmeno
pare considerare i principî evangelici. Non si tratta però di
ostacoli insormontabili.
Riguardo alla prima omissione, va per
prima cosa sottolineato come essa non sia assoluta.
Lesistenza di almeno una eccezione[52]
comporterebbe infatti la necessità di credere a interpolazioni
successive, sempre difficili da dimostrare[53]. Soprattutto, però, un tale
atteggiamento appare illogico, in un cristiano, solo ritenendo
che il vero intento di questa operetta fosse quello di dimostrare
ai pagani la maggior antichità e quindi autorità della legge
mosaica rispetto al diritto romano[54].
Nientaffatto strano apparirebbe invece qualora si
ammettesse che scopo precipuo dellautore della Collatio
fosse piuttosto quello di rassicurare i membri delle comunità
cristiane circa lopportunità di ricorrere utilmente al
diritto pagano di Roma senza per questo incorrere in
peccato[55].
Per quanto poi attiene alla circostanza
che lautore della Lex Dei sembri prendere in
considerazione unicamente i principî veterotestamentarî,
occorre ricordare come una antichissima tradizione che
può farsi risalire sino allapostolo Paolo[56] individuasse la Legge nei precetti
imposti da Dio agli uomini a causa delle loro trasgressioni e
affinché si astenessero dal peccare. Quei precetti andavano
appunto riconosciuti nel Decalogo e nel Pentateuco.
Come il Vangelo di Matteo precisava e lo stesso Paolo aveva
ribadito, Cristo non era venuto ad abolire tale Legge ma a
completarla e rinforzarla[57].
Il Suo insegnamento, in particolare, avrebbe dovuto consentire di
distinguere la vera Legge (la lex simplex o prima lex
che il Signore Iddio aveva dettato antequam populus vitulum
faceret et ad idolatriam convertetur) da tutta quella serie
di vincula secundationis (o secundatio legis) che
Dio era stato costretto a imporre aggiuntivamente, in séguito al
tradimento del Suo popolo[58].
Lantica legge mosaica, pertanto, non poteva affatto dirsi
superata. Quanto di essa il Figlio non aveva espressamente
corretto ma confermato, manteneva quindi intatta la autorità del
Padre e la immediata cogenza che appunto le derivava dal proprio
carattere divino[59]. Lex
ed evangelium si profilavano pertanto, agli occhi dei
cristiani, come elementi distinti, come i due termini di
unendiadi. E come tali essi furono ininterrottamente
considerati sino ai tempi del Decretum grazianeo[60] e oltre.
La Collatio non si pone al di fuori
di questa lunghissima tradizione. Semplicemente essa si preoccupa
solo del primo termine dal momento che solo i precetti
dellantico Testamento e non quelli evangelici
hanno un autentico carattere normativo. Di nuovo, la comprensione
diviene più facile se si accetta la tesi di una redazione della Lex
Dei con una duplice finalità, al tempo stesso apologetica (a
favore dellantico diritto di Roma) e pratica (offrire un
sussidio ai vescovi nella loro attività di giudici).
Le prime comunità giudaico-cristiane,
come è noto, erano caratterizzate dalle figure carismatiche dei
rispettivi vescovi. A questi si affidarono sin dallinizio
anche per risolvere tutti i problemi di carattere latamente
giuridico. In breve, i vescovi furono chiamati non solo a
promuovere e controllare la disciplina dei fedeli, ma
anche a fungere da autorevoli arbitri tutte le volte che lo
scandalo di una controversia minacciasse di inquinare
la vita della singola comunità[61].
Poiché limpostazione paradossale e antigiuridica del
Vangelo non consentiva loro di far fronte a questo tipo di
problemi, i vescovi trovarono allora naturale rivolgersi al
vecchio Testamento che proprio in quei secoli la rilettura
patristica andava depurando o, se si preferisce,
cristianizzando. Non a caso lignoto autore
della Didascalia Apostolorum (attivo in Siria o in
Palestina nella prima metà del III sec.) sottolinea che la Legge
(ed egli intende con ciò Decalogo e Pentateuco)
vocata est specialiter propter iudicia[62].
Anche quando, dopo gli editti di Galerio e
Costantino, i cristiani poterono ormai sentirsi a pieno titolo
cittadini dellImpero, essi continuarono tuttavia a
preferire laudientia dei loro presuli a quella dei
magistrati pubblici. Il rapido diffondersi del cristianesimo a
tutti i ceti della popolazione rese considerevolmente più
gravosa per i vescovi questa incombenza sia in termini
quantitativi che qualitativi. La legge mosaica, privata della
plurisecolare e raffinata interpretazione rabbinica, si
presentava però piuttosto scarna e, nella sua rigidità,
alquanto malagevole: in una parola, insufficiente. Quando ancóra
le persecuzioni non erano cessate, lautore della Didascalia
Apostolorum sembra già essere consapevole di questa carenza.
Nel tentativo di trovare una soluzione, egli giunge a elaborare
una teoria che, per i suoi tempi, è senzaltro originale:
Cristo è venuto appunto a completare e correggere la legge
mosaica salvando quanto in esso vi era di buono e cancellando
quanto invece era ormai divenuto inutile. Ma ciò ha fatto non
solo attraverso il suo diretto insegnamento, bensì
indirettamente, ispirando cioè gli stessi legislatori romani[63]. Addirittura, quasi a voler anticipare la
Collatio, lautore della Didascalia chiarisce
il proprio ragionamento facendo lesempio dellomicidio
e richiamando quindi il quinto comandamento (Didasc.
6.19.5):
In Lege dicit: Non occides. Si quis
ergo interfecerit, a lege per Romanos condemnatur et sub Lege est[64].
E facile credere che
linsegnamento della Didascalia abbia potuto
incontrare qualche opposizione nellancor giovane mondo
cristiano. In esso, si sa, non mancavano posizioni più
intransigenti decise a rifiutare ogni deviazione dalle Scritture,
ogni commistione, perfino ogni contatto, con ciò che sapesse
anche lontanamente di pagano. La crisi delle persecuzioni
dioclezianee, in particolare, doveva aver lasciato il segno
sviluppando in molti una fortissima avversione nei confronti
dello Stato romano e del suo diritto. Furono allora soprattutto
personaggi come Ambrogio di Milano e Agostino di Ippona a
raccogliere, tra IV e V sec., lintuizione che un secolo
prima aveva avuto lo sconosciuto scrittore orientale[65].
Nulla impedisce di credere che un simile
scenario e analoghe motivazioni possano aver fatto da sfondo
anche al lavoro di chi, più o meno negli stessi decenni, si
accingeva alla stesura della Collatio legum Mosaicarum et
Romanarum.
4. Ma
lasciamo finalmente lepoca del Tardoantico e torniamo a
interrogarci sui motivi che, trascorsi alcuni secoli,
determinarono in pratica una seconda vita del nostro testo. Le
condizioni storiche, il contesto sociale e culturale sono
evidentemente mutati. Eppure, con i necessarî aggiustamenti e
ricalibrature, entrambe le motivazioni che si è creduto di poter
riconoscere dietro la compilazione della Collatio
potrebbero aver conservato la loro sostanziale validità anche
nei secoli successivi.
Si è detto che la redazione della Collatio
potrebbe esser stata concepita in risposta al pressante bisogno
di un testo che riuscisse utile agli ecclesiastici nel disbrigo
della loro attività di giudici. Nelletà altomedievale, è
cosa nota, le attribuzioni giudiziarie già assicurate ai vescovi
del tardo mondo romano furono non solo mantenute ma spesso anche
ampliate[66]. Il fenomeno è comune alla Spagna
visigota, alla Francia merovingia e allItalia longobarda.
Ma fu soprattutto in epoca carolingia che
questo ruolo dei presuli assunse una importanza e una dimensione
del tutto peculiari. Un capitolare di Carlo Magno
dell802/803 rivela, per esempio, limpegno della
corona nel tentativo di imporre la generale osservanza del Decalogo[67]. Ed è esplicitamente ai vescovi che
viene rimesso il compito di inquirere quei mala quae
contraria sunt Deo, quae in sacris scripturis leguntur, quae
christiani devitare debent. Fu, molto probabilmente, proprio
in ottemperanza a questo ordine ideale che il vescovo di Chur,
Remedio un personaggio di cui è nota la vicinanza ad
Alcuino si decise a redigere una breve raccolta di Capitula
a contenuto prevalentemente penalisitico e chiaramente ispirata
al Decalogo se non, anchessa, direttamente
improntata alla Collatio[68].
In un contesto del genere, non sarebbe certo sorprendente il
veder raffiorare la vecchia Lex Dei dalla polvere di
qualche biblioteca. Non vi è dubbio, comunque, che una tale
riapparizione avrebbe risposto assai bene al nuovo clima
culturale innaugurato con la renovatio Imperii.
Le citazioni altomedievali della Collatio
e la sua stessa tradizione manoscritta, se da un lato parrebbero
confermare questa supposizione[69],
dallaltro rivelano anche lesistenza di un fortissimo
legame tra la Lex Dei e lEpitome di Giuliano[70]. Più esattamente la Collatio
risulta essere una componente stabile della cosiddetta appendice
B che i manoscritti presentano spesso congiunta alla collezione
di Novellae epitomate[71].
Luna e laltra, Collatio ed Epitome Iuliani,
potrebbero allora esser state ricomprese in una delle versioni in
cui dovette circolare quella enigmatica Lex Romana tante
volte echeggiata nelle fonti[72].
Di questultima, anzi, la Collatio unitamente al Dictatum
de consiliariis[73]
altra componente stabile dellappendice allEpitome
di cui sè detto potrebbe aver costituito le parte
processual-penalistica.
Ma nemmeno laltra motivazione che si
è proposta la necessaria funzione di supporto e di
integrazione che il diritto romano avrebbe avuto nei confronti
dei troppo scarni precetti divini doveva aver perso ogni
attualità. Naturalmente, i termini si ponevano in maniera
differente. Allepoca di Ambrogio e Agostino si era trattato
di difendere dai rigorismi gnostici e volgere a proficuo impiego
la grande esperienza giuridica romana anteriore a Costantino. La Renovatio
Imperii imponeva ora la necessità di rinsaldare quello
spirito di collaborazione tra i due poteri universali
affievolitosi con la crisi dellImpero occidentale e il
progressivo distacco della chiesa di Roma da Costantinopoli.
Chiesa e Impero, è appena il caso di ricordarlo, dovevano
apparire come due facce di ununica medaglia. Di tale
ideologia, a lungo portante nei secoli dellalto Medioevo,
il concetto dellutraque lex, delluna e
dellaltra legge, costituiva una componente fondamentale[74]. Al pari dellEpitome Iuliani[75], la Collatio poteva anchessa
rappresentare una espressione mirabile e concreta di quella
visione.
Ben presto, tuttavia, almeno una certa
parte del clero avrebbe cominciato a non riconoscersi più in
quellideale. Si trattava in particolare di quella parte
presso cui più facilmente attecchivano le istanze riformistiche
a favore di una sempre maggiore autonomia politica
della Chiesa. Può non esser stato semplicemente un caso, allora,
se tutti coloro che, a partire dalletà carolingia,
rivelano la conoscenza e luso della Lex Dei ci
appaiono schierati sul fronte maggiormente ostile alla
riforma.
Attestato su quella linea, per cominciare,
era senzaltro il potente arcivescovo di Reims. Di Incmaro
sappiamo infatti che, mentre da un lato si ergeva a grande
oppositore delle falsificazioni pseudoisidoriane, dallaltro
si professava convinto assertore della necessaria collaborazione
tra i due poteri e della opportunità, per gli ecclesiastici, di
conoscere e considerare anche la legge civile[76].
In séguito, nei primi decenni
dellXI secolo, si trovarono sulle medesime posizioni anche
i non pochi ecclesiastici italiani che decisero di sposare la
causa imperiale e appoggiare il breve ma intenso sodalizio
collaborativo instaurato tra Enrico II e Benedetto VIII[77]. Tra di loro era certamente anche
lautore della Collectio canonum V librorum[78].
Ancor più tardi, allepoca cioè in
cui Enrico IV eleggeva lantipapa Clemente III e ispirava la
stesura di polemici libelli intitolati De unitate ecclesiae
conservanda[79],
è assai probabile che fosse schierato su quel versante anche il
misterioso Pepo, bàiulus del Codice e delle Istituzioni
giustinianee e nondimeno deciso propugnatore del sistema
dellutraque lex e, su questa base, anche abile
persuasore del medesimo Enrico IV[80].
Ma lepisodio del placito lombardo va
evidentemente considerato alla stregua di un colpo di coda. Ben
presto le idee riformistiche avrebbero preso decisamente il
sopravvento. Di lì a poco si sarebbe affacciata sulla scena la
rivoluzionaria figura di Irnerio. Per Pepo, per il
suo vecchio mondo, persino per la memoria dei suoi insegnamenti,
non ci sarebbe stato più alcuno spazio. Per la Collatio legum
Mosaicarum et Romanarum era invece il momento di far ritorno
nelle biblioteche e ricoprirsi nuovamente di polvere.
[1] E stato Ludwig Schmugge, tredici anni fa, a individuarlo e renderlo noto agli studiosi: Codicis Iustiniani et Institutionum baiulus. Eine neue Quelle zu Magister Pepo von Bologna, in Ius Commune, 6 (1977) 1-9. Lintera questione relativa allaffascinante personaggio di Pepo è ora ampiamente e criticamente riesaminata in E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, Roma 1995, I, 383 e sgg. e II, 33-55. Recentissimamente è tornata a scriverne anche G. Nicolaj, Ambiti di copia e copisti giuridici in Italia (secc. V-XI in.), in Le statut du scripteur au Moyen Age (Actes du colloque: Cluny, 17-20.7.1998) Paris 2000, in partic. 139 e sgg.
[2] Riporto, per comodità del lettore, la parte saliente del breve passaggio già edito dallo Schmugge (nt. 1; 3) con la piccola variazione suggerita dallo Spagnesi e accettata dal Cortese (nt. 1; II, 3678): Surrexit autem magister Peppo in medium tantum Codicis Iustiniani et institutionum bàiulus, utpote Pandecte nullam habens noticiam, enervans sentenciam priorum iudicum. Quippe allegavit eum, qui exemisset hominem de grege hominum, universitati fore iniurium adeo, ut qui hominem ademisset universitati hominum, quia violasset naturale communionis consorcium, ipse pariter de medio tolleretur et homicida occideretur. Sive enim servus sive liber foret, idem ait esse iudicium, quoniam addictio servitutis delere non poterat communionem nature humane conditionis. Legibus igitur et sacris constitutionibus imperatorum firmato iudicio optinuit magister Peppo coram imperatore aliis iudicibus in confusione recedentibus.
[3] Cfr. lulteriore passo riportato dallo Schmugge (nt. 1) 4.
[4] Ai passi già segnalati dal Dolcini (Postilla su Pepo e Irnerio, in appendice alla ristampa di G. de Vergottini, Lo Studio di Bologna, lImpero, il Papato, Spoleto 1996, 83-100, in partic. 87-90 e ivi le ntt. 13, 14, 18), potrebbe anche aggiungersi un brano della Pro Milone (6.17) in cui Cicerone sottolinea lindifferenza della condizione sociale della vittima nella valutazione dei casi di omicidio: Quid ita? Quia non alio facinore clari homines, alio obscuri necantur. Intersit inter vitae dignitatem summorum atque infimorum: mors quidem inlata per scelus isdem et poenis teneatur et legibus. Nisi forte magis erit parricida, si qui consularem patrem quam si quis humilem necaverit .
[5] Dolcini (nt. 4) 89-90. Cfr. in partic. i passi ambrosiani individuati dallo studioso (ivi 87, ntt. 15 e 16).
[6] In un altro passo dei Moralia Regum che aveva, a suo tempo, già individuato il Kantorowicz (H. Kantorowicz-B. Smalley, An English Theologians Wiew of Roman Law: Pepo, Irnerius, Ralph Niger, [London 1943] ora in H. Kantorowicz, Rechtshistorische Schriften, [H. Coing G. Immel curr.] Karlsruhe 1970, 231-244).
[7] Cortese (nt.1) II, 39 e Id., Tra glossa, commento e umanesimo, Studi Senesi, 41 [1992] 459 e sg., ora anche in Id., Scritti, Spoleto 1999, II, 1050 e sg. Pepo avrebbe potuto tener presente anche Exod. 21.20 (magari nella versione un po differente di cui si dirà infra nt. 19): Qui percusserit servum suum vel ancillam virga, et mortui fuerint in manibus eius, criminis reus erit. Si vedano, daltro canto, i passi del Digesto ricordáti più avanti (infra nt. 16) in cui è ripetuto il principio liberum corpus aestimationem non recipit.
[8] Cioè i due tentativi etimologici relativi il primo al termine mutuum e contenuto nella antica Summa Institutionum provenzale edita dal Legendre (La Summa Institutionum Iustiniani est in hoc opere, [Ius Commune Sonderhefte, 2] Frankfurt a. M. 1973; cfr. in proposito Cortese (nt. 7) 458 e sg. (= Scritti, II, 1049 e sg.), il secondo allespressione ante felicem embolam di C. 1.2.10.pr. (cfr. L. Loschiavo, Secundum Peponem dicitur G. vero dicit. In margine ad una nota etimologica da Pepo ad Ugolino, in RIDC, 6 [1995] 233 e sgg.).
[9]
Come ha osservato il Cortese (nt.1) II, 37-38 e 40, indicando
soprattutto Isidorus, Etymol., 5.4.1 e 5.27.24. In
questultimo passo, in particolare, Isidoro accosta il talio
alla vindicta (
talio est similitudo
vindictae) per poi affermarne la rispondenza alla legge di
natura e a quella divina (mosaica) (
hoc enim est natura
et lege institutum, ut laedentem similis vindicta
sequatur). Almeno in parte, Isidoro potrebbe a sua volta
aver tratto ispirazione da Cicerone che in De invent. 2.65
aveva appunto collocato la vindicatio allinterno del
diritto naturale:
ac naturae quidem ius esse,
quod nobis non opinio, sed quaedam innata vis afferat, ut
religionem pietatem gratiam vindicationem observantiam
veritatem
vindicationem, per quam vim et contumeliam
defendendo aut ulciscendo propulsamus
; sui
significati di questo passaggio ciceroniano, cfr. W. Kunkel, Untersuchungen
zur Entwicklung des römischen Kriminalverfahrens in
vorsullanischer Zeit, [Bayer. Akad. Der Wiss., Phil.-hist.
Kl. Ab., n.F., 56] München 1962, 126 e sg.
[10] Val la pena di riportare anche qui le parole di Radulfus Niger (il passo è quello già ricordato supra, nt. 6) secondo il quale, proprio nellepoca che fu di Pepo e poi di Irnerio, il diritto civile (cioè il romano) traheretur ad curiam romananam, et in aliquibus partibus terrarum expanderetur in multa veneratione et munditia, ceperunt leges esse in honore simul et desiderio, adeo ut occideretur Amon, abrogato pravo ritu iudiciorum in plerisque partibus terrarum. Sed et quamquam ab initio displicerent iura principibus, quia vetustas consuetudines erasissent, tandem tamen ecclesia procurante et propagante eorum scientiam, usque ad principes produxerunt eorum notitiam, et apud eos invenit eis gratiam.
[11] Come indicato dal Cortese (nt. 1) II, 39. Su questo testo legislativo di epoca sillana si veda in partic. J.L. Ferrary, Lex Cornelia de sicariis et veneficis, in Athenaeum 79 (1991) 417-434. Più in generale, sul ius talionis nel mondo antico, cfr. A. Herdlitczka, v. Talio, in PWRE, IV A.2 (1932), 2069-77.
[12] Liberum est autem ei, cuius servus fuerit occisus, et privato iudicio legis Aquiliae damnum persequi et capitalis criminis eum reum facere; passo individuato dal Dolcini (nt. 4) 8819.
[13] La segnalazione si deve ancóra al Cortese (nt. 1) II, 37.
[14] Che si sostanziava nella deportatio per gli honestiores e nella morte per gli humiliores, cfr. PS 5.23.1. Sulla repressione dellomicidio con la pena capitale in diritto romano, si vedano T. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig 1899 (= Aalen 1990) 612 e sgg., E. Levy, Die römische Kapitalstrafe, (1931) ora in Id., Gesammelte Schriften, II, Köln/Graz 1963, 325 e sgg. (partic. 357 e sg.) e quindi B. Santalucia, Diritto e processo penale nellantica Roma, 2a ed. Milano 1998, 145-149 e 261-263. Sulla distinzione humiliores/honestiores e sui risvolti che essa aveva anche a questo proposito, cfr. R. Rilinger, Humiliores Honestiores. Zu einer sozialen Dichotomie im Strafrecht der römischen Kaiserzeit, München 1988, in partic. 181-206.
[15] Proprio le Istituzioni di Giustiniano spiegano, in realtà, come il ius talionis, già conosciuto e applicato allepoca delle XII Tavole, sarebbe presto divenuto desueto (Inst. 4.4.7). Anzi (cfr. nuovamente Cortese [nt. 1] II, 39), una costituzione di Diocleziano (C. 2.4.18) che però si sospetta interpolata invitava a non comminare con troppa facilità la punizione estrema al di fuori dei casi di adulterio.
[16] Niente, infatti, sembra smentire la precisa affermazione del Niger secondo cui Pepo non avrebbe avuto conoscenza diretta del Digesto ( Pandecte nullam habens noticiam ). Analogamente, anche se in questo secondo caso si sarebbe trattato del Digestum vetus ormai prossimo alla riscoperta, Pepo non avrebbe potuto citare nemmeno D. 9.2.23.9: Si dolo servus occiso sit, et lege Cornelia agere dominum posse constat: et si lege Aquilia egerit, praeiudicium fieri Corneliae non debet; cfr. Dolcini (nt. 4) 8818-19. Va peraltro sottolineato come il Digestum vetus contenga fra laltro ripetute menzioni del principio liberum corpus aestimationem non recipit (D. 9.1.3; D. 9.3.7; D. 14.2.2.2) che invece, ammettendo implicitamente laestimatio corporis per i servi, sarebbero state certamente di ostacolo alla costruzione peponiana. Sempre il Digesto accenna alla condizione libera degli uomini secondo il diritto naturale prima che il ius gentium fosse intervenuto a modificarla.
[17] PS 5.23.13 che nel Breviarium diviene 5.25.7 (ed. G. Hänel, Lex Romana Visigothorum, Lipsiae 1848 [= Aalen 1962], 436) e in Reginone corrisponde al cap. 87 del secondo libro (ed. F.G.A. Wasserschleben, Reginonis Libri duo de synodalibus causis, Lipsiae 1840 [= Graz 1964] 247). Al Dolcini (nt. 4; 8717) è parso piuttosto che la derivazione potesse essere dalla lettera di Paolo agli Efesini (Ad Eph. 6.8).
[18] Si ricordi peraltro come anche il Brachylogus iuris civilis unopera sulla quale, al di là dellantica attribuzione del Naber, si proietta stranamente anche lombra di Pepo rivela puresso citazioni tratte dalla Lex Romana Wisigothorum (cfr. Cortese [nt. 1] II, 52-55).
Quanto allopera di Reginone, dopo aver ricordato come lo scarso numero di manoscritti conservatisi lascia credere che essa abbia avuto un successo piuttosto limitato, occorre sottolineare come il passo delle Sententiae in questione non sia stato recepito né da Burcardo né da Ivo di Chartres ai qualli si deve, per converso, la grande influenza che essa ebbe nel secolo XI; cfr. in proposito P. Fournier G. Le Bras, Histoire des collections canoniques en occident, I, Paris 1931 (= Aalen 1972) 267 e sg.
[19] E interessante notare come la versione di Exod. 21.20 proposta da Coll. 3.1 (Si quis percusserit servum aut ancillam uirga et mortuus fuerit in manibus eius, iudicio vindicetur ) differisca da quella della Vulgata (v. supra nt. 7) e come, in particolare, manchi qui la specificazione suum che avrebbe potuto ostacolarne limpiego da parte di Pepo in occasione del placito lombardo. Cfr. inoltre, quale corrispondente romanistico, Coll. 3.2.1: Servus si plagis defecerit, nisi id dolo fiat, dominus homicidii reus non potest postulari (= Paulus l. sent. V sub tit. ad legem Corneliam de sicariis et veneficis).
[20] Forse non è un caso che Pepo, nel discorso riferitoci da Radulfus, ponga due volte laccento sul danno arrecato alluniversitas degli uomini. Al Dolcini (nt. 4; 90) tale richiamo è parso il contributo più originale offerto in questo frangente dallantico giurista, lunico che potrebbe risalire allautonoma elaborazione di pensiero da parte di Pepo.
[21] Non è lecito invece nutrire dubbi riguardo alla circostanza che nella società altomedievale la legge mosaica continuasse ad avere grande importanza e le fosse attribuita immediata efficacia normativa (non è da escludere, per fare un esempio, che proprio alla legge mosaica si facesse riferimento con la generica espressione lex nostra talvolta riscontrabile anche nelle fonti giuridiche: cfr. a tale proposito H. Siems, Handel und Wucher im Spiegel frühmittelalterlicher Rechtsquellen, MGH, Schriften, 35, Hannover 1992, 327808). Ma questo, appunto, è un altro discorso.
[22] Nessuno, oggi, si preoccupa più di legare questoperetta a un nome specifico. Una rapida rassegna dei varî tentativi fatti in passato in H. Schrage, La date de la «Collatio Legum Mosaicarum et Romanarum»étudiée daprès les citations bibliques, in Mélanges F. Wubbe, Fribourg 1993, 401-403 = in Id., Non quia romanum sed quia ius, [Bibliotheca eruditorum, 17], Goldbach 1996, 329-331).
[23] Senzaltro importanti in questo senso sono però da considerare i risultati cui è giunto lo Schrage (nt. 22) indagando sul testo latino della Bibbia usato per la compilazione delloperetta: lautore della Collatio sarebbe appartenuto allepoca e allambiente agostiniani.
[24] Fu il Volterra, nel 1930, in un lavoro che impressiona per la vastissima erudizione (nt. sg.), a riprendere con molti nuovi argomenti una tesi, quella della matrice ebraica della Lex Dei, che era già stata avanzata più volte a partire dal XVI sec. Tale tesi fu successivamente accolta dal Gaudemet e riproposta dagli allievi del Volterra (puntuali indicazioni in D. Liebs, Die Jurisprudenz im spätantiken Italien (260-640 n. Chr.), Berlin 1987, 163 e sg.). Da ultimo lha ripoposta G. Barone-Adesi, Letà della Lex Dei, Napoli 1992.
[25] La scoperta del manoscritto su cui lumanista francese basò la sua edizione avvenne anteriormente al 1572; cfr. E. Volterra, Collatio legum Mosaicarum et Romanarum, [Memoria della Reale Accademia dei Lincei; a. CCCXXVII (1930) ser. VI, vol. III, fasc. I] Roma 1930, 8 e sg.
[26] Cfr. in particolare Volterra (nt. 25) 23-31.
[27] Interrog.
12, resp. (ed. Sirmond, in Migne, PL 125, 690 sub
B): Et scriptum est in libro Levitici: Qui dormierit cum
masculo coitu femineo, uterque operatus est nefas, morte
moriantur (Lev. 20.13). Unde et leges Romanae
decernunt in capitulis de stupratoribus, quod legens quisque
inveniet.
[28] Ivi,
697 sub B:
sicut in primo libro legis Romanae
capitulo sexto de stupratoribus, et in capitulo septimo de
incestis et turpibus nuptiis praecipitur, et in caeteris, quae
christiana iura depromunt, iusti iudices legere possunt.
[29] La tradizione manoscritta (come già il Mommsen aveva notato nella sua Praefatio alledizione nella Collectio librorum iuris anteiustiniani, III, Berolini 1890, 112) consentirebbe inoltre di spiegare sia lindicazione liber primus (che è infatti presente nel ms. viennese allinizio della Collatio) sia lo sfasamento nella suddivisione dei titoli (i titt. citati da Incmaro per noi sono in realtà il quinto e il sesto; nel manoscritto berlinese, prima di Coll. 5.1, si legge invece [fol. 165r]: Explicit titulo quinto. Incipit de stupratoribus). E pure possibile che, nei secoli altomedievali, circolasse anche qualche altra versione della Lex Dei un po differente da quella a noi pervenuta. Cfr. inoltre M. Conrat (Cohn), Geschichte der Quellen und Literatur des römischen Rechts im frühen Mittelalter, Leipzig 1891 (rist. Aalen 1963) 881 e ora Liebs (nt. 24) 1623.
[30]
Mommsen (nt. 29) 114 su cui, criticamente ma senza argomenti
veramente decisivi, Volterra (nt. 25) 35 e sg. Sul manoscritto si
veda G. Dolezalek, Verzeichnis der Handschriften zum
römischen Recht bis 1600, Frankfurt a.M. 1972, II, ad v.
[31]
La Collezione fu composta quasi certamente a Roma (o
nellItalia meridionale) tra il 1014 e il 1023 (con maggior
probabilità intorno al 1020) allepoca, cioè, della
stretta collaborazione tra Enrico II e il papa Benedetto VIII;
cfr. P. Fournier, Un groupe de recueils canoniques italiens
des Xe et XIe siècles,
(1916) ora in Id., Mélanges de droit canonique, Aalen
1983, II, 277-307 (sulle fonti normative secolari in essa
utilizzate 300-303; sullorigine e la datazione 304-307) e
P. Supino Martini, Roma e larea grafica romanesca
[secoli X-XII], Alessandria 1987, 20514
(sullorigine del cod. Vallic. B 11) e 226-229 (sul Vat.
lat. 1339). Più recentemente, è giunto sostanzialmente alle
medesime conclusioni anche V. Koal, Zur
Überlieferungsgeschichte der Fünf-Bucher-Sammlung, in
Quellen, Kritik, Interpretation Festgabe H. Mordek
(T.M. Buck e aa. curr.), Frankfurt M. e aa. 1999, 127-134. Cfr.
inoltre L. Kéry, Canonical Collections of the Early Middle
Ages (ca. 400-1140), Washington D.C. 1999, 157-160.
[32] Il passo è anche in questo caso relativo allomicidio e, nella Collectio canonum, si trova inserito sotto la rubrica de homicidiis qui aliquando absolvuntur, aliquando damnantur. Iustinianus rex. Cfr. Mommsen (nt. 29) 113 e sg. e Conrat (nt. 29) 881 e 215 e sg.
[33] Contra Volterra (nt. 25) 33.
[34] Che lattribuzione a Giustiniano di testi giuridici non suoi sia un valido argomento per riconoscere la provenienza italiana di opere altomedievali è stato sostenuto da F. Patetta, Sui frammenti di diritto germanico della Collezione Gaudenziana e della Lectio legum, ora in Id., Studi sulle fonti giuridiche medievali, Torino 1967, 870 e sg. e, più di recente, dal Cortese (nt. 1) I, 83 e sg. e 253.
[35] Cfr. F. Patetta, Contributi alla storia del diritto romano nel Medio Evo, in BIDR 3 [1891] 17-21 (= Studi [nt. 34] 17-21) e Fournier (nt. 31). Si veda inoltre C.G. Mor, La Bibbia e il diritto canonico, in La Bibbia nellalto Medioevo (Settimane di studio del CISAM, X) Spoleto 1963, 163-179 (in partic. 177 e sgg.).
[36] V. in partic. F. Schultz, The Manuscripts of the Collatio legum mosaicarum et romanarum, in Symbolae van Oven, Leyden 1946, 313-333 ripreso ora anche da H.L.W. Nelson U. Manthe, Gai Institutiones III 1-87 [Freiburger Rechtsgesch. Abhandl., n.F. 15 = Studia Gaiana VII] Berlin 1992, 9.
[37] Cfr. R. Röhle, Das Berliner Institutionen und Digestenfragment, in BIDR 71 (1968) 136135, ove è anche riportata lopinione del Bischoff secondo cui il fascicolo sarebbe appunto da attribuire alla prima metà del sec. IX, alla Francia sud-orientale o allItalia settentrionale.
[38] Il manoscritto è stato descritto da G. Hänel, Iuliani epitome latina Novellarum Iustiniani, Leipzig 1873 (= Osnabrück 1965), IV-VI e ora nuovamente da Nelson e Manthe (nt. 36) 15-18 che pensano a unorigine nella regione retica o nellItalia settentrionale o anche nella Francia del Nord. Se questultima sembra però senzaltro da escludere (v. Röhle [nt. 37] 129), G. Nicolaj (nt. 1; 136) pensa in particolare al territorio nonantolano.
[39] Descrizioni del codice in F. Bluhme (Praefatio allediz. della Lex Dei da lui curata per il Corpus Iur. Rom. Anteiust., I, Bonnae 1841, 311) e soprattutto Hänel (nt. 38, VI e sg.); cfr. inoltre Dolezalek (nt. 30) ad v., e Nelson / Manthe (nt. 36) 20-22 (con datazione alla prima metà del sec. IX). Su di esso è tornato da ultimo A. Ciaralli (Produzione manoscritta e trasmissione dei testi di natura giuridica fra XI e XII secolo. Due esempi, in **********, (Ius Commune Sonderhefte, ***) Frankfurt a.M. 200*, ***-***ntt. 7-14) che, fondandosi sugli studi condotti della Supino Martini intorno alla carolina romana (supra, nt. 31) vi ha appunto riconosciuto un esempio di quella particolare scrittura.
[40]
Cfr. Bluhme (nt. 39) 311; Hänel (nt. 38) VII-VIII; Dolezalek
(nt. 30) ad v.; Nelson / Manthe (nt.36) 19-20.
[41] Già il Patetta (Contributi alla storia del diritto romano, in BIDR 4 [1892] 254-259 = Studi [nt. 34] 126-131), sottolineando i significativi legami con la Summa Perusina, riteneva probabile una stesura del manoscritto in ámbito romano. Ciaralli (nt. 39; *ntt. 35 e sgg.*) riconosce ora anche in questo codice un ulteriore esempio di minuscola romanesca e, con buoni argomenti, propone di ritardare leggermente la sua redazione collocandola nella seconda metà del secolo XI. Datazione completamente differente (metà del sec. IX o decenni successivi) in Nelson / Manthe (nt.36) 19-20.
Si ricorderà come anche Collezione canonica in cinque libri uno dei principali testimoni delluso altomedievale della Lex Dei (supra, nt. 31) abbia la sua origine in Roma o nella zona di Roma.
[42] Cfr. nuovamente Ciaralli (nt. 39) **-*ntt. 50-54*.
[43] Si pensi, per fare solo alcuni esempî, alla Summa Perusina, alla Lex romana canonice compta, agli Excerpta Bobiensia, alla Glosse di Torino, Colonia e Pistoia, nonché alla lombarda Expositio ad Librum papiensem.
[44] Non mi sembra sostenibile lopinione espressa dal Volterra (nt. 25; 38) secondo cui i tre manoscritti (i quali, si ricordi, contenevano, oltre la Lex Dei, la usatissima Epitome Iuliani) sarebbero rimasti sempre nascosti agli occhi dei giuristi. Il contrario è invece dimostrabile almeno per il codice vercellese in cui il testo della Lex Dei si presenta corredato di glosse (oltre a quelle già trascritte dal Mommsen nella sua Praefatio [nt. 29, 111] che si trovano rispettivamente nei foll. 163r inf., 165r sup., 167r sup. et inf., 178va e 180vb, si può segnalare anche un intervento sul testo di Coll. 8.7.2 a fol. 174rb) e di appendici (foll. 186r-v) assai interessanti e indicative del contesto e della finalità che fecero da sfondo alla stesura del codice (cfr. in partic. Conrat [nt. 29] 313 e sg.). Decisiva, direi, è poi la circostanza che il medesimo codice vercellese sia stato posseduto da un pratico (il iudex Ambrosius).
[45] Si può invece rinviare alle ampie disamine di H.L.W. Nelson, Überlieferung, Aufbau und Stil von Gai Institutiones, Leiden 1981, 104-116, Liebs (nt. 24) 162-174, Barone-Adesi (nt. 24), 7-24 e Schrage (nt. 22), 401-408 (= 329-336).
[46] Bluhme (nt. 39) 310.
[47] I primi tre titoli (De sicariis et homicidiis casu vel voluntate [I.1], De casualibus homicidiis [I.2], De atroci iniuria [II] e De iure et saevitia dominorum [III]) sviluppano infatti il quinto comandamento (non occides); i titoli De adulteriis (IV), De stupratoribus (V) e De incestis (VI) accorpano sistematicamente i divieti posti dal sesto e dal nono comandamento (non moechaberis; non concupisces uxorem proximi tui); il tit. De furibus et poena eorum (VII) coincide con il settimo comandamento (non furtum facies); i due titoli De falso testimonio (VIII) e De familiaris testimonio non admittendo (IX) corrispondono al comandamento ottavo (non loqueris contra proximum tuum falsum testimonium); i titoli dal X al XV (De deposito [X], De abigeis [XI], De incendiariis [XII], De termino amoto [XIII], De plagiariis [XIV] e De mathematicis, maleficis et Manichaeis [XV]), finalmente, integrano, più di quanto non appaia prima facie, le fattispecie comprese nellultimo comandamento (non concupisces domum proximi tui non servum non ancillam non bovem non asinum nec omnia quae illius sunt). Il sedicesimo titolo (De legitima successione) sembrerebbe invece iniziare la trattazione delle materie privatistiche. Può anche darsi che lautore si sia interrotto a questo punto per via dellimpossibilità di proseguire la comparazione non trovando passi biblici corrispondenti al tema della successione testamentaria che, secondo lo schema usuale presso i giuristi romani, precede quella intestata (così Nelson [nt. 45] 113 e sg.). Si può peraltro osservare come anche quellultimo titolo, in ogni caso, sarebbe stato di grande utilità ai vescovi nello svolgimento della loro funzione di giudici o arbitri. Sulla generale rispondenza della partizione della Lex Dei al Decalogo, v. comunque già Conrat (nt. 29) 882, Mommsen (nt. 29) 129 e Liebs (nt. 24) 171; contra invece Lauria, Lex Dei, in Studia et Documenta 51 (1985) 260 e Nelson (nt. 45) 114-116.
[48]
Cfr. Conrat (nt. 29) 88-892.
[49] Anchessa, secondo la tradizione ebraica, ricevuta da Mosè sul monte Sinai. Cfr. in proposito A. Cohen, Il Talmud, Roma 1935 (rist. Bari-Roma 1999) 185 e sg. e, più recentemente, A.R.C. Leaney, The Jewish and Christian World. 200 BC to AD 200, [Cambridge Commentaries on Writings of the Jewish and Christian World 200 BC to AD 200, 7] Cambridge 1984, in partic. 187 e sgg.
[50] Così soprattutto N. Smits, Mosaicarum et Romanarum legum collatio, Haarlem 1934 182 e sg. e, più recentemente, anche P.E. Pieler, Lex Christiana, in Akten des 26. Rechtshistorikertages (Frankfurt a.M. 22-26.9.1986) [Ius Commune Sonderhefte, 30] Frankfurt a. M. 1987, 495 e sg. Anche la circostanza della sistematica sostituzione del termine sinagoga tutte le volte che questo comparisse nei testi della Bibbia citati circostanza già notata dal Volterra (nt. 25; 82-84) e da lui considerata quale ulteriore argomento a favore della paternità ebraica mi pare in realtà più facilmente spiegabile pensando a un autore cristiano.
[51] Gli esempi riportati dal Cohen (nt. 49; 186) chiariscono anzi come proprio nelle conversazioni con non ebrei i rabbini si fermassero a sottolineare limportanza della Torah orale.
[52] Si tratta di Coll. 5.3 ove è appunto riportata una costituzione di Teodosio I del 390.
[53] Cfr. p. es. Volterra (nt. 25) 97 e sgg. Il tentativo più serio in questo senso mi senbra quello condotto da A. Masi (Contributi alla datazione della Collatio legum Mosaicarum et Romanarum, in BIDR 64 [1961] 285-321). Sul punto, diffusamente, Liebs (nt. 24) 165 e sgg.
[54] Questa tesi fatta propria tra gli altri dallo Hyamson (Mosaicarum et Romananrum legum Collatio with introduction, facsimile and transcription of the Berlin Code, translation notes and appaendices, Oxford 1913) e ripresa più di recente dal Lauria (nt. 47; 258) e dal Liebs (nt. 24; 170) si fonda tuttavia principalmente su un unico passo (Coll. 7.1.1: scitote, iuris consulti, quia Moyses prius hoc statuit ). Tale passo potrebbe effettivamente essere come suggerisce il Pieler (nt. 50; 496 e sg.) una glossa (a Coll. 7.3.2) fatta successivamente scivolare nel testo. Occorre tuttavia tener presente che essa, in fondo, non fa che ribadire una convizione spesso ripetuta nelle opere patristiche (cfr. p. es. Tertullianus, Apolog., 45.4: ipsas leges quoque vestras de divina lege, ut antiquiore, formam mutuatas. Diximus iam de Moysi aetate) e che potrebbe esser stata tranquillamente indirizzata anche a giureconsulti di fede cristiana, magari per blandire il loro orgoglio religioso che poteva anche smarrirsi proprio nel confronto tra la scarna normativa mosaica e le norme romane di livello tecnico indiscutibilmente superiore.
[55] Cfr. Schrage (nt. 25) 344 e sg. e Cortese (nt. 1) II, 13. Il Pieler (nt. 50; 498), da parte sua, aveva già ipotizzato che lautore della Collatio potesse avere avuto in mente di integrare il diritto romano nel cristianesimo.
[56] Ad Galat., 3.19.
[57] Non veni destruere legem neque prophetas, sed adimplere (Math. 5.17). Cfr. anche Paolo, Ad Rom., 3.31 e 10.4.
[58] Didascalia Apostolorum (ed. F.X. Funk, Didascalia et constitutiones apostolorum, I, Paderborn 1905) 6.6.9: Lex autem est, quae locutus est Dominus Deus, antequam populus vitulum faceret et ad idolatriam convertetur, id est decalogus et iudicia; cfr. inoltre 6.15.2 e sgg. ( Lex ergo est indestructibilis, secundatio autem legis temporalis ) e ancóra 6.16.2 e 6.17-18.
[59] Si vedano in proposito anche gli esempî riprodotti dal Lauria (nt. 47) 265 e sgg. (particolarmente significativa liconografia: ivi, 271-273).
[60]
Decr., Dictum post I.6.3.
[61] Su ciò, recentemente, G. Vismara, La giurisdizione civile dei vescovi, Milano 1995, 3-34 e O. Condorelli, Ordinare Iudicare. Ricerche sulle potestà dei vescovi nella Chiesa antica e altomedievale (secoli II-IX), Roma 1997, 45-83. Utile anche L.I. Scipioni, Vescovo e popolo. Lesercizio dellautorità nella chiesa primitiva (III secolo), [Vita e pensiero. Pubbl. dellUniv. Cattolica del S.C. Scienze religiose, 3] Milano 1977.
[62] Così in partic. Didasc. 6.16.1. Il compito di leggere il vecchio Testamento alla luce del messaggio evangelico e al contempo di istruire i vescovi circa la sua utilizzazione nella pratica giudiziaria è proprio fra quelli che lignoto autore della Didascalia assume su di sé; cfr. Scipioni (nt. 61) 202 e sgg.
[63]
Val la pena di rileggere questo passo che mi sembra sinora
trascurato dalla storiografia (Didasc. 6.19.1-2):
Dominus vero noster et salvator veniens et similitudines
implevit et parabolas ostendit, et ea, quae salvant, docuit, et
ae, quae nihil iuvant, destruxit, et ea, quae non salvant,
solvit, non solum per semet ipsum docens, set et per Romanos
inspirans
Nam et Romani lege utuntur, secundationem autem
praetermiserunt, propterea et <eorum imperium> confirmatum
est. Tu autem, si hodie sub secundationes desideras esse Romanis
imperantibus, quae sunt secundationis facere non potes: neque
enim lapidare malignos neque interficere idolatras neque
ministeria sacrificiorum facere
.
[64] Il passo riportato è preceduto dalle seguenti parole: Secundatio enim destructa est, lex autem confirmata est, et qui volunt esse sine lege, inviti sub lege sint.
[65] Per Ambrogio si può rinviare a questo proposito allepisodio del processo alla vergine Indicia da lui stesso didascalicamente riferito in due epistole del 380 (cfr., da ultimo, L. Loschiavo, Tra legge mosaica e diritto romano, in A Ennio Cortese, Roma 2001, II, 269-284). Relativamente al vescovo africano (v. anche infra nt. 76) può invece ricordarsi in particolare lepistola 24 (su cui C. Lepelley, Liberté, colonat, esclavage daprès la lettre 24: la jurisdiction épiscopale de liberali causa, in Les lettres de Saint Augustin découvertes par J. Divjak (Colloque des 20-21.9.1982), Paris 1983, 329-342). Cfr. inoltre Vismara [61] 59-82 (per Ambrogio) e 97-128 (per Agostino).
[66] Ai lavori già precedentemente citati (nt. 61) del Vismara (197 e sgg.) e di Condorelli 1997 p. 107 e sgg.), devono aggiungersi W. Hartmann, Der Bischof als Richter. Zum geistlichen Gericht über kriminelle Vergehen von Laien im früheren Mittelalter (6.-11. Jahrhundert), in Römische historische Mitteilungen, 28 (1986) 103-124 (trad. ita. in Rivista di storia della Chiesa in Italia, 40.2 [1986] 320-341) e J. Gaudemet, Église et Cité. Histoire du droit canonique, Paris 1994, 190 e sgg. (trad. ita. Storia del diritto canonico. Ecclesia et Civitas, Cinisello Balsamo 1998, 219 e sgg.).
[67] Ed. MGH, Capitularia, I 170, 33 e sgg. (c. 1): Ut episcopi circumeant parrochias sibi commissas et ibi inquirendi studium habeant de incestu, de patricidiis, fratricidiis, adulteriis, cenodoxiis et alia mala quae contraria sunt Deo, quae in sacris scripturis leguntur quae christiani devitare debent; testo citato da Hartmann (66) 109 (trad. ita., 326).
[68] In proposito, cfr. C. Soliva, Zu den Capitula des Bischofs Remedius von Chur aus den beginnenden 9. Jahrhundert, in C. Schott C. Soliva curr., Nit anders denn liebs und guets, Sigmaringen 1986, 167-172. Si può osservare come il breve testo che Remedio (c. 12 in fi.) raccomanda esplicitamente al suo clero di portare sempre con sé e di leggere pubblicamente almeno due volte al mese ci sia stato trasmesso da un manoscritto degli inizî del IX sec. il quale contiene, oltre alla Lex Romana Curiensis di cui costituisce una sòrta di appendice, anche lEpitome Iuliani (v. infra). Oltre che alledizione per i Monumenta curata da K. Zeumer (MGH, Leges, V, 449 e sgg.) si può fare riferimento a quella successivamente approntata da E. Meyer-Marthaler (Die Rechtsquellen des Kantons Graubünden, I, Lex Romana Curiensis, Aarau 1959, 645 e sgg.). Alla studiosa svizzera si deve anche il contributo sinora più approfondito su questo testo: Die Gesetze des Bischofs Remedius von Chur, in Zeitschr. f. Schweiz. Kirchengeschichte 44 (1950), 81-110 e 161-188 (per la corrispondenza alla legislazione carolingia dell802, ivi 92).
[69] Sia i più antichi testimoni manoscritti sia le più antiche citazioni rimandano infatti alletà carolingia o immediatamente post-carolingia; cfr. supra, **.
[70] Si può osservare come in due manoscritti su tre, lelenco dei capitoli in essi contenuti prosegue senza distinzione trascorrendo da quelli dellEpitome a quelli della Lex Dei.
[71] Conrat (nt. 29) 87 e sg. e 129 e sg.; Nelson / Manthe (nt. 36) 9 e 14; Siems (nt. 21) 177 e sg..
[72] In proprosito si veda ora soprattutto Cortese (nt. 1) I, 245-247.
[73] Si tratta di un piccolo repertorio di passi giustinianei indubbiamente rivolto alla prassi forense e a quella del foro episcopale in particolare. E edito in Hänel (nt. 38) 198-201. Oltre a Hänel, ivi, xlix e sg., cfr. Conrat (nt. 29) 137-140.
[74] Su di esso v. soprattutto E. Cortese, Lex, aequitas, utrumque ius nella prima civilistica, in Lex et iustitia nellutrumque ius: radici antiche e prospettive attuali, Atti VII coll. intern. romanistico-canonistico, 12-14.5.1988, Città del Vaticano 1989, 95-119 (= Id., Scritti, II, 1019-1043) e, inoltre, Id. (nt. 1) I, 387 e II 57e sg. e 80 e sg.
[75] Attaccatissima allEpitome Iuliani, tanto non solo da preservarne il testo dalloblío ma da promuoverne anche la diffusione oltralpe, fu, comè noto la Chiesa (cfr. Cortese [nt.1] I, 242 e sgg., partic. 24394 e 245102). Un simile interesse aveva ragioni in pari tempo pratiche e ideologiche. Certamentele le Novellae giustinianee, disciplinando numerosi aspetti secolari della vita della Chiesa stessa, si presentavano come un prezioso strumento normativo in sé. Le molte disposizioni novellari sullordinamento dei chierici, sui monaci, su nosocomi e orfanotrofi, sul matrimonio potevano contemporaneamente servire come ottimi esempî da additare ai sovrani carolingi e poi sassoni per stimolarne lemulazione. Può essere utile, a questo proposito, ricordare come ricorra spesso nella tradizione altomedievale dellEpitome o meglio delle serie di excerpta di capitoli dellEpitome laccenno a una pretesa collaborazione del clero alla attività normativa di Giustiniano: cfr. Patetta (nt. 35) 12. Un significativo riscontro nei capitularia carolingi si può ritrovare nella rubrica del c. 96 (aa. 782-810; ed. A. Boretius V. Krause, in MGH, Legum sectio II. Capitularia regum Francorum, I, Hannoverae 1883): Capitula cum Italiae episcopis deliberata.
[76] Incmaro propugna ripetutamente nei suoi scritti lopportunità per la Chiesa di tener conto della normativa laica. Addirittura ripropone una opinione di Agostino circa la perdurante validità di quelle leggi romane che, pur anteriori alla venuta di Cristo, possono nondimeno dirsi ispirate da Dio (PL 125, 1015): De legibus a quibusdam imperatoribus male constitutis, a quibusdam vero bene constitutis, sanctus Augustinus ad Bonifacium dicit: Imperatores quando pro falsitate contra veritatem constituunt malas leges, probantur bene credentes et coronantur perseverantes. Quando autem pro veritate contra falsitatem constituunt bonas leges, terrentur saevientes et corriguntur intellegentes; cfr. J. Devisse, Hincmar, Archevêque de Reims: 845-882, I, Geneve 1975, 422 e sgg. e 549 e sgg. (partic. 552463) e inoltre J. Lortz, Storia della Chiesa, trad. ita., Cinisello Balsamo 1992, I, 350 e sg. e Gaudemet (nt. 66) 173 e sg. (trad. ita. 203 e sg.).
[77] O. Capitani, Storia dellItalia medievale: 410-1216, Bari-Roma 1986, 237-251.
[78] Cfr. supra, nt. 31 (e ivi partic. Fournier, 2773).
[79] Capitani (nt. 76) 334 e sgg.
[80] Che Pepo fosse un ecclesiastico sembra probabile al Cortese (nt. 1; II, 43-45) il quale nemmeno respinge del tutto la ardita identificazione col vescovo scismatico bolognese Pietro (1085-1096) suggerita alcuni anni fa dal Fiorelli sulla base di un racconto dellumanista Sigismondo Ticci (P. Fiorelli, Clarum Bononiensium Lumen, in Per Francesco Calasso. Studi degli allievi, Roma 1978, 415-459).
Qui, in aggiunta, si può segnalare limpressionante corrispondenza tra i contenuti dellintervento peponiano al placito lombardo e un passo famoso del De ordine palatii scritto quasi duecento anni prima da Incmaro (cap. 21): Comites autem palatii inter caetera paene innumerabilia in hoc maxime sollicitudo erat, ut omnes contentiones legales, quae alibi ortae propter aequitatis iudicium palatium aggrediebantur, iuste ac rationabiliter determinaret seu perverse iudicata ad aequitatis tramitem reduceret, ut et coram Deo propter iustitiam et coram hominibus propter legum observationem cunctis placeret. Si quid vero tale esset, quod leges mundanae hoc in suis diffinitionibus statutum non haberent aut secundum gentilium consuetudinem crudelius sancitum esset, quam christianitatis rectitudo vel sancta auctoritas merito non consentiret, hoc ad regis moderationem perduceretur, ut ipse cum his, qui utramque legem nossent et Dei magis quam humanarum legum statuta metuerent, ita decerneret, ita stetueret, ut, ubi utrumque servari posset, utrumque servaretur, sin autem, lex saeculi merito comprimeretur, iustitia Dei conservaretur (MGH, Fontes iuris Germanici antiqui, 3, Hannoverae 1980, ***).