Pace e transazione nella storia del processo criminale.

Il caso toscano nell’età moderna.

 

di Daniele Edigati

edigatidaniele@virgilio.it

 

 

 

1. Cenni introduttivi e stato della storiografia.

E’ più che noto come i pensatori illuministi e i propugnatori – nonché gli estensori – dei primi codici penali abbiano trovato nella transazione tra privati uno degli possibili fattori d’impunità del colpevole (specialmente per i reati minori) ed uno degli elementi più fastidiosi da scardinare per garantire un’efficiente amministrazione della giustizia criminale, basata sulla certezza assoluta della pena[1]. Ciò in parte spiega il prolungato silenzio e lo scarso interesse della storiografia giuridica, che ancora ad inizio secolo dedicava al tema sporadici cenni[2] e con una visione riduttiva qualificava la pace privata come “avanzo del sistema della privata vendetta”[3] o quale espediente teso a “mantenere al reato un carattere privato”[4].

Lo studio del fenomeno poté riaprirsi sotto un’altra veste, solo allorché esso fu toccato nel bel mezzo dei dibattiti successivi alla promulgazione del codice ‘Zanardelli’, coinvolgenti due istituti, ossia quello del così detto ‘pentimento’ o ‘ravvedimento’ operoso[5] e quello della remissione[6]. Del resto, si parla di un fenomeno dotato di un duplice aspetto: da un lato, uno interiore, legato alla sfera intima ed alla coscienza personale, dall’altro uno esteriore, che si sostanzia in un atto che può celare o meno un accordo tra i contendenti.

Così, in pieno fascismo crebbe l’interesse alla tematica, nell’ambito dello scontro verificatosi tra la consolidata dottrina, che riproponeva tesi retribuzionistiche, e la nuova corrente della scuola positiva, rappresentata dal Ferri, che vedeva nella pericolosità il fondamento esclusivo della responsabilità penale e, quindi, nel pentimento un indizio non indifferente della scarsità della minaccia proveniente dall’individuo[7].

D’altro canto, si approfondirono le radici e le origini della remissione, che il Manzini ritenne non esser rinvenibili nel diritto romano, bensì nel “diritto statutario italiano (…) esentando dalla persecuzione penale o dalla pena i rei che si fossero riconciliati con gli offesi entro un certo termine”[8], segnalando la ancor maggiore affinità al moderno concetto delle parole pronunciate da certi scrittori del XVI secolo come Giulio Claro[9].

Furono proprio gli studi di studi di Manzini, ma ancor più di Tancredi Gatti[10] a rispolverare i gloriosi precedenti degli attuali istituti codicistici, come pure delle stesse misure di sicurezza, individuabili nella storia del diritto patrio, prima tra tutte la ‘cautio de non offendendo’.

Ben diversa è l’attenzione rivolta al tema dalla recente storiografia, sia giuridica che storico-sociale, che oltre a riscoprirne ambiti e modalità applicative nel periodo di maggior proliferazione – l’età medievale[11] –, ha ravvisato un’inaspettata floridezza delle ‘paci’ altresì durante l’intera epoca d’Ancien Régime[12]. La frequenza e la centralità delle transazioni giudiziali nell’esperienza giuridica medievale ha indotto a concettualizzare l’esistenza di un «infrajudiciaire»[13] e di una vera e propria «giustizia negoziata», che nell’epoca dell’assolutismo fu affiancata – ma giammai esautorata – da una «giustizia egemonica» d’apparato[14]. Così, si è potuto distinguere più opportunamente la ratio dell’elevato spazio concesso alla pace da parte degli ordinamenti processuali: non trattavasi di un quid accettato in quanto sintomo della ridotta potenzialità di pericolo insita nell’offensore, ma di una conseguenza dell’adozione di un tipo di giustizia – indipendentemente dal modello inquisitorio o accusatorio – nel quale si ricercava in primis la concordia delle parti e la pacificazione sociale[15]. Com’è stato opportunamente sottolineato da Andrea Zorzi, la composizione privata ed il ricorso processuale non erano percepiti in “un’elidente concorrenza”, ma come “un insieme coerente di possibilità diverse entro cui cambiare e disegnare le singole strategie giudiziarie”[16].

A dire il vero, l’argomento è oggi al centro di un forte interesse anche per le sue implicazioni religiose, antropologiche e soprattutto sociali[17], connesse alla polisemia del termine e del concetto giuridico ‘pace’, dato di cui converrà prontamente discorrere.

 

2. Polisemia di un termine e di un concetto giuridico. Delimitazione dell’indagine.

Il miglior approccio ad uno studio sulla pace è quello che muova dagli aspetti semantici e linguistici e conseguentemente premetta l’intrinseca polisemia del termine ed il suo appartenere ad una pluralità di contesti differenti[18]. Ciò si rispecchia in primis nelle stesse opere dei giuristi e nelle definizioni che essi si sforzano di elaborare.

Un buon esempio è fornito dalle Practicae conclusiones di Domenico Toschi, un vastissimo repertorio latino di inizio Seicento, che inizia col definire la pace come “remissio iniuriae”, per poi rappresentarla come “discordiae finis”, “pax tranquilla libertas, vel animi tranquillitas”, “finis et sedatio discordiae”, ma “stricti iuris” essa era anche “sicut contractus transactionis” e nondimeno “est de iure gentium” e “res est dimessa nobis a Christo in ultimo suo Testamento”[19].

Tutte queste aree semantiche, lungi dall’esser disgiunte, erano percepite anzi, dagli stessi giuristi, come strettamente connesse l’un l’altra, sicché le radici teologiche e religiose della pace si riversavano sui suoi significati sociali, civili e giuridici. La pace a livello internazionale e, restringendo sempre più il raggio, all’interno della civitas o della Res publica, nonché infine quella tra singole famiglie od individui[20], avevano caratteri comuni, implicazioni trasversali e un’unica matrice nel concetto cristiano di pace interiore. Non deve meravigliare perciò che la Practica di Giulio Claro indugi sull’importanza della pace esteriore ai fini del foro di coscienza[21] o che il suo annotatore Baiardi dedichi spazio alla condizione morale di chi nega la pace all’avversario[22].

In questa sede, punteremo l’attenzione ovviamente non sulle così dette ‘paci pubbliche’, cioè i patti “conclusi tra un’autorità pubblica (…) ed uno o più privati”[23], che tendevano a riportare la concordia sociale tra fazioni in lotta, oligarchie o consorterie, per il potere e l’egemonia sociale, bensì sui limiti dell’incidenza della pace ‘privata’ sul processo criminale nonché sulla punizione del colpevole.

Per raggiungere l’obiettivo, è d’uopo concentrarsi su che cosa si intendesse per ‘pace’, giacché anche in questo nucleo semantico più ristretto possono confondersi concetti ben diversi.

La vera e propria ‘pace privata’ non era equivalente alla composizione, poiché in quest’ultima uno dei due soggetti era pubblico e si identificava nel fisco. Come scriveva Sebastiano Guazzini, la compositio era “conventionem cum Praeside factam ex causa lite pendente de dubio criminis statu, de solvendo fisco certam pecuniam ad redimendam litis vexationem, parte concordata”[24]. Era un compromesso cui gli ufficiali pubblici ricorrevano sovente per garantire un sollecito versamento almeno di una porzione della pena nelle casse dell’erario.

Vedremo nel prosieguo come un’altra distinzione fosse quella tra pace e mera remissione delle ingiurie, diversificate stavolta non per la natura delle parti coinvolte, ma sia relativamente agli effetti giuridici che da esse scaturivano, sia sul piano della loro prova.

La remissione, del resto, così come la rinuncia a proseguire l’azione, era atto di carattere unilaterale, non contrattuale e bilaterale[25]. Esso forse poteva celare un accordo informale tra i litiganti, avvenuto in sede extraprocessuale, ma che per l’appunto non appariva come tale nella vicenda giudiziaria. La pace era invece un contratto (“pax non est aliud quam capitula pacis”[26]), prodotto o quantomeno provato in giudizio e che pertanto travalicava il mero perdono, anche se di esso spesso si sostanziava. Vi era chi, come Pietro Cavallo, proprio potenziando questo aspetto ‘interiore’ della pace, non la reputava accomunabile alla transazione, perché questa era una “res dubia, et lite incerta ad impediendum processum”, mentre la prima valeva a rimettere “rancor, et malevolentia, quae est in animo iniuriati”[27]. E tuttavia la pace non necessitava ad validitatem di un perdono sincero ed anzi nella prassi essa veniva elargita, in larga parte dei casi, per puro interesse economico, familiare o sociale.

La tregua a prima vista era assimilabile alla pace ma, oltre alla temporaneità, si differenziava proprio per la mancanza degli effetti che a quest’ultima l’ordinamento faceva discendere. La medesima affermazione valeva anche per il termine concordia, perché i doctores sostenevano che “pax denotat perpetuam remissionem concordia etiam potest esse ad tempus” e che “propterea statutum de pace non habet locum in concordia”[28]. Infine, come ha opportunamente scritto Tavilla, la cautio de non offendendo, pur con “obiettivi similari” era “un provvedimento provvisorio del giudice emesso su istanza di parte e impositivo di una garanzia” a carico di un soggetto stimato pericoloso[29].

Precisato tutto ciò, è nostro obiettivo partire dal punto di vista interno di un determinato ordinamento giuridico – quello toscano –, cogliendolo nel momento di affermazione e consolidamento di una struttura statuale ‘moderna’. Ferma restando, infatti, la diffusione del fenomeno della pace nell’età medievale, diverse sono state le conclusioni degli studiosi a proposito della sua evoluzione nel periodo degli stati regionali: se le ricerche di Ottavia Niccoli hanno potuto dimostrare come a Bologna addirittura nel 1603 si specificò che le ‘paci’ dovevano esser redatte dal capo notaio del tribunale del Torrone[30] – e non più dal notaio civile –, che dal 1606 fu creato un apposito registro per documentarle e che nel 1658[31] fu persino istituita una Assunteria di Paci – vale a dire un consesso di senatori preposti alla regolamentazione dell’istituto –, Padoa Schioppa ha concluso le proprie indagini milanesi asserendo che “la transizione all’età dell’assolutismo (…) condusse ad una restrizione ulteriore del raggio di applicazione della pace privata, ormai legislativamente limitata ai reati minori”[32] e Carmelo Tavilla ha evidenziato come nel Ducato estense già agli inizi del Seicento “gli strumenti della faida e dell’eventuale pacificazione furono progressivamente sostituiti da quelli più tecnicamente giuridici del ricorso agli organi centrali del duca”[33].

Soprattutto, resta da appurare non solamente la reale dimensione quantitativa del ricorso alla pace in rapporto al complessivo carico pendente con puntuali statistiche quali quelle effettuate da Vallerani a Perugia, quanto pure – ed è questa seconda strada che qui intendiamo calcare – la minuziosa disciplina con cui l’istituto era regolato nei risvolti socio-istituzionali di uno Ständestaat. In questa direzione vorremmo muoverci, fissando il nostro centro d’interesse nella Toscana in età moderna e in particolare tra le carte degli organi giurisdizionali preposti al livello più elevato del governo della giustizia criminale, ossia il magistrato degli Otto di guardia e balia[34] per un verso e l’auditore e la camera fiscale per l’altro.

 

3. In Toscana: dall’epoca repubblicana al periodo cosimiano.

L’elaborazione concettuale di Tancredi Gatti incasellò la pace privata nella ‘teoria del ravvedimento’[35], come uno degli aspetti in cui esso si manifestava. Questa impostazione, che da un lato peccava di storicità, attribuendo alla dottrina medievale categorie dogmatiche che essa era ben lungi dall’aver fissato, gli permise tuttavia di accomunare efficacemente la pace alla stessa confessione, quale circostanza diminuente della pena.

In effetti, così come nel panorama europeo – sebbene con qualche eccezione[36] –, anche in Toscana[37] confessione e pace non assursero, almeno a partire dal tardo Medioevo, a cause estintive del reato o comunque a cause di improcedibilità, con effetti immediati sulla vicenda processuale concreta, bensì a beneficia che per disposizioni statutarie consentivano al giudice di attribuire al reo degli sconti di pena. La pax ebbe in più un altro ambito di applicazione nell’elargizione delle grazie.

Fu soprattutto la magistratura degli Otto di guardia, incoraggiata dal favore mostrato fin negli statuti fiorentini del 1325 per la promozione di patti tra i contendenti[38], ad adottare nel Quattrocento una procedura flessibile, aperta alla mediazione, alla conciliazione al fine anche di prevenire il reato[39], che si andò accompagnando, in età laurenziana, ad “una politica penale mirata, attenta a bilanciare l’esteso ricorso a pene pecuniarie con la funzione parenetica delle pene corporali”[40].

A livello normativo, il primo libro degli statuti fiorentini del 1415, alla rubrica LI[41], concedeva il beneficio del quarto della pena pecuniaria ai condannati che si fossero procurati la pace dell’offeso, con l’eccezione di alcuni delitti di carattere politico (dalle cospirazioni alla falsificazione di monete), di altri particolarmente nocivi all’ordine pubblico – come le grassazioni, gli stupri violenti, la sodomia o l’incesto – oppure aggravati da premeditazione. Questa norma venne però corretta solo pochi anni dopo, dalla legge Cum fuerit assertum del 1 ottobre 1423[42], che estese l’efficacia diminuente alla metà della pena prevista.

Occorre però tener presente che, in una distinta rubrica degli statuti[43], si delineava una ipotesi di estinzione del reato – ma si parla di offese non gravi, punite con una pena che va dalle 50 alle 200 libre – a vantaggio di chi fosse in grado di produrre in giudizio l’istrumento di pace, versando al contempo una gabella di 40 soldi al comune di Firenze, imprescindibile dato il divieto per il giudice di ammettere la pace “nisi soluta fuerit”.

Nel 1476 intervenne una provvisione, che sarà due secoli dopo ricordata nella Pratica del Savelli[44], per dare criteri per l’individuazione del soggetto legittimato a concedere la pace. Uno sforzo essenziale nella focalizzazione dell’iter procedimentale e dei giudici competenti per la cognizione delle cause di ‘rottura’ della pace si concentrò, con due nuove provvisioni, nel 1513 e poi nel 1514[45], quando si ebbero modifiche sensibili della prima normativa, sulle quali vale la pena di indugiare per un istante. La prima, del 21 giugno 1513, prevedeva che, una volta introdotta la causa davanti agli Otto di guardia e balia o ad un rettore, notificata all’accusato e raccolte le scritture ed i nomi dei testimoni da escutere, tutto il fascicolo sarebbe passato nelle mani dei Tre Giudici del Consiglio di giustizia – la futura Ruota civile –, che avrebbe provveduto all’esame dei testi e quindi a rilasciare a maggioranza assoluta, entro 40 giorni dall’arrivo dell’incartamento, un consilium vincolante (ad validitatem) scritto e sigillato al giudice originario. Non banale era la prescrizione per cui si sarebbe proceduto “de plano, e senza strepito, o figura di giudizio, et ogni solennità di ragione, e di statuti al tutto omessa”. Quanto possa esser ingannevole questa clausola[46], attributiva di un pressoché illimitato arbitrio, è palmare ad un primo sguardo sugli effetti da essa scaturiti: lo studioso pronosticherebbe uno sveltimento delle pratiche di giustizia, cosa tradita dai fatti, se è vero che un solo anno dopo già ci si lamentava che le parti si trovavano in stato di “impotentia et disagio”, che si erano innescate “infinite cavillationi de defensori”, tanto che le vittime sceglievano spesso di tollerare le ingiurie ed il danno subito prima di intentare una causa.

Fu questo il motivo per cui nel 1514 si tornò “al modo et ordine antico, lunghissimo tempo osservato” e la competenza fu affidata nuovamente ed interamente ad Otto di guardia e rettori. La nuova regolamentazione si distinse per l’accentramento delle formalità al principio della causa: la querela doveva essere data in scriptis, quindi seguivano ben tre citazioni sia delle parti, che dei loro mallevadori. Per converso, il giudice avrebbe avuto solo quaranta giorni per concludere a far data dalla prima citazione e trenta nell’evenienza di successione del rettore a livello locale[47].

Sempre nel 1514 fu istituito un registro di paci e tregue, con tanto di nominativi delle parti e dei loro mallevadori, da conservare obbligatoriamente presso le corti inferiori.

Instaurato il principato, Cosimo I, nell’ambito della serie di riforme sulla giustizia che perseguì tramite una vasta produzione di provvisioni e leggi[48], si occupò anche del beneficio della pace. Dopo che gli Otto di pratica e gli Otto di guardia nel 1547 ebbero statuito l’onere di rogare gli ‘instrumenti’ di pace da parte dei ministri dei rettori “per essere cose, dove è l’interesse del fisco”[49], si notò altresì, sempre tra i tribunali del territorio, una certa disomogeneità nella decurtazione delle pene. In altre parole, si era creata un’ampia discrezionalità nella concessione o meno dello sconto di pena legato all’accordo tra le parti, elemento che impensieriva il duca, il quale intendeva fugare il rischio che la remissione potesse rendere i sudditi proclivi alla criminalità.

A questo scopo, la legge del 8 agosto 1548[50] ristabiliva la validità della norma statutaria, riportando la riduzione della pena pecuniaria al quarto, e riaffermava la tassatività dei casi applicativi in essa previsti, individuando infine i soggetti legittimati ad accordare la pace. Cosimo doveva però specificare che la nuova legislazione non ledeva i privilegi[51] che lui stesso aveva concesso pochi mesi addietro ai così detti ‘descritti’ nelle bande ducali. Nella deliberazione del 26 marzo 1546, infatti, il sovrano mediceo aveva rinnovato – altresì per le sue milizie – il beneficio del quarto per i confessi, ma aveva elevato quello per la pace alla metà; non solo, perché le chances di usufruire di tal privilegio si incrementavano con l’estensione dell’arco temporale in cui era ammessa la proficua produzione della pace, ora non unicamente prima della condanna, bensì anche nel mese successivo alla di essa notificazione od anche in seguito, nei luoghi in cui ciò fosse disposto da diversi ordini[52].

Nel complesso, sebbene si avverte un certo mutamento e l’emersione di un concetto di giustizia differente, basato sulla necessità della repressione pubblica del reato, di fatto le mire del Principe non erano certo quelle di escludere in radice una composizione amichevole tra le parti, quanto piuttosto quelle – più conformi al suo piano complessivo d’azione – di uniformare, per quanto possibile, il diritto sul territorio. In questo quadro, pertanto, eventuali difformità di trattamento connesse allo status personale (si veda appunto il caso delle Bande, delle quali comunque aveva istituito una sovrintendenza centralizzata) potevano esser benissimo concepite. Non solo, il Principe aveva acutamente intravisto nelle Bande un fattore determinante nel quadro del processo di creazione del nascente stato toscano, di cui procacciarsi benevolmente i favori.

Non era una novità, perché esistevano altri esempi di concessioni di un ventaglio di prerogative nei più svariati settori giuridici, dalla tassazione all’esecuzione delle sentenze. Basti ricordare lo stato pontificio, nel quale erano stati promulgati dei privilegi, tra cui non mancava quello della pace, per i crimini previsti espressamente (in particolare per le risse), per i quali avendo il milite raggiunto un accordo compositivo con l’offeso entro tre giorni dal fatto di reato, si sarebbe avuto il non luogo a procedere[53].

I nuovi ‘Capitoli della milizia’ emanati nel 1555[54] non fecero che confermare quanto statuito sette anni prima, limitandosi ad aggiungere che la decurtazione della pena non avrebbe dovuto raggiungere “maggior ratha quando che se li dovesse (…) far maggior diminutione in virtù di qual si voglia statuto o legge municipale”. Già di per sé, questo contribuisce a testimoniare una qualche confusione nella quotidiana amministrazione della giustizia, sicuramente acuita da un elevato ricorso alla pace, dato avvalorato altresì dalla prassi ed in particolare da alcune lettere degli auditori delle Bande ai rettori, nelle quali essi definivano alcuni punti problematici della disciplina.

Basti citare una lettera dell’auditore Francesco Torelli al commissario di Borgo San Sepolcro del 1 giugno 1557, con cui si chiariva che il beneficio della pace competeva anche ai non descritti o in un’altra del medesimo, di un mese più tarda, nella quale scriveva che lo sconto aveva luogo in riguardo a qualsiasi tipo di pena, bastando semplicemente che la pace apparisse da un ‘pubblico instrumento’[55].

Nel frattempo, un analogo intervento interpretativo restrittivo da parte dell’autorità centrale fu effettuato a proposito dello statuto senese nel gennaio del 1564, quando gli Ufficiali di Balia[56] dichiararono che la rubrica statutaria concedeva un beneficio di 16 soldi per lira a coloro che avessero stipulato la pace prima della querela o denuncia e di soli 6 soldi per lira nel caso in cui fosse stata rogata entro tre giorni dall’instaurazione del giudizio[57]. Del resto, la politica del primo Granduca fu quella di perseguire l’omogeneizzazione della disciplina dell’istituto nei due stati di Firenze e di Siena. Ne è prova lampante l’operazione compiuta con i provvedimenti che di lì a poco sarebbero stati pubblicati. Infatti, tra il 1568 e il 1569[58] comparvero una deliberazione ed una dichiarazione del Magistrato supremo, miranti la prima ad indurre le parti a comparire in giudizio nelle cause di paci, offese e tregue ed il secondo ad evitare l’impunità di quanti non si fossero obbligati in modo diretto alla stipula dell’accordo. In entrambi i casi, si trattava di escamotages dei contendenti da cui essi traevano non impercettibili vantaggi: la mancata comparsa, così, era indice del raggiungimento di composizioni informali extra-giudiziarie, che immancabilmente rendevano ardua, se non impossibile, la ricostruzione del fatto di reato. Nonostante ciò, l’offeso pretendeva la sua porzione di ammenda, ossia la quarta parte del totale[59], per cui sarebbe derivato uno scherno all’immagine della giustizia del Principe, incapace di far affiorare la veritas, quasi estromessa ed anzi strumentalmente utilizzata dalle parti.

Allo stesso modo, nell’altra situazione accadeva, in relazione specialmente alle faide tra gruppi familiari o clientelari, che molti di coloro che erano coinvolti non sottoscrivessero l’accordo, ma vi aderissero, godendo dei benefici di esso, senza essere tenuti nell’ipotesi in cui avessero violato la pace o la tregua, restando la responsabilità in solido in capo agli obbligati principali. Per ovviare, il Granduca ordinò che d’ora innanzi essi dovessero versare la pena prevista per la ‘rottura’ della pace senza diritto di regresso nei confronti degli obbligati principali, mantenendo comunque viva per fisco ed offeso la facoltà di rifarsi verso questi ultimi ed i loro mallevadori[60].

Entrambe le disposizioni, fuse assieme ma con il medesimo tenore, vennero estese al territorio dello stato senese con una legge del febbraio 1577[61]. A Siena, peraltro, l’ultima versione ‘repubblicana’ dello statuto, quella del 1545, dava notevole spazio alla composizione permettendo, in relazione ad un nebuloso complesso di crimini, genericamente individuato con l’endiadi ‘maleficia vel iniuriae’ – dal quale era però espressamente escluso l’omicidio –, finanche l’improcedibilità quando la pace fosse stata stipulata prima della querela, mentre ove fosse stata ottenuta entro il terzo giorno dall’accusa, denuncia od inquisizione, la pena si sarebbe dimezzata[62].

Quale fosse stato il reale risultato del tentativo di uniformazione dei complessi statutari territoriali può esser difficilmente esser chiarito, se non attraverso una lunga indagine sulle nuove redazioni degli statuti, approvate dalla Pratica segreta nel secondo Cinquecento e rimaste per lo più manoscritte, ma a noi basti rilevare che l’edizione a stampa dello statuto di Arezzo del 1580 prevede ad esempio la riduzione della metà – e non del quarto – della pena[63] e che la peraltro non troppo diffusa opera del sangimignanese Giulio Nori del 1578 testimoniava che “pace in alcuni luoghi sbatte il mezzo, e in alcuni piu, ò meno secondo gli statuti del luogo fra il termine in quelli prefisso”[64].

Come si può constatare facilmente, tuttavia, le varie fonti non fornivano una regolazione attenta ed esauriente dell’istituto. Questa si formò alluvionalmente, grazie ad un fitto flusso di pronunce della prassi forense e curiale, che lentamente ne fissò sia i lineamenti sostanziali che gli elementi accidentali, modellando una casistica pignola che nella seconda metà del secolo riceverà da Marc’Antonio Savelli una prima risistemazione organica nella voce ‘Pace’ della sua fortunata Pratica universale[65], che egli continuò ad implementare nelle successive edizioni[66].

 

3. Il Seicento: la casistica come puntello del Jurisdiktionstaat per disciplinare l’istituto.

Il ‘lungo Seicento’[67] toscano, che poi costituirà l’oggetto precipuo della presente indagine, è una valida testimonianza di come la tendenza dello stato assoluto non fosse già quella di sottrarre progressivamente campo alla mediazione privata per rafforzare la repressione pubblica, bensì quella di avocarne la regolamentazione e di inquadrare il fenomeno entro le categorie proposte dalla dottrina; processo che si inizia ad intravedere fin dall’uscita, in un primo istante – nell’ultimo quarto del Cinquecento –, della ‘Practica civilis’ di Giovan Battista Asini e quindi, ad inizio Seicento, delle celebri ‘Resolutiones criminales’ di Pietro Cavallo. Gran parte di questa azione verrà svolta però nella risoluzione di suppliche avanzate agli Otto ed alla Camera fiscale: fu infatti in questo frangente che furono chiamati ad esprimersi i principali auditori al servizio del Granduca e fu appunto qui che si dovette rispondere ai quesiti ed alle esigenze più disparate. Si consideri inoltre che recenti indagini hanno evidenziato come la corte degli Otto nel XVI secolo non solo continuò a combattere violenza e vendette incoraggiando le paci e le tregue, ma acquisì anche il potere di rivedere in appello le sentenze dei rettori per violazione delle stesse[68].

Bisogna premettere che la prima vera azione della dottrina, della consuetudo fori e degli statuti fu quella di ampliare il raggio d’azione della transazione con l’offeso. Se infatti la lex transigere del Codex giustinianeo[69] escludeva, oltre all’adulterio, i soli delitti pubblici non sanzionati con la poena sanguinis, il Claro[70] aveva chiarito che era possibile “transigere sopra ogni delitto”[71]. La suddetta edizione dello statuto aretino del 1580, che parla genericamente “de omnibus maleficiis”[72] e le testimonianze del Cavallo[73] e del Savelli fanno lecitamente supporre che a tale esito sia stato condotto anche il testo statutario fiorentino del 1415, eccettuati certamente i recidivi ed i crimina atrociora[74].

Il primo intervento del Granduca fu invece dettato dalla necessità di stabilire le modalità di prova della pace in giudizio. Gli statuti medievali avevano indicato due forme con efficacia equivalente, ovvero la “presentazione personale dell’offeso avanti al giudice e la sua dichiarazione” dell’avvenuta conciliazione e l’atto scritto in forma autentica[75].

Ben presto fu fortemente controverso in dottrina se chi volesse beneficiare dell’avvenuta pacificazione dovesse produrre l’ ‘instrumento’ pubblico, redatto e sottoscritto da notaio, oppure potesse provarla anche altrimenti. Con la concezione più rigorosa si erano schierati Giulio Claro[76] ed il suo annotatore Baiardi, Farinacci, Guazzini e Vermiglioli, mentre con quella più lassista Ottaviano Volpelli, Pietro Cavallo, Domenico Toschi[77] e soprattutto molti tra i più antichi doctores come il Tartagni, Bartolo e Baldo degli Ubaldi[78]. Tuttavia, con il passare del tempo, gli stessi Principi si erano preoccupati di dare una soluzione vincolante con la propria normativa. Come ricordava Giovanni Domenico Rainaldi, nello stato della Chiesa “bannimenta nostra dirimunt hanc quaestionem”, stabilendo la sufficienza all’uopo di una scrittura pubblica o privata, sopperibile nondimeno dalla testimonianza o da un attestato firmato di mano delle parti e da persona fededegna[79]. L’asserzione dei testi non aveva però come oggetto tanto l’atto della stipula dell’accordo, quanto un segno esteriore che lo facesse presumere in modo inoppugnabile, quale una stretta di mano, un bacio o altro gesto simile. Tale gestualità era il retaggio delle radici della pacificazione, che affondava nei rituali religiosi, come i più recenti studi hanno ben chiarito[80].

A Firenze, l’opinione di Pietro Cavallo, che pur ebbe un’autorevolezza notevole, non poté affermarsi proprio in quanto, trascorsi solo pochi anni, intervenne una pronuncia ufficiale. Nel 1607 il giurista pontremolese aveva scritto che “de iure communi” la pace si documentava per testimoni, ove non sussistesse una contraria previsione statutaria[81], ma il suo parere si poteva altresì fondare sulla lettera della rubrica 118 del terzo libro degli statuti fiorentini. Come si è detto, essa riguardava solo alcune tipologie di reato, ossia lesioni ed offese non gravissime, per le quali disponeva che, per avvalersi della pace al fine di bloccare la procedura in corso, l’offensore dovesse presentare l’atto scritto; subito dopo, però, si equiparava al documento la prova per “testes legitimos”, dando maggior rilevanza alla corresponsione della gabella alle casse fiscali[82].

Eppure, già nel dicembre 1612 un rescritto di Cosimo II, emesso a proposito di un negozio oggi andato perduto[83], aveva imposto proprio la regola diametralmente opposta: era richiesto l’atto pubblico “altrimenti ne seguirebbono inconvenienti, e disordini non piccoli”, eccetto che nei casi in cui gli statuti si accontentassero di una prova diversa. Il rescritto acquisì valenza generale per il fatto che venne copiato, senza descrizione alcuna della fattispecie che l’aveva originato (ma con un semplice rimando alla filza in cui era contenuto l’autentico) sul libro dei c.d. ‘statuti criminali della cancelleria degli Otto’[84] e per essere il tutto riportato nel 1665 sulla Pratica universale del Savelli[85]. Evidentemente, gli stessi ministri fiorentini si erano accorti che facilitare la prova della transazione avrebbe finito per determinare non solo aggravi procedurali, ma pure per spianare la strada ad accordi fraudolenti, più o meno reali e più o meno legittimi, tra le parti, sia nel corso del processo, che in seguito ad esso[86]. A spingerli fu forse altresì la dimensione ‘contrattuale’ della ‘pace’, che essi distinguevano dalla semplice riconciliazione o remissione dell’offeso che, a differenza della prima, non producevano effetti giuridici significativi. Del resto, la stessa derivazione etimologica del termine ‘pace’ dal latino pactum evocava l’esistenza di un patto espresso, per l’appunto scritto.

Questa svolta in senso restrittivo fu però attenuata da un orientamento giurisprudenziale che estese considerevolmente la possibilità di godere dello sconto di pena, sia allargandone i beneficiari, sia soprattutto dissolvendo il principio della consensualità della pace ed escludendo addirittura la necessità della stessa in molte circostanze, su cui ci soffermeremo più avanti.

Intanto, importa rimarcare come la politica del gruppo dei ‘giureconsulti di stato’[87] – che ormai aveva accentrato in sé il governo della giustizia, sottraendolo ai membri elettivi della antiche magistrature repubblicane – fu tanto rigida nei criteri di prova della pace, quanto flessibile nella dimostrazione in giudizio della sua ‘rottura’: la promozione dell’accomodamento privato delle liti andava di pari passo al favore per forme facilitate di repressione della sua violazione, quasi che le autorità pubbliche si sentissero direttamente lese da colui che aveva contravvenuto all’accordo che grazie alla loro mediazione era stato raggiunto. Sono sintomatici due negozi criminali del pieno Settecento; nel primo, del gennaio 1717[88], l’auditore delle Bande si profondeva nel confutare il disegno del commissario di Pisa, che sbrigativamente aveva condannato un tale ad un anno di confino a Volterra per percosse con violazione della pace. Non era infatti bastevole la confessione del reo circa l’avvenuta pacificazione, verificata dalle attestazioni di due testimoni fiscali, che non chiarivano comunque “in qual’forma ciò seguisse, e con quali modi”, valendo questo al massimo per far presumere una “reconciliazione, concordia, ò sia remissione d’ingiurie”. Per quest’ultima “non si ricerca patto alcuno” e, stando al Farinacci[89], si consegue “senza intervento d’ulteriore amicizia”, sicché “lo statuto, che punisce il’violatore di pace, non comprende il violatore di concordia, e remissione d’ingiurie”. Al tempo stesso, però, l’auditore deduceva che la pace non constava concludentemente solo in quanto non si aveva testimonianza che, nell’atto della riconciliazione, fosse seguito “bacio, toccamento di mano o abbracciamento”, sicché non scattava la sanzione che “di ragion comune, ò municipale” si sarebbe applicata. Nel dubbio, si doveva optare per l’esclusione della ‘frattura’ della pace, ma il processo per questo capo d’imputazione era comunque da tenersi aperto. Ne evinciamo che per la punizione del reato di trasgressione della pace si faceva largo una prova facilitata della medesima, più consona ai dettami dello ius commune.

Una soluzione analoga fu presa lo stesso giorno in relazione ad un’altra causa proveniente da Pisa: la pena non era diretta a colpire la trasgressione dell’accordo – del quale non si aveva la prova scritta –, ma finiva in sostanza per farlo, con il confino dell’inquisito[90].

Questa evoluzione, in realtà, era quasi scontata e la si comprende a fondo se si esamina il secondo negozio, risalente al 1733[91], nel quale essa si esplicita a chiare lettere. A rilasciare il parere, approvato dal magistrato degli Otto e sancito dal rescritto granducale, fu stavolta l’auditore Armaleoni. Il giureconsulto esordì sostenendo che la deposizione di tre testimoni ‘contesti’ (ossia presenti al fatto), per i quali uno o due giorni prima del reato tra inquisito ed offeso era seguita la pace, consentiva di condannare l’accusato per ‘rottura’ della pace stessa, sebbene non cristallizzata in un ‘instrumento’. Questa deduzione aveva il proprio fondamento nella problematica legge promulgata da Cosimo III nel gennaio del 1700[92], con la quale il Granduca aveva accomunato una serie di delicta piuttosto eterogenei sotto l’aspetto procedurale, disponendo espressamente l’abrogazione delle norme di diritto proprio e la recezione nell’ordinamento toscano dello ius commune, in base al quale si doveva “procedere, giudicare, e punire li rei, et inquisiti di simili delitti”, tra cui anche le ‘fratture di pace’[93]. Per quanto il bando toccasse i soli profili dell’impulso processuale e della repressione di tali figure criminose, l’Armaleoni lo interpretò come se coinvolgesse anche aspetti sostanziali, cioè di prova del fatto, per cui era scontato arguire la surrogabilità della scrittura con la testimonianza: del resto, così aveva scritto, seppur a titolo di opinione personale, un autore come Silvestro Bonfini, che non molto addietro era stato annotato dal nipote Francesco Antonio, auditore della Rota fiorentina[94].

Era l’occasione anche per fissare la pena da irrogare per la violazione della pacificazione. Non ci riferiamo alla pena così detta ‘convenzionale’, ovverosia la sanzione contrattualmente predisposta dalle parti nella scrittura di conciliazione, quanto a quella, ulteriore, applicata ex lege dall’autorità pubblica, a conferma del duplice carattere, pubblico e privato, di cui era rivestita la ‘pace’ e dell’interesse della giustizia statale a che l’accordo fosse rispettato[95].

Ebbene, l’amputazione di cui Baldo[96], Volpelli[97] e perfino Farinacci[98] avevano parlato in tempi passati era oramai desueta[99], così come la provvisione del 30 agosto del 1471, che prevedeva l’equiparazione del colpevole ad un ribelle, con conseguente incamerazione dei suoi beni[100]. Recependo una valida indicazione dai processi del 1717 – e disseppellendo un caso del 1701, peraltro non pertinente[101], – nei quali nondimeno ciò che era stato sanzionato erano le percosse e non già la ‘frattura’ della pace, ci si avviava a stabilizzare, al posto della antica pena corporale, una pena arbitraria del confino.

Nel secondo negozio del 1717 gli Otto affermarono altresì il rilevante principio per cui, in caso di rissa o di percosse reciproche, se non si fosse potuto stabilire con certezza l’identità del primo aggressore, non si sarebbe potuto condannare alcuno, né alla pena convenzionale, né a quella ‘fiscale’[102].

 

3.1.1 La pace come ‘beneficium’: i descritti nelle Bande ducali

Consideriamo dapprima l’effetto di diminuzione della pena esplicato dalla pace.

Nel Seicento si innescarono aspre contese circa il godimento del beneficio della pace da parte di certe categorie di soggetti o per determinate tipologie di pena, spiegando le quali si appalesa la fluttuazione della prassi e la difformità delle consuetudini, nonché il loro enorme ruolo nella definizione di certi puncta iuris.

Dal primo punto di vista, può apparire alquanto singolare come si dubitasse se lo sconto di pena giovasse ai non ‘descritti’ nelle milizie ducali. In effetti, nonostante che lo statuto fiorentino avesse acquisito nel tempo una efficacia suppletiva nei confronti degli statuti delle comunità soggette, divenendo un diritto comune ‘territoriale’[103], resta il fatto che in prima istanza i giudici dovevano guardare alle normative statutarie locali.

Già nel XVI secolo, come s’è potuto vedere, l’auditore Torelli doveva specificare in una lettera al commissario di Borgo San Sepolcro che il beneficio spettava anche ai descritti, segno che le corti del dominio erano orientate ad una applicazione stretta dello statuto locale e che quanto non contenuto in esso veniva considerato come implicitamente escluso.

Era l’anticamera di una disputa ben più accesa, che si sarebbe attizzata nel Seicento, per altre ragioni.

Negli anni ’30, quando ancora la carica di auditore delle Bande coincideva con quella di auditore degli Otto, più volte il suo titolare Bartolomeo Curini ebbe a riformare il disegno di svariati rettori che avevano ridotto le pene ad inquisiti non iscritti nella milizia[104]. Nel 1637, chiamato a rilasciare il suo voto in un negozio di San Giovanni, dichiarò di non comprendere il fenomeno, poiché non gli risultava “tra questi statuti della città concesso tal beneficio”[105].

Le parti si erano insomma invertite e, mentre vicari, podestà e commissari erano portati a fondere lo statuto fiorentino con quello della propria giurisdizione e a compiere una sorta di interpretazione ed applicazione ‘integrativa’ dei due corpi normativi, i magistrati della dominante si affaticavano a far osservare inflessibilmente le singole leggi particolari.

Il dato più sorprendente è un altro e si coglie soffermandosi sugli sviluppi giurisprudenziali della seconda metà del secolo. Vi fu un significativo moto verso l’unificazione del regime, non già in senso estensivo, bensì restrittivo, sicché la disciplina applicata nel territorio finì per trainare la giustizia centrale e generalizzare l’esclusione del beneficio per i sudditi non inquadrati nella milizia.

Un primo importante pronunciamento degli Otto di guardia si ebbe nel 1657 e fu suscitato da quanto scritto dall’auditore delle Bande Marcello De Pretis. Questi sostenne con baldanza che la riduzione della pena pecuniaria non era un privilegio dei descritti poiché “cosi affermano alcuni Ministri di Cancelleria nuovi, et altri che (…) si ammette a tutti, e’ cosi pare, che di ragione si possa fare, come si fa”[106]. E’ strano che il giurista pesarese, ben addentro nelle strutture giurisdizionali toscane e oramai veterano nel servizio di giudice dei militi[107], abbia sentito l’esigenza di interrogare la cancelleria – presumibilmente quella delle Bande, ma forse quella degli Otto stessi – per risolvere una fattispecie che è impensabile non avesse mai affrontato in precedenza. Certamente, il giureconsulto sembrava disorientato, forse a causa della discordanza della prassi, ma trovava una conferma del proprio intendimento nel testo di Pietro Cavallo, del quale allegava genericamente il casus 75[108]. Per la verità, lì il Cavallo aveva solo sfiorato l’argomento ed aveva peraltro utilizzato l’esempio dei milites per dimostrare come fosse giustificabile una differenza di trattamento tra i coinquisiti all’interno del medesimo processo, in base al loro status.

Il magistrato non entrò nel merito del testo delle Resolutiones, occupandosi al contrario di accertare lo stile della cancelleria e, alla fine delle proprie indagini, poté rigettare il voto del De Pretis “sentendo che per informatione de Ministri di cancelleria la pace, a non descritti non si stila admettere (…) e’ che cosi si sia praticato, e’ pratichi non sapendo, ne havendo inteso, che alcuni de Cancellieri e persone pratiche per molti anni in detta Cancelleria attesti il contrario, ne dove si cavi l’Auditore nel sudetto voto, come e da chi habbia inteso quanto dice”.

La cancelleria è sempre più il luogo nel quale si rinviene la soluzione, il deposito della memoria[109] del magistrato, laddove la prassi si eleva a norma d’azione e criterio unificante della sua azione giurisdizionale. I cancellieri – specialmente quelli più anziani –, restando in carica per lunghissimi periodi, divengono i testimoni più attendibili dello stylus, coloro che possono farne fede con maggior credibilità. L’apposizione della stampiglia granducale al partito degli Otto fece di questa causa un negozio autenticamente ‘accertativo’ della consuetudine forense, tanto che si provvide a trascrivere la notizia sul consueto libro degli statuti criminali della corte[110].

Nonostante questa impronta di ‘ufficialità’, dopo soli quindici anni la polemica si riaccese[111], seppur a parti capovolte. Infatti, il successore del De Pretis, Cesare Parasacchi[112], aveva sposato la nuova linea, non concedendo la riduzione della sanzione pecuniaria, né per il beneficio della pace, né per quello della confessione, “perche non è soldato, et a sua notitia non è in Firenze statuto che gle ne conceda”. Meno ovvia fu l’opposizione degli Otto, allora guidati dal Savelli (che ne era appunto segretario), che ribaltando quanto asserito anni addietro, si dissero disposti a concedere la minor pena anche al non iscritto nelle Bande. A sostegno della propria tesi, essi evocavano non più gli statuti quattrocenteschi, ma la generalità della legge cosimiana del 1548. La logica, comunque sia, resta quella del superamento della fonte statutaria: giudici ed auditori cercavano adesso una disposizione generale, almeno sotto il punto di vista territoriale, fosse quella ducale del 1548 oppure i ‘Capitoli’ della milizia, nella versione rivista del 1646.

Prevalse la rotta tracciata dal vecchio negozio del 1657, fatta propria dal rescritto dell’auditore fiscale Emilio Luci e, pertanto, dal sovrano[113]; com’è facile constatare in altri sedimenti giurisprudenziali secenteschi, questo criterio fu usato anche nell’attribuzione dell’altro beneficio, quello della confessione[114]. Una importante applicazione di tali principi ci vien testimoniata dallo stesso Savelli, che riporta come nel 1681, in una controversia affine, innescatasi nel commissariato di Prato, venne da lui stesso “risoluto, e rescritto[115] (…) che si osservi detto statuto come parla, senza altra reduzione, non essendo il condennato descritto”[116].

I coscritti nell’esercito mediceo furono all’origine di numerose altre dispute, cui qui ci limitiamo ad accennarne tre, tutte legate alla questione pregiudiziale dell’acquisizione dello status di milite.

In primo luogo, si dovette rispondere a chi aspirava alla detrazione del quarto della pena pur essendo stato descritto a seguito del fatto criminoso. Le opportunità erano due a tal proposito: quella eletta dall’auditore delle Bande nel 1701, per la quale si doveva qualificare la fattispecie con esclusivo riguardo al tempus commissi delicti, argomentata grazie ad una legge del Digesto[117] ed al trattato specialistico di Tullio Crispolti[118]; oppure quella alternativa, favorita dal magistrato degli Otto – in quanto prima fatta propria da Pietro Cavallo[119] – ed affermatasi per la sottoscrizione del Principe, che stimava discriminante la situazione dell’inquisito al momento della sentenza[120].

Dall’adozione dell’una o dell’altra opzione discendeva una diversa soluzione, dato che nel primo senso, basandosi sul criterio della prevenzione, si dava prevalenza (e quindi competenza) al giudice che per primo aveva effettuato la citazione dell’inquisito – e qui perciò al tribunale ordinario –, mentre nel secondo si imponeva la logica di status.

Tale logica informava l’azione degli organi della giustizia centrale solo fin quando era atta a tutelare i privilegi degli iscritti alle Bande. Se ne ha un esempio affrontando la seconda disputa, ossia quella del godimento del beneficio della pace da parte delle mogli dei descritti.

Qui, infatti, ad applicare rigorosamente il principio dello status si doveva inferirne, come in età medievale era stato fatto a proposito delle mogli dei chierici[121], che essendo appunto lo status una condizione strettamente personale ed intrasmissibile ed essendo i privilegi legati alla titolarità di esso, l’uxor militis non ne avrebbe potuto beneficiare. Di contro, un’altra corrente giungeva, sempre attraverso un ragionamento analogico, alla conclusione antitetica sostenendo che la moglie, per quanto incapace di acquisire la dignitas del marito, era invece idonea a trarre profitto degli honores che dallo status derivavano, non solo grazie ad una costituzione del Codice giustinianeo[122], ma anche ai passi scritturistici della teorica matrimoniale cristiana[123] – per la quale gli sposi formano “unum corpus et una caro”[124] – ed alla massima per la quale “il più degno trae a sé il meno degno”[125]. In una informazione del vicario di Pescia si attestava come quest’ultima era la strada percorsa nelle aule giudiziarie e che inoltre essa veniva estesa ad ogni altro soggetto condannato assieme al descritto[126]. Ora, è innegabile che se questa testimonianza fosse attendibile, si sarebbe in presenza di un escamotage teso ad aggirare il divieto di applicazione del beneficio della pace ai sudditi non descritti.

Infine, l’ipotesi dell’abuso del privilegio del porto d’arma da parte del descritto[127], situazione nella quale questi veniva a perdere lo stesso status e di necessità anche il beneficio della pace[128].

I privilegi degli appartenenti alle Bande, nella sezione dedicata alla pace, si mantennero pressoché inalterati nelle nuove versioni dei ‘Capitoli’ periodicamente pubblicate dai Granduchi: nel 1706 da Cosimo III[129] e nel 1741 dal primo sovrano lorenese[130].

 

3.1.2 Pace e pene arbitrarie.

Ancor più impetuosa fu la controversia sull’ammissibilità della riduzione della pena quando questa fosse non già prefissata da statuti o leggi, bensì arbitraria, cioè determinabile da parte del giudice, con una discrezionalità solo parzialmente vincolata alla consuetudo loci ed alla communis opinio della dottrina[131]. Possiamo ben comprendere le perplessità che molti giuristi nutrivano, in questi casi, verso la mitigazione della pena a seguito di accordi privati, e per il novero di reati implicato e per l’eccessiva libertà che il giusdicente avrebbe potuto vantare nella fissazione della sanzione. Nel primo senso, non di rado trattavasi di delitti che richiedevano pene gravi come il confino.

La documentazione evidenzia un’altra volta la frattura esistente tra Cinque e Seicento[132], giacché se l’auditore Torelli nel 1557, in una delle lettere già citate, aveva sentenziato l’estensibilità del beneficio della pace ad ogni tipo di pena[133], nel 1624 Raffaello Staccoli[134] e gli stessi Otto di guardia comunicavano al commissario di Pisa proprio il contrario[135], allargando la validità di simile criterio anche alla riduzione propter confessionem.

Ciononostante, la prassi non fu sempre così recisamente indirizzata ed i fatti degli anni seguenti al 1674 ne sono un valido riscontro. L’otto agosto di quell’anno, infatti, l’auditore delle Bande Cesare Parasacchi spedì a tutti i rettori dello stato fiorentino una circolare avente un duplice contenuto. Per un verso, si ordinava a giudici e notai criminali di presentarsi al proprio cospetto una volta deposto il proprio ufficio per sottoporsi a sindacato; per un altro, in conformità ad una tendenza alimentata già dal padre Giulio[136], che lo aveva preceduto nell’ufficio delle Bande, si obbligavano i medesimi ministri “che in avvenire non si faccia diminuzione alcune, ne che s’ammettino più doppo la sentenza à godere il beneficio della pace, quelli fossero stati condennati in pene arbitrarie”[137]. Occorre avvertire che le lettere circolari, campo ancora troppo poco esplorato dagli storici giuristi e non, rappresentavano senz’altro un canale di comunicazione diretta tra il sovrano od i suoi rappresentanti (talora anche magistrature) da un lato, che riferivano di agire in suo nome e per suo conto, ed i rettori dall’altro. Tuttavia esso restava un collegamento interno tra due centri di potere – uno singolare e l’altro diffuso –, vedendo come interlocutori i due soggetti di volta in volta coinvolti e, pur poi contenendo norme con efficacia tendenzialmente generale, sovente non era diramato alle altre magistrature, tantoché non di rado rimaneva in forma manoscritta. Cosicché, le circolari non solo non erano concertate, ma erano addirittura ignorate dalla maggior parte degli organi giurisdizionali centrali ed ecco spiegato perché non le troviamo quasi mai nelle grandi raccolte legislative conservate presso i principali fondi archivistici fiorentini[138], né in quelle date alle stampe tra fine Settecento ed inizio Ottocento[139]. Questo fu appunto il destino della lettera del Parasacchi, che indispettì la vecchia corte criminale di origine repubblicana e ne provocò l’immediata reazione. Quest’ultima, del resto, non aveva ostentato molta sicurezza nell’affrontare il punto controverso all’inizio del 1672, finendo per consentire la detrazione di pena solo per la vaghezza della lettera del capitolo delle Bande, che parlava “indeffinitamente delle condennationi pecuniarie, et oratio indefinita aequivalet universali in dispositione legis, maxime favorabilis”[140].

Così, quando il giurista pontremolese intese con baldanza di far applicare la sua circolare, gli Otto dapprima ebbero un attimo di smarrimento e si fecero sorprendere[141], quindi reagirono a relazione del Savelli[142], ma non poterono andar oltre ad una mera contestazione di legittimità dell’atto (“supposto che sia emanato servatis servandis”) ed alla formulazione di una richiesta di interpretazione ‘autentica’ da parte del Principe. Alla cui volontà invero, stando alla lettera del Parasacchi, era da addebitarsi l’esclusione della riduzione per le pene arbitrarie. Chiamato in causa, per mezzo del suo auditore fiscale Luci Cosimo III rescrisse a favore degli Otto e chiarì inoltre che si doveva osservare “puntualmente il Capitolo delle Bande”[143].

Poco più di un anno dopo[144] l’auditore delle Bande ripropose convintamente la sua teoria, a suo dire fondata sulle tre fonti normative fondamentali, che in ciò avrebbero avuto una convergenza totale: la voluntas Principis, la ‘ragione’ – ossia lo ius commune – e lo stylus fori, assodato da plurime decisioni. Fu il pretesto per il magistrato per riepilogare l’intera storia del dissidio interpretativo, rievocando i molteplici precedenti che l’avevano visto prevalere, sciorinando, con l’abilità della penna del proprio segretario Savelli, brani dei negozi degli anni addietro.

Tale operazione non era più sufficiente, in quanto un nuovo rescritto ducale non avrebbe posto fine alla divergenza interpretativa. Il rescritto si caratterizzava infatti per la sua particolarità, per il suo indirizzarsi ad un caso concreto e, pur rappresentando la determinazione del Principe, faceva stato solo in quello, non acquisendo valenza erga omnes e giammai potendo derogare a leggi, statuti, ordini o consuetudini, in forza di una legge del 1561[145]. Di fatto, questa normativa di Cosimo I, che aveva il fine di bloccare le interpretazioni cavillose dei propri funzionari-giuristi[146], era stata largamente disattesa, specialmente sotto i suoi successori. Ad essere violato, come si può constatare pure da quanto appena visto, fu specialmente il divieto di allegazione del rescritto al di fuori della causa o del negozio nel quale esso era stato proferito.

Nel complesso, questi erano strumenti preziosi per i giuristi, per poter dare una base di auctoritas alle proprie concezioni, ma in qualche circostanza si richiedeva un dispositivo che desse una veste generale ai rescritti, che insomma finisse per tradurli in un dato giuridico vincolante su tutto il territorio. Era un obiettivo senz’altro pretenzioso, che fu accortamente perseguito, stimolando il Granduca, con il figurargli il pregiudizio “che da detta lettra circolare può resultare universalmente alle sue militie”. Non era una iperbole, poiché le regole che presiedevano al meccanismo della partecipazione facevano sì che molte cause lievi non giungessero a Firenze, ma fossero giudicate senza appello dall’auditore delle milizie[147]. Oltre tutto, sul tavolo vi era un’altra fattispecie dubbia ed estremamente contrastata in quel periodo, quella dell’accettazione della pace a vantaggio dei contumaci – che vedremo tra breve –, che si prestava ad essere unita a questa, per esser chiarita in un testo unico che rifondesse in sé i responsi avuti per rescritto. Ed il Savelli con sagacia pose il tutto all’attenzione del Granduca ed il fiscale Luci conferì allora una sorta di delega agli Otto, affinché “l’senso della lettera circolare si faccia noto dove occorra, accio non seguino errori”.

Gli Otto allora stilarono una circolare[148] datata 17 settembre 1677, che fu data alle stampe ed inviata, come usualmente, a tutti i rettori, ma stavolta anche all’auditore delle Bande ed ai Sergenti generali di battaglia, ossia gli ufficiali aventi competenza per i casi riservati in modo esclusivo alla giustizia militare. L’esordio della lettera, che si proponeva di riassumere la questione a pro delle corti territoriali e lo faceva utilizzando espressioni carpite dalla propria giurisprudenza e dai rescritti a mo’ di patchwork, era piuttosto drastico, rivelando come “al magistrato nostro” pareva che la precedente disposizione del Parasacchi “apportasse pregiudizio universalmente, alle milizie contro la pia mente del Serenissimo Padrone”, quasi a dar ad intendere la pessima traduzione della volontà del Principe compiuta dall’auditore delle Bande. Quindi, gli Otto palesavano il mandato ricevuto al fine di “far noto il senso della detta lettera circolare, dove occorra, acciò non seguino errori”.

La prima cosa da osservare a questo proposito è l’assenza di allegazioni dottrinali, dato in effetti riscontrabile non solo nella normativa ora emanata, bensì anche nei vecchi diverbi occorsi durante l’intero secolo. Ne dovremo dedurre che lo scontro non concernette un textus e non si esplicò nella scelta di una o dell’altra prospezione intessuta dai doctores – che nei classici tractatus sulla pace non toccavano minimamente il punto in diritto – ma si centrò invece su considerazioni e su scelte di opportunità politica. L’auditore evidentemente premeva per una repressione più inflessibile dei soldati colpevoli, mentre d’altro lato il magistrato ed il fiscale non volevano scalfire i privilegi ducali. E non si pensi che fosse interessata un minima porzione di sudditi, perché gli studi statistici hanno rivelato sia un alto numero di ‘descritti’ in rapporto all’intera popolazione[149], sia una altrettanto elevata percentuale di procedimenti contro appartenenti alle Bande rispetto al complesso delle cause criminali instaurate[150].

In secondo luogo, la circolare si profonde in un apprezzabile (quanto raro) sforzo definitorio della concetto di pena arbitraria e specifica che tale è la sanzione imposta “per quei delitti, alli quali la legge commune, o municipale, non hà determinato le pene” – facendo l’esempio dello stellionato[151] –, che invece vengono individuate dal giudice, avuto riguardo alla qualità del fatto ed alle persone implicate. Si doveva intendere l’arbitrium in senso stretto, nel suo nucleo di significato proprio[152], escludendo le ipotesi in cui la corte “recedeva” dalla pena ex lege o ex statuto ed applicava una differente sanzione per la presenza concomitante di “qualche giusta causa”[153]: ciò non implicava la mutazione della species della pena, che restava statutaria o legale, mentre l’arbitrio doveva essere “in eodem genere poenae”.

Avendo l’articolo del capitolo delle Bande un tenore generico e attribuendo un diritto (e quindi una res favorabilis), non era passibile di alcuna restrizione. L’unica eccezione a tale conclusione, del resto pletorica, era quella di una pena arbitraria che già comprendesse in sé la riduzione per la pace.

Quanto sia stata recepita nella prassi la normativa del 1677 lo dimostrano già a sufficienza gli altri processi in cui si registrò una dissonanza di vedute tra i ministri fiorentini. Nel gennaio del 1680, ad esempio, gli Otto si videro costretti a correggere nuovamente il Parasacchi[154], ma un ventennio dopo le parti si capovolsero e fu il segretario Caterini a soccombere[155], visto che i membri elettivi del magistrato sposarono la linea restrittiva. Tanto che, per eliminare in tronco ogni contestazione, si dovette esplicitare nel testo del nuovi ‘Capitoli’ delle Bande del 1706 che il descritto “possa, e debba conseguire la diminuzione della metà della pena, tanto ordinaria che arbitraria”[156].

 

3.1.3 Contumaci, ammessi ad novas e comparsi nel riservo

Come poc’anzi accennato, fu molto ostica la determinazione del modo di porsi dell’ordinamento nei confronti dell’accusato che non si fosse costituito a seguito della citazione. In questa sede non è dato inoltrarsi sugli effetti giuridici negativi che dalla contumacia si riverberavano sull’inquisito e sulla quasi automaticità di una sentenza di condanna dello stesso[157].

Importa qui definire gli spazi difensivi che al reo erano riconosciuti dopo la contumacia e, naturalmente, la facoltà di allegare l’avvenuta composizione del dissenso con la vittima ed in questa direzione è opportuno anzitutto separare la situazione del comparso nel riservo – cioè in quel lasso di tempo che il giudice quasi sempre attribuiva al condannato assente per costituirsi e giustificarsi – da quella dell’ammesso ad novas, vale a dire di colui che otteneva tale facoltà per grazia sovrana, essendo oramai spirato il termine di riservo.

Se al primo non fu mai negato il diritto di produrre la pace, ma semmai quello di beneficiare del quarto di pena per la confessione[158], nella seconda situazione la risposta fu più oscillante.

Ad inizio XVII secolo, i tribunali provinciali tendono a chiudere un occhio e favorire i contumaci, salvo esser ripresi dagli auditori e dalle autorità della dominante[159], ma basta inoltrarsi maggiormente nel Seicento per riscontrare tracce discrepanti: se nel 1635 e nel 1638 gli Otto e l’auditore concorrono nella risoluzione[160], nel 1643 il loro contrasto – originato per lo schierarsi del magistrato a favore dell’orientamento più benevolo – è appianato dal rescritto ducale, che premia lo stile tradizionale[161].

Il nodo centrale era e restava quello dell’ammissibilità e pertanto dell’acquisizione agli atti della pace presentata non già dal contumace, bensì da alcuni suoi parenti, in cui si scorgeva null’altro che uno dei molteplici aspetti in cui si poneva e si presentava la vexata quaestio della facoltà di difendersi per mezzo di terzi, magari parenti, strategia molto usata soprattutto per addurre eccezioni formali, come il privilegio di foro ecclesiastico[162]. Così, nel 1635 l’auditore Bartolomeo Curini scriveva che la condotta del podestà di Empoli, che aveva ricevuto la comparsa del fratello del reo, con una fede di pace, “li pare nuova pratica (…) e così il beneficio della pace gioverebbe anco alli contumaci contro quello che sin’hora si è praticato”, per cui stimava opportuna “una buona monizione dove si ritrovi questo disegnante, che non è novizio, e tenta simili introduzzioni”[163].

Ben presto si pose anche un altro interrogativo, quid cioè ove il condannato si fosse presentato di persona con i documenti attestanti l’accordo stragiudiziale? Due diverse prospettive si scontrarono animatamente sull’interpretazione da darsi al passo dei Capitoli militari.

In altri termini, essi potevano esser letti ora in modo autoreferenziale, in un’ottica esclusiva dello ius proprium, onde si sarebbe stati portati a convenire sullo sconto di pena, poiché non esplicitamente escluso, sempre sulla base di un criterio per cui le norme favorevoli andavano intese in senso largo per il beneficiario; ora in necessario coordinamento con il sistema dello ius commune e con il suo “strumentario concettuale”[164], cosa che avrebbe comportato l’esclusione di ogni efficacia diminuente della pace, posto che – come sostenuto dall’auditore delle Bande Giulio Parasacchi – “il beneficio della pace secondo la disposizione della raggione comune non giova à i contumaci”, anche perché “altrimenti (…) s’ammetterebbero indirettamente à deffendere per mezzo di Procuratore contro la regola di ragione”[165]. Così concludeva pure il trattato specialistico di Sebastiano Guazzini, che limitava tal affermazione solo per le res inerenti al fatto criminoso ab origine e non per ciò che sopravvenisse al fatto stesso[166].

A creare un forte ostacolo all’adozione della prima teoria, che gli Otto privilegiavano, era la mancata ammissione ad novas del reo, ossia il fatto che egli non aveva supplicato il Principe per la rimessione in termini, che pur non eliminando ogni effetto della contumacia, ridonava all’inquisito il diritto di difendersi. E’ questo il motivo per cui in certe circostanze gli Otto sorvolarono la quaestio iuris e, invece di decidere, attribuirono un lasso di tempo al reo per impetrare la supplica[167]. Alla fine si ripetè il copione già illustrato a proposito delle pene arbitrarie: dopo un primo cedimento[168], il magistrato si fece valere e chiarì[169] che il Guazzini, così come il casus 75 del Cavallo, si riferivano solamente alla pace concessa prima della sentenza, che avrebbe potuto favorire alcuni imputati contumaci – si pensi infatti all’ipotesi di rissa.

Si delinearono così i tratti della fattispecie e le condizioni entro cui il discorso poteva sostenersi

 

nel caso nostro delli Capitoli militari, che concedono indistintamente alli descritti detto beneficio della pace, anco à chi l’otterrà frà un mese dal di della notificata condennatione, pare, che la contumacia passata non li deva pregiudicare, mentre, che doppo la sentenza anco contumaciale compariscano, assicurano il giudizio, producono la pace, e domandano il benefizio di essa, perche alhora non si possono più dir contumaci

 

Per non scardinare la prova legale di colpevolezza che il sistema attribuiva alla contumacia, si dava vita ad una fictio iuris per cui, in presenza di specificati presupposti, tra cui la comparsa spontanea  e la malleveria, non si sarebbe prodotta la contumacia stessa ab origine, né tantomeno i suoi effetti.

Tutt’altro che sopito, il giudice delle Bande, quattro anni dopo, replicò la propria posizione con grande serenità. Con altrettanta disinvoltura, il tribunale fiorentino gli oppose i medesimi argomenti testè esposti ed il rescritto che li aveva ufficialmente sanzionati nella causa del 1672. Ora, qui non entrava in gioco la circolare del Parasacchi per cui, non essendovi alcun vincolo normativo precedente, si poteva camminare sul velluto; eppure, una qualche esitazione dovette diffondersi tra gli Otto, come può evincersi dalla formulazione del partito e dall’opzione per il verbo ‘parere’, per quanto opportunamente rafforzato dalle successive scelte lessicali adottate (“pare assolutamente, che la contumacia passata non li deva pregiudicare”).

Ad ogni buon conto, l’occasione che si profilava a seguito dell’autorizzazione ducale a stilare un documento generale – diretto invero ad imporre nello stato l’interpretazione più larga a proposito delle pene arbitrarie –, era troppo ghiotta per non essere còlta al balzo. Anzi, la circolare si profuse a lungo sul punto ed oltre a ripetere a tutti i giusdicenti quanto già enunciato nei negozi diretti al Granduca, il magistrato volle aggiungere che nessun decorso di tempo, per quanto esteso, impediva di accettare la pace che fosse stata stipulata entro il mese dalla notifica della condanna.

Si tratta di concessioni alquanto rimarchevoli, che facevano breccia sull’impenetrabilità dello scudo che la contumacia costituiva contro ogni atto difensivo. Si incentivavano condotte alquanto scorrette da parte dei rei, che avrebbero potuto scegliere il momento più propizio per comparire, essendosi comunque assicurati una cospicua riduzione della pena. E certo questi non si lasciarono sfuggire tale chance, sì che gli Otto coerentemente applicarono il beneficio, nonostante il parere contrario dell’auditore[170].

Uno sguardo sul trattamento dei ‘rimessi in buondì’[171] potrà esser utile a completare il quadro. Nella prima metà del secolo la documentazione archivistica prova che gli admessi ad novas riuscivano ad ottenere i vantaggi scaturiti dalla pace attraverso una seconda supplica, con la quale chiedevano di esser ‘rimessi nel buondì a godere la pace’, per cui quest’ultima era accettata “come se fusse stata presentata drento al mese[172].

Ad inizio Settecento si accese un aspro dibattito sull’ammissione tout court della pace. Infatti l’auditore delle Bande, carica da poco reintrodotta dopo il ventennio rotale[173], si disse favorevole al beneficio per alcuni inquisiti rimessi[174]. A suo avviso, nonostante che i capitoli militari avessero condotto a negarlo, si poteva praticare la detrazione di pena in virtù degli effetti esplicati dalla admissio. Infatti, il provvedimento grazioso valeva non solamente a sospendere la sentenza contumaciale, bensì pure a rimettere “in pristinum ogn’argomento che avesse il reo per sua discolpa, e difesa”.

Fu stavolta il magistrato a chiudere le porte, recuperando strumentalmente il commento che Pietro Cavallo aveva tracciato sulla legge del 1545 di Cosimo I relativa proprio alla rimessione. Il celebre giurista aveva ridimensionato la sua portata sottolineando che essa costituiva sì una dispensa per il reo, affinché potesse giustificarsi, ma non cancellava “l’efficacia della di lui confessione resultante dalla contratta contumacia”, indi per cui, ove questi non avesse migliorato la propria posizione processuale, si sarebbe dovuta eseguire la vecchia sentenza[175]. Del resto, la legge del 1545 aveva decretato, in questa ipotesi, anche una sanzione pecuniaria aggiuntiva di 500 scudi che il Cavallo attestava come osservata nelle aule giudiziarie[176], ma che invero era divenuta obsoleta con il tempo.

A noi importa rilevare che, sulla scorta di riflessioni attinenti al caso concreto – sia cioè di quantità di prove raccolte, che di gravità del delitto commesso –, gli otto cittadini deliberarono che “la presentata pace non puole a questo condennato produrre alcun buon’effetto per essere stata da lui riportata assaissimo fuori del’tempo prefisso dalli capitoli militari”. Con ciò si realizzava un clamoroso capovolgimento dello stile faticosamente affermatosi nella seconda metà del XVII secolo. Per di più, la soluzione fu confermata dal Granduca, che si limitò a stralciare la sanzione pecuniaria di 500 scudi.

In tal guisa, quando il magistrato volle recuperare l’antica prassi, dimostrando che in fondo ciò che lo aveva spinto nel 1702 era più che altro la fattispecie empirica che non una mutazione d’ordine teorico, il fiscale ribaltò il suo partito ed abbracciò la tesi, sostenuta dall’auditore delle Bande, per cui agli ammessi non si permetteva di avvalersi della pace[177].

E’ così che ci spieghiamo la netta e generica esclusione di efficacia della pace a vantaggio dei contumaci che è espressa a metà Settecento da un grande repertorio giuridico redatto nell’ambiente della segreteria degli Otto, che presenta la sola curiosità di non attingere esempi dalla prassi contemporanea, bensì di rintracciarne uno scavando proprio nel periodo in cui si formò l’interpretazione più larga dei capitoli militari[178].

 

3.2 Pace e grazia del Principe

E’ stato Antonio Padoa Schioppa a sottolineare come nell’età dell’assolutismo, dinanzi ad una restrizione del raggio d’applicazione della pace, si assistette ad una “singolare riaffermazione” della medesima quale condizione per la concessione della grazia, per riequilibrare l’unilateralità con cui il sovrano disponeva della propria clemenza verso i colpevoli[179].

Questa affermazione è estensibile senza esitazioni alla Toscana dei Medici: nei registri e nelle filze di suppliche risulta essenziale la possibilità di vantare l’avvenuta pacificazione, alla quale veniva subordinata la mitigazione di pene pecuniarie o anche del confino. Spesso i rescritti concedono sub conditione la riduzione fino a quattro quinti della pena, semplicemente a patto di produrre la pace entro un certo termine[180]. Talvolta ciò basta, assieme al mero fatto di aver scontato parte del confino, per assicurarsi la cancellazione del restante[181], mentre capita che si chieda ed ottenga non solo la detrazione della multa, ma pure una rateizzazione del residuo in periodi non ristretti[182].

Ora, tralasciando volutamente le secche di una casistica piuttosto articolata, che qui non interessa, pare molto più allettante delucidare una tendenza, che proprio nel Seicento prende corpo, ad escludere, ai fini della grazia, la necessità dell’accordo con l’offeso[183] in ragione dello status di quest’ultimo o di altre motivazioni fattuali.

Sono molteplici gli aspetti in cui si estrinseca questa impostazione, originati per via giurisprudenziale, ma ancor più grazie all’incessante attività delle magistrature, tenute a vagliare un numero impressionante di suppliche, spesso e volentieri reiterate più volte dallo stesso oratore.

Ne evidenzieremo almeno tre, tutti sviluppi della teorica dell’infamia ipso iure o dell’infamia facti[184] dell’offeso, dovuta a differenti motivi. Un primo campo fu quello dei ‘birri’ o dei famigli, ossia coloro che servivano i rettori con le mansioni di esecutori di giustizia. Non è certo una novità ricordare che i doctores li avevano unanimemente qualificati come persone ‘infami’ a causa del mestiere che svolgevano, considerato vile[185]. Ebbene, con una dichiarazione ufficiale dello ‘stile’, effettuata nel 1662 a voce dagli auditori di Consulta, trasmessa e registrata sul ‘libro degli statuti della cancelleria degli Otto’[186] per ordine del segretario Curzio Poli, fu chiarito che per accettare e perciò usufruire di una grazia non era richiesta la pace, qualora una parte fosse costituita da birri, a qualunque titolo essi fossero intervenuti. Elemento di grande spicco è la formulazione onnicomprensiva che venne adottata e che palesemente si poneva in contrasto con il diritto comune – ed infatti si specificava “benche di ragione commune si dovesse dire in contrario” –, giacché questa agevolazione venne resa indipendentemente dalla veste processuale del famiglio (offeso o reo), ma soprattutto senza alcun riguardo alla tipologia del reato commesso ed alle circostanze del medesimo. In altri termini, la disposizione della Consulta era valida anche per i reati non pertinenti all’ufficio, ma commessi dai birri per causa “altra propria, e privata”. Il Savelli, nel commentare il provvedimento, faceva intendere che si trattava di una sorta di declaratoria di uno stile della cancelleria e ne certificava l’osservanza con esempi di negozi che oggi non siamo in grado di riscontrare per l’indisponibilità delle filze[187]. In più, ne estendeva la portata alle meretrici, sul fondamento della identica ratio della “viltà, et infamia”[188], mentre l’unica deroga concepibile era per l’ipotesi in cui entrambi i contendenti fossero egualmente ignobili[189]. E si noti che il quadro testé riassunto viene riferito come attualmente praticato un secolo più tardi, nella seconda edizione della Pratica di Vincenzo Guglielmi del 1775[190].

Quest’ultimo non menzionava invece un’altra categoria di persone per le quali vigeva un regime analogo a quello di famigli e meretrici, ossia gli ebrei. La norma fu definitivamente enunciata e stabilizzata a seguito di una supplica presentata nel 1701 agli Otto di guardia[191], nella quale il reo, condannato per percosse ai danni di un ebreo e quindi graziato sotto condizione della produzione dell’atto di quietanza dell’offeso, obiettò il principio per cui, “dovendosi ricevere la pace da persone infami non si richiede la detta pace e si sogliono ammettere le grazie di V.A.R. senza di esse”, dovesse applicarsi anche agli ebrei, così come in passato era stato rescritto. Agli orecchi del procuratore del supplicante, insomma, doveva esser giunta una vaga ed indistinta eco di qualche rescritto, che non si poteva identificare per l’impossibilità di consultare gli archivi centrali fiorentini. Non doveva essere infatti un problema all’ordine del giorno, se da parte della Camera fiscale si domandò aiuto al segretario degli Otto Giovanni Silvio Caterini, il quale a sua volta fu costretto ad un lungo spoglio delle carte depositate presso la propria cancelleria. Alla fine di questo, il Caterini poté allegare un precedente del 1677, rinvenuto in una filza del fisco ducale, nella quale era stato il condannato ad avanzare la tesi per cui un “ben nato non è tenuto a far pace” con ebrei, che più autori elencati in un memoriale stimavano gente infame[192]. Il Menochio aveva sentenziato che gli ebrei erano “deteriores ipsis saracenis”[193], ma la strategia dell’oratore poteva benissimo rafforzarsi della deduzione obbligata desumibile dal testo del Savelli, già diffuso, relativamente alle persone ‘vili’[194]. Dal testo della supplica del 1701 si evince inoltre che l’estensione analogica si sorresse altresì a due leges[195] ed all’auctoritas di Giuseppe Mascardi, che aveva in realtà escluso solamente la facoltà di giurare da parte degli ebrei[196], peraltro una delle tipiche incapacità discendenti dall’infamia[197] e che concorreva comunque a provare la scarsa dignitas di questi sudditi del Granduca.

Una decisione degli Otto, ratificata dall’auditore fiscale nell’ottobre 1703, fece intendere che il medesimo regime applicabile per meretrici, ebrei e birri valeva per i messi[198] e d’altronde ciò si spiega con il fatto che fino all’epoca delle riforme leopoldine esistevano molti birri facenti funzione di cavallaro ed i due mestieri erano talora, anche se illegittimamente, interscambiabili.

Se quindi ad impetrandam gratiam svaniva l’esigenza della pace, non così fu al fine di godere del beneficium pacis: quando un descritto provò a sfruttare le sentenze ed i rescritti predetti ritenendone scontata l’applicazione ai privilegi militari, il magistrato, capovolgendo un voto dell’auditore delle Bande Carrillo, obiettò che “nel’Capitolo della reduzzione concessa alli soldati, la pace venga ricercata, come condizione sine qua non” e che perciò, se il milite non avesse voluto o potuto procacciarsi la pace, non avrebbe avuto nessuno sconto di pena[199].

Sempre in quegli anni si consolidò una ulteriore fattispecie che legittimava la concessione della grazia senza la previa pace, ossia la situazione di colui che, pur avendo “con debiti modi, e con le dovute sodisfazioni” richiesto la pace stessa, si fosse scontrato contro un diniego “con ostinazione” dell’offeso[200]. Nella società d’Antico Regime, infatti, sulla scia di una diffusa concezione religiosa del perdono, non sembrava tollerabile l’atteggiamento di coloro che ricusavano “di suggettar le loro private querele, e discordie al tribunal della Ragione, e alla giusta sentenza d’uno, due, o più Mediatori”, uomini che il Muratori non esitava a definire “disonorati”[201].

Dinanzi a tale rifiuto, non restavano che due vie d’uscita: incanalarsi nel solco della questione del potere di coartare i contendenti da parte del Principe, ovverosia escogitare delle soluzioni intermedie. Nel primo senso, se non si dubitava della potestas del sovrano di imporre una pace coattiva[202], si era al tempo stesso cercato di restringere il suo esercizio alle evenienze più intricate e coinvolgenti l’ordine pubblico, soprattutto in quanto ciò avrebbe leso l’immagine tradizionale del Principe, avente quale “compito primario, quello di tutela dell’assetto civile”, esplicandolo mediante le virtù della prudenza e della giustizia, una giustizia distributiva, che imponeva di mantenere lo status quo e l’equilibrio sociale[203].

Per non far esporre in eccesso il monarca, ecco che si fece largo anzitutto la chance di accordare la grazia, come s’è detto or ora, nonostante il mancato raggiungimento di un accordo, cioè – per riprendere l’espressione di Pietro Cavallo[204]de plenitudine potestatis; ma si delinearono altri due artifizi tesi ad addolcire l’esplicazione del potere di grazia: quella di una mera permuta della pena capitale in un confino con un precetto di carattere provvisorio[205] oppure quella della grazia stante la remissione degli interessi civili.

La prima ipotesi si materializzò con una lettera dell’auditore Valentino Farinola del 1673 significante la volontà della Granduchessa Vittoria della Rovere. Giunta in cancelleria, essa fu vagliata dal Savelli, che ne sollecitò una spiegazione e si vide rispondere che era “stata ordinata per il diffetto della pace, e’ che cosi si doveva essequire non ostante, che non vi sia pace”[206]. Era stato ancora il Cavallo a spiegare che, principalmente dinanzi ad omicidi, era quantomeno confacente che la grazia si accompagnasse ad una pena della relegazione, giacché i parenti del defunto “dolore stimulati, facile in effusorem et occisorem irruunt, si ab eis non abest”[207].

La seconda fu attuata quasi contemporaneamente[208] nel caso di un tale che non riuscì a procurarsi la pace da tutti gli offesi; l’auditore Luci allora informò che anche l’invito del cavaliere del podestà di Modigliana a comparire dinanzi a lui per venire ad un accordo era stato respinto da uno degli offesi, che “con modo incivilissimo si partì”, ma in post scriptum soggiunse che in extremis si era accolto un compromesso per il quale il reo avrebbe rimesso le controversie civili che pendevano contro la parte lesa. Ciò bastò per l’emissione del rescritto di grazia.

Il Savelli illustrava poi una fattispecie di elargizione delle grazie omessa la pace, consolidatasi ai suoi tempi, a proposito dei confinati[209]. Essi infatti assiduamente supplicavano per avere delle proroghe del termine loro concesso per allontanarsi. Nel giugno del 1639 un rescritto di Ferdinando II[210] impose la necessità della pace a tale scopo ed il giurista romagnolo ne deduceva a maggior ragione l’estensibilità di tale norma a coloro che avevano violato il precetto di confino e che impetravano la ‘remissione in buon giorno a pigliarlo’: se era tassativa per una mera dilazione, ancor più lo doveva essere per chi avesse trasgredito regole sovrane. Nonostante queste efficaci considerazioni – continuava il Savelli –, “essendo stato discusso questo negozio”, venne rilevato che troppo spesso ci si imbatteva nell’ostinazione degli offesi, che produceva un eccesso di esuli e banditi, sicché “è stato risoluto, et ordinato che si ammettino le grazie di remissione in buon giorno a pigliar li confini anco senza la pace” ed in tal guisa si prese “ad osservare dell’anno 1662”.

D’altro canto, la giurisprudenza si sforzò di agevolare l’accesso al beneficium pacis od alle grazie facendo leva sulla norme che stabilivano quali e quanti soggetti dovevano sottoscrivere la pace, affinché essa potesse esplicare i proprie effetti diretti o indiretti.

Così, nel 1663 l’auditore Giulio Parasacchi fu chiamato a risolvere la questione della necessità o meno di coinvolgere i compagni dell’offeso qualora il reato contestato fosse di rissa od insulti reciproci[211]. Le fonti giustinianee[212], interpretate dai pratici cinquecenteschi[213], stabilivano che la quietanza doveva esser ricercata da coloro che vantavano lo ius accusandi per cui, nel caso di decesso della vittima, il diritto sarebbe spettato a tutti i congiunti di sangue, remotis exclusis, in solidum anche se essi avessero rinunciato all’eredità, dato che tale facoltà competeva ratione sanguinis e non ratione ereditatis[214].

Sull’intera materia, però, aveva inciso notevolmente l’ordinamento repubblicano con una legge dell’ottobre 1476[215] che è bene riassumere per sommi capi. Questa individuava nell’offeso il titolare dello ius pacificendi, mentre in caso di decesso il diritto passava al padre, ai fratelli carnali ed ai figli assieme, quindi, sempre per linea paterina, allo zio, ai cugini di età non minore di 15 anni ed infine a madre, moglie, sorelle carnali o al “più prossimo congiunto per linea masculina”.

Se non si trattava dei primi chiamati, gli altri potevano esercitare le proprie prerogative solo producendo una fede – rilasciata dalla corte del rettore sotto la cui giurisdizione era compreso il defunto – attestante che i parenti legittimati non erano viventi o non esistevano.

Ora, come si nota dalla nostra veloce scorsa sulla legge, essa non nominava neppure i compagni ed il Parasacchi si affrettava a precisare che seppur si potessero in certo modo ritenere offesi, non tali erano all’effetto di concedere la pace. Il punto focale erano i beni lesi, che facevano sorgere la facoltà di rimettere l’offesa, ed essi erano esclusivamente la persona, le cose o l’onore e, “se bene l’ingiuria fatta à un compagno si reputa anco fatta all’altro, non per questo à uno si dà l’attione d’ingiuria per l’altro, se non ne casi dalla legge espressi, e specialmente se l’ingiuria d’uno non e fatta in contemplatione dell’altro”. Gli Otto, persuasi dal loro giureconsulto, recepirono la relazione e ne vincolarono l’osservanza per il futuro, senza inviare il negozio al Granduca “parendoli che cosi sia di ragione”.

L’ “irripetibilità dei casi della prassi”[216] determinava seri problemi alla giustizia, giacché era possibile che il condannato avesse raggiunto l’accordo con uno solo dei figli del defunto, non perché l’altro fosse ostile, ma magari per la sua assenza dalla Toscana o addirittura per l’essersi perse le sue tracce, fatto di cui si fornivano idonee fedi e testimonianze. Quid iuris allora? La dottrina richiedeva l’assenso di tutti gli eredi di sangue[217] e la cancelleria – scriveva il segretario Caterini nel 1701 – era “dificultata” dalla mancanza della pace di tutti gli aventi diritto ed il Granduca non volle prendere posizione e rescrisse che “S.A.S. se ne rimette agl’ordini di buona giustizia”[218]. Altri dubbi sorgevano riguardo alle risse, nelle quali vi era normalmente una pluralità di offesi, qualora non tutti gli “adversari” fossero rintracciabili: nel 1639, ad esempio, optò per la grazia “non ostante”, perché risultava che due dei corrissanti “se ne siano andati via”, e il reo non li aveva “possuto ritrovare”[219].

Del tutto affini erano le discussioni innescate dalle paci concesse da persone poi decedute a seguito delle lesioni patite. La communis opinio negava la loro efficacia[220], ma esse si erano rafforzate attraverso le formule notarili per mezzo delle quali la vittima dichiarava di esser cosciente del periculum mortis e di volere nonostante ciò che la remissione valesse post decessum. De iure – sosteneva il Guazzini –, questi dispositivi non avrebbero avuto controindicazioni, se non che la consuetudine (e talora gli statuti) le avevano escluse, sia per non dar adito a faide incrociate con gli eredi, sia per la considerazione di motivi religiosi che sospingevano l’offeso[221].

Prospettatasi una situazione simile davanti agli Otto, il segretario Poli ammise le proprie perplessità, riepilogando la posizione della dottrina ma, pressato dal procuratore del supplicante che asseriva di aver assistito a molte ammissioni di paci da parte del magistrato, dovette assumere informazioni “giache a mio tempo non è stato altra volta qua simil caso discusso” ed ebbe la meglio solo invertendo l’onere della prova, ossia sollecitando l’oratore a dimostrare lo stile della cancelleria, cosa ovviamente impossibile, data l’inaccessibilità dell’archivio della stessa[222].

 

4. Il periodo delle riforme: sparizione o spostamento del campo della pace privata?

Dalla metà del Settecento, dopo un periodo di assestamento della nuova dinastia lorenese, si aprì la stagione delle grandi riforme della Reggenza[223].

Una delle più incisive modificazioni dell’assetto organizzativo dello stato toscano fu senza dubbio quella dell’abolizione delle Bande e dei privilegi garantiti a coloro che ne facevano parte, avvenuta con un provvedimento a firma dell’auditore fiscale del 11 ottobre 1753[224]. Considerato che il beneficium pacis era oramai prerogativa dei soli ‘descritti’ (e che pure per questi la fruibilità si era molto ristretta) e tenuto conto dell’evoluzione che si registrerà sotto Pietro Leopoldo, con l’emanazione della celebre ‘Leopoldina’ nel novembre 1786, si potrebbe fin troppo semplicemente e sbrigativamente ritenere chiusa la pur lunga vicenda della pace privata nell’ordinamento toscano. Del resto, l’articolo XLVII della ‘Leopoldina’ reprimeva “l’abuso introdotto che le pene afflittive decretate dai Giudici si possa redimere dai rei con pagare una somma di denaro al Fisco”[225] e l’ultimo articolo della stessa[226] decretava l’irremissibilità della pena, la revoca della facoltà della Consulta di Firenze e del Luogotenente generale senese “di accordare diminuzione, permuta, composizione, o condonazione di pene, tanto pecuniarie, che afflittive” ed infine l’impossibilità di “proporsi diminuzione, o composizione alcuna”. Il Granduca dovette affrontare un atteggiamento restio di alcuni suoi auditori[227], ma la sua convinzione fu troppo forte e tale fu in ragion del fatto che le pene erano state diminuite e che era indispensabile che il suddito avesse sicurezza dell’applicazione rigorosa di quanto prescritto dalla legge[228].

Tuttavia, una tale conclusione sarebbe affrettata e non del tutto corretta. Non solo e non tanto per gli attimi di revivescenza che si dovettero alla stessa Reggenza lorenese ed all’emanazione, prima nel 1739 e quindi nel 1745[229], di un indulto generale, relativo ad una serie non scarsa di delitti, di cui si poteva usufruire producendo la pace o la quietanza entro un termine di sei mesi; furono infatti nient’altro che provvedimenti una tantum, consueti nel diritto criminale dell’Antico Regime e che non si ripeterono in seguito. Quanto anzitutto per ciò che riferiva nella sua Pratica Vincenzo Guglielmi, nel 1775, che testimoniava in definitiva una fedele applicazione delle disposizioni dello statuto fiorentino in materia di diminuzione del quarto della pena, concessa nei soli casi espresssi dalla rubrica 51, e di remissione della condanna per le percosse leggere, ove fosse prodotta la pace entro quindici giorni dalla sentenza[230].

Se scorriamo rapidamente qualche filza dell’epoca della Reggenza, ci si accorge facilmente che gli Otto di guardia, richiamandosi direttamente agli statuti locali, diminuiscono le pene in virtù della pace[231], ed altrettanto che essi ‘circondano’ l’inquisizione instaurata contro furti o truffe di lieve entità, magari commessi da minorenni o scarsamente provati, grazie alla quietanza dell’offeso[232].

Al di là di questo, quand’anche oltrepassassimo la data d’emanazione della ‘Leopoldina’, se è inoppugnabile che la pace perse la sua incidenza come fattore mitigante della pena per l’affermarsi di una concezione per la quale il reato recava sempre e comunque un’offesa all’ordinamento, da reprimere prescindendo da ogni composizione tra i contendenti, è altrettanto inconfutabile che la pace restò uno strumento diffusamente impiegato nelle aule dei tribunali e che i princípi che la regolarono rimasero a lungo quelli del diritto comune, con la sola grossa variante rappresentata dalla sua diversa collocazione nell’iter processuale: non più ammissibile dopo la decisione, essa fu concepita esclusivamente in via preventiva.

Ci basti illustrare alcuni fatti occorsi nel 1790. In quell’anno giunse al Supremo tribunale di giustizia, che fin dal 1777 era subentrato agli Otto di guardia[233], una supplica di alcuni imputati che lamentavano come la corte di San Giovanni avesse “ricusato di ammetterli la pace, che gli veniva offerta dall’offeso col riservo delle sue ragioni per la refezione dei danni, e spese sul supposto che la pace porti seco di sua natura la remissione dei danni, e spese, e che l’una non possa star disgiunta dall’altra”[234]. L’alto tribunale fiorentino ordinò che gli fosse trasmessa la documentazione, ricordando immediatamente il classico principio per cui la pace non escludeva una eventuale azione per il risarcimento dei danni in via civile. Il vicario rispose che il suo notaio civile non aveva neanche redatto l’atto compositivo in quanto le parti non erano concordi sul farlo in via giudiziale, per cui avevano convenuto per una tregua. Ma dai consulti di due auditori del Supremo Tribunale veniamo a conoscenza di ben altra realtà: la corte di San Giovanni era usa obbligare inquisito e vittima a stipulare una tregua od una reciproca cautio de non offendendo, altresì laddove nessuno ne avanzasse istanza e specialmente nelle cause per rissa. Non è cosa nuova, se un secolo prima la Ruota criminale aveva sonoramente strigliato i rettori, responsabili di aver costretto con citazione le parti alla composizione giudiziale prima ancora di sentenziare nel merito.

Allora, la Ruota aveva fatto sapere che diversamente si praticava presso di loro e che cosi si doveva “stilare di ragione in tutte l’altre Corti”, ammonendo a non ripetere l’errore[235]. Adesso l’auditore Guido Angelo Poggi insisteva sul fatto che, per quanto la prassi descritta era da considerarsi non illegittima – ed a tal proposito citava ancora l’opera di Guazzini, con la quale inquadrava giuridicamente la fattispecie –, cionondimeno proprio in base all’antica dottrina questa regola pativa dei limiti perché “non per ogni leggiero sospetto può il Giudice esigerla”. Vi dovevano essere fondati e ragionevoli motivi che inducevano a ritenere probabile l’esplosione di nuove violenze tra le parti, in presenza dei quali il giudice poteva imporre la tregua sotto pena arbitraria del confino, così come il Poggi ricordava aver visto rispondere gli Otto di guardia ad un rettore nel 1770.

Ancor più impressionante è la testimonianza desumibile dal parere dell’auditore Urbano Urbani, che scriveva che nei “Tribunali provinciali subito che segue qualche rissa, e che vien questa dedotta formalmente si stila di citare le parti corrissanti a far Pace, o tregua senza il minimo motivo, ne reclamo, e se alcuna recalcitra si coarta con la forza”. Questo abuso era interamente dovuto al maneggio dei notai ed al notevole potere di cui erano dotati, sì che il vicario, chiamato a Firenze ed interrogato sul punto, dichiarò che “appertutto si pratica così; che ciò depende dal lucro che i notari percipano [sic] a forma della tariffa; che i vicari non ne partecipano”. Fattore forse incisivo, ma che da solo non varrebbe a spiegare la condotta degli attuari, che presumibilmente erano mossi da una prassi consolidatasi nel tempo e trasmessagli da coloro che li avevano preceduti nell’officio.

Era impellente quindi da un lato ristabilire la doverosa obbedienza e subordinazione dei notai ai giusdicenti e dall’altro elaborare una normativa generale che bloccasse queste intromissioni della giustizia statale nelle vicende private, suggerimento che fu accolto dal presidente dell’alta corte fiorentina, Iacopo Biondi, che preparò una circolare inoltrata a tutti i vicari regi nel febbraio del 1790[236].

In essa si stabilì l’obbligo per i “ministri subalterni” – così sintomaticamente vennero definiti i notai – di ottenere il previo consenso dei vicari prima di procedere alla convocazione forzosa delle parti per la tregua. I rettori erano poi invitati a accordare il loro beneplacito con moderazione, facendo attenzione a che da un tal atto non scaturissero nuove faide.

Del resto, seppur non con tali modalità, anche presso gli Otto a metà Settecento si inducevano reo e vittima all’accordo con tecniche sicuramente più sofisticate, ma comunque forzose, come certifica un repertorio giurisprudenziale manoscritto motu proprio stando al quale, per invogliare i contendenti all’intesa, ad esempio nelle risse lievi, il magistrato ‘stilava’ condannare “i corrissanti in pena pecuniaria graziabile per indurli alla pace”[237].

Concludendo, pur essendo confinata sempre maggiormente entro coordinate applicative ristrette, la pace mantenne il proprio spazio nell’ordinamento giudiziario e tale esito dell’indagine non deve stimarsi valido per la sola Toscana, ma anche per gli altri stati preunitari. Ancora nel periodo della Restaurazione, gli scritti di Luigi Cremani[238] e di Filippo Maria Renazzi[239] riconoscevano che “in levioribus criminibus” l’accordo delle parti produceva l’estinzione della pena, mentre il Dizionario del veneto Marco Ferro nel 1845 si risolveva in una panoramica della dottrina scelta di diritto comune, espungendo i soli riferimenti alla mitigazione della pena[240]. Più puntualmente, Guido Angelo Poggi inseriva nel catalogo dei crimini per cui era lecita la transazione l’adulterio, lo stupro e le ingiurie[241]. E nello stato pontificio è stata ravvisata la presenza di ‘istrumenti’ di pace nel primo Ottocento, sia pure al solo scopo di ritrattazione della querela[242].

Può forse avere un qualche rilievo evidenziare il clamoroso rivolgimento della disciplina romanistica che si consacra al termine del lungo itinerario che abbiamo cercato di illustrare a larghi tratti. Lo nota acutamente il Renazzi che “de aliis criminis, quae sanguinis poenam non ingerunt transigere Jure Romano numquam licet, et si transactum fuerit”, l’accusatore sarebbe incorso nelle sanzioni previste dal senatoconsulto Turpiliano, mentre il reo “habetur pro convicto”.

Insomma, la prospettiva si è capovolta perché diverse sono le finalità della pena e le logiche repressive che lo stato fa proprie: adesso il sistema non si muove più su di un “doppio binario”[243] e non contempla più un fine ‘restitutivo’, “orientato al risarcimento, composizione e rappacificazione”, ma si limita a tollerare che un accordo tra le parti intervenga laddove l’interesse alla punizione pubblica diventa superfluo o addirittura controproducente per la macchina giudiziaria in ragione della fievolezza dell’illecito commesso.



Abbreviazioni ricorrenti: ASFi per Archivio di stato di Firenze; ASPi per Archivio di stato di Pisa; ASPo per Archivio di stato di Prato; BUPi per Biblioteca universitaria di Pisa; ACSM per Archivio comunale di San Miniato.

[1] Cfr. sul punto U. Petronio, Il Senato di Milano. Istituzioni giuridiche ed esercizio del potere nel Ducato di Milano da Carlo V a Giuseppe II, I, Milano, 1972, pp. 412-3; A. Cavanna, La codificazione penale in Italia. Le origini lombarde, Milano, 1987 (ristampa inalterata), pp. 135-136, nt. 277 e Id., Storia del diritto moderno in Europa. Le fonti e il pensiero giuridico, II, Milano, 2005, p. 208.

[2] Penso ad es. a A. Pertile, Storia del diritto penale, in Id., Storia del diritto italiano, II ed., Torino, 1892, V, pp. 121, 148-150 o a G. Salvioli, Storia del diritto italiano, IX ed., Torino, 1930, pp. 680 e ss. Amplius C. Calisse, Svolgimento storico del diritto penale in Italia dalle invasioni barbariche alle riforme del secolo XVIII, in Enciclopedia del diritto penale italiano. Raccolta di monografie a cura di E. Pessina, II, Milano, 1906, pp. 341-348 e 502-506. Cfr. poi J. Kohler, Das Strafrecht der Italienischen Statuten vom 12.-16. Jahrhundert, Mannheim, 1897, pp. 621 e ss.

[3] Pertile, Storia del diritto penale, cit., p. 121.

[4] Salvioli, Storia del diritto italiano, cit., pp. 684-5.

[5] A. D. Tolomei, Il pentimento nel diritto penale, Torino, 1927, con ampia parte storica (sopr. pp. 28 e ss per l’età intermedia), ma cfr. V. Manzini, Trattato del furto e delle varie sue specie, Le varie specie di furto nella storia e nella sociologia, Parte storica, II, Torino, 1912, p. 802 e specificamente, all’interno del medesimo trattato nei volumi Le varie specie di furto nel diritto penale vigente, Torino, 1913, II, p. 913, con riferimento proprio alla relazione ministeriale al progetto di codice. Uno studio dal carattere più filosofico e comparatistico sul tema della mitigazione della pena a seguito di rimborso o di risarcimento dell’offeso – non troppo a caso chiamato ‘beneficio’, proprio come il vecchio beneficio della pace e della confessione – è quello di E. Brusa, Efficacia della riparazione del danno privato, in Rivista penale, XXIX, 1889, pp. 5-43 e 109-135.

[6] Manzini, Trattato del furto, cit., Le varie specie di furto nella storia e nella sociologia, Parte storica, II, p. 801.

[7] Il punto è più efficacemente e ampiamente esposto in R. Dolce, Perdono giudiziale, in Enciclopedia del diritto, XXXII, Milano, 1982, pp. 992-4.

[8] V. Manzini, Trattato di diritto penale secondo il codice del 1930, III, Torino, 1934, p. 485. Sulla remissione extraprocessuale si vedano poi pp. 501 e ss.

[9] Ivi, p. 486.

[10] Del quale si ricorda il solo imponente lavoro L’imputabilità, i moventi del reato e la prevenzione criminale negli statuti italiani dei sec. XII-XVI, con prefazione del prof. Vincenzo Manzini, Padova, 1933, nel quale però rifluirono gli studi che egli stava pubblicando ed aveva già pubblicato in separata sede: ricordiamo La pace privata nel diritto comune e statutario italiano dei secoli XII-XVI, in Rivista penale, a. IV, fasc. 10-11, ott-nov 1933, pp. 1354-1369 e Id., La cauzione di non offendere. Istituti di prevenzione criminale nel diritto comune e statutario italiano dei secoli XII-XVI, in La scuola positiva. Rivista di diritto e procedura penale, n.s., 12, 1932, pp. 308-314.

[11] L’intervento più significativo mi pare quello di M. Vallerani, Pace e processo nel sistema giudiziario del comune di Perugia, in Quaderni storici, 101, 1999, pp. 315-353, poi risistemato nel cap. IV del suo La giustizia pubblica medievale, Bologna, 2005, pp. 167-209. In precedenza, il tema era stato esplorato dalle ricerche giuridiche di A. Padoa Schioppa, Delitto e pace privata nel pensiero dei legisti bolognesi, in Studia Gratiana, 20, 1976, pp. 271-286 e Id., Delitto e pace privata nel diritto lombardo: prime note, in Diritto comune e diritti locali nella storia dell’Europa. Atti del convegno di Varenna (12-15 giugno 1979), Milano, 1980, pp. 557-578, ora rifusi assieme nel cap. VIII di Id., Italia ed Europa nella storia del diritto, Bologna, 2003, pp. 209-250, intitolato appunto “Delitto e pace privata” (che qui utilizzeremo per nostra comodità). Cfr. poi i lavori dal taglio storico-sociale o storico generale: A. Ryder, The incidence of crime in Sicily in the mid fifteenth century: the evidence from composition records, in Crime, society and the law in Renaissance Italy, a cura di T. Dean e K.J.P. Lowe, Cambridge, 1994, pp. 59-73 e Ivi, anche il saggio di T. Dean, Criminal justice in mid fifteenth century Bologna, pp. 36-38; J. Heers, Il clan familiare nel Medioevo, Napoli, 1976 (trad. it. di Le clan familial au Moyen-Age, Paris, 1933), pp. 145-154 e 165-173; N. Offenstadt, Interaction et régulation des conflits. Les gestes de l’arbitrage et la conciliation au Moyen Age (XIIIe- Xve siècles), in Les rites de la justice. Gestes et rituel judiciaires au moyen âge, a cura di C. Gauvard e R. Jacob, Paris, 2000, pp. 201-228; C. Gauvard, «De grace especial». Crime, etat et societe en France à la fin du Moyen Age, Paris, 1991, pp. 779-788; M. Sensi, Per una inchiesta sulle paci private alla fine del medioevo, in Studi sull’Umbria medievale e umanistica. In ricordo di Olga Marinelli, Pier Lorenzo Meloni, Ugolino Nicolini, a cura di M. Donnini e E. Menestò, Spoleto, 2000 (Biblioteca del «Centro per il collegamento degli studi medievali e umanistici in Umbria», 20), pp. 527-564; G. Guarisco, Il conflitto attraverso le norme. Gestione e risoluzione delle dispute a Parma nel XIIII secolo, Bologna, 2005 (Itinerari medievali, 9), pp. 94-98; C. Cutini, Giudici e giustizia a Perugina nel secolo XIII, in Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria, 63, 1986, pp. 84-86 ed i numerosissimi studi di A. Zorzi, tra cui menzioniamo «Ius erat in armis». Faide e conflitti tra pratiche sociali e pratiche di governo, in Origini dello stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera, Bologna, 1994, pp. 609-629 e Id., La giustizia, le pene, la pace, in Storia della civiltà toscana, I, Comuni e signorie, a cura di F. Cardini, Firenze, 2000, pp. 189-209. Proprio Zorzi è stato promotore di un recente convegno fiorentino sul tema (cfr. la scheda di F. Canaccini, Conflitti, paci e vendette nell’Italia comunale (Firenze, 26 gennaio 2005), in Ricerche storiche, a. XXXVI, n. 2, 2006,pp. 361-64). Centrato sull’età intermedia e con taglio socio-religioso è poi il numero monografico di Quaderni di storia religiosa del 2005, dal titolo La pace fra realtà e utopia, al cui interno segnaliamo fin da subito i saggi di M. Sensi, Le paci private nella predicazione, nelle immagini di propaganda e nella prassi fra Tre e Quattrocento, pp. 159-200 e quello di V. Rovigo, Le paci private: motivazioni religiose nelle fonti veronesi del Quattrocento, pp. 201-233. Tra le raccolte di documenti, segnaliamo quella a cura e con introduzione storica di G. Masi, dal titolo Collectio chartarum pacis privatae Medii Aevii ad Regionem Tusciae pertinentium, Milano, 1943 (Orbis romanus. Biblioteca di testi medievali, XVI) e quella di A. D. Trapp, Il volto veritiero di Santa Rita, Cascia, 1968 (Documentazione Ritiana antica, II), pp. 86-91. Per uno sguardo sulla giustizia ecclesiastica, cfr. M. Della Misericordia, Giudicare con il consenso. Giustizia vescovile, pratiche sociali e potere politico nella diocesi di Como nel tardo Medioevo, in Archivio storico ticinese, II serie, 130, 2001, pp. 179-218, spec. 186-194 e Id., La disciplina contrattata. Vescovi e vassalli tra Como e le Alpi nel tardo Medioevo, Milano, 2000, pp. 258, 324. Per una prospettiva storiografica, pur se limitata all’orizzonte degli studi francesi, si veda ora X. Rousseau, Historiographie du crime et de la justice criminelle dans l’espace français (1990-2005). Partie I: du Moyen-Âge à la fin de l’Ancien Régime, in Crime, histoire et sociétés, 10, n. 1, 2006, pp. 130-31 e, più estesamente, Id., De la négociacion au proceès pénal: la gestion de la violence dans la société médiévale et moderne (500-1800), in Droit négocié, droit imposé, a cura di P. Gérard, F. Ost, M. Van de Kerchove, Bruxelles, 1996, pp. 273-312.

[12] Cfr. per la Castiglia, F. Tomás y Valiente, El perdon de la parte ofendida en el derecho penal castellano, in Anuario de historia del derechi español, XXXI, 1961, pp. 55-114 (e sinteticamente in Id., El derecho penal de la monarquía absoluta (siglos XVI, XVII y XVIII), II ed., Madrid, 1992, pp. 80-84); per la Francia, A. Soman, L’infra-justice à Paris d’après les archives notariales, in Histoire, économie, société, 1982, 3, pp. 369-375; N. Castan, Justice et répression en Languedoc à l’époque des Lumières, Paris, 1980, pp. 13-51; i cenni nei volumi R. Martinage, Histoire du droit pénal en Europe, Paris, 1998, pp. 14-19; C. Plessix-Buisset, Le criminel devant ses juges en Bretagne aux 16e et 17e siècles, Paris, 1988, pp. 41-43 e, con un ottimo quadro a grandi linee, nonché valida bibliografia (cfr. pp. 222-223), J. M. Carbasse, Histoire du droit pénal et de la justice criminelle, II ed., Paris, 2006, pp. 187-189; per l’Italia, D. Cecchi, Sull’istituto della pax: dalle costituzioni Egidiane agli inizi del secolo XIX nella Marca di Ancona, in Studi maceratesi, III, 1968, pp. 103-161; O. Niccoli, Rinuncia, pace, perdono. Rituali di pacificazione nella prima età moderna, in Studi storici, a. 40, 1999, n. 1, pp. 219-261; M. Bellabarba, Pace pubblica e pace privata: linguaggi e istituzioni processuali nell’Italia moderna, in Criminalità e giustizia in Italia e in Germania: pratiche giudiziarie e linguaggi giuridici tra tardo Medioevo ed età moderna, a cura di M. Bellabarba, G. Schwerhoff e A. Zorzi, Bologna, 2001, pp. 189-213; C. E. Tavilla, Paci, feudalità e pubblici poteri dell’esperienza del Ducato estense (secc. XV-XVIII), in Duelli, faide e rappacificazioni: elaborazioni concettuali, esperienze storiche: atti del seminario di studi storici e giuridici (Modena, 14 gennaio 2000), a cura di M. Cavina, Milano, 2001, pp. 285-318, ora in forma semplificata anche in Id., Ricerche di storia giuridica estense, II ed., Modena, 2004, pp. 53-73; A. Osbat, «È il perdonar magnanima vendetta». I pacificatori tra bene comune e amor di Dio, in Ricerche di storia sociale e religiosa, 53, 1998, pp. 121-146 (spec. pp. 129-131), centrato sullo Stato pontificio.

[13] Cui è stato dedicato un omonimo volume L’infrajudiciaire du Moyen Âge à l’époque contemporaine. Actes du colloque de Dijon (5-6 octobre 1995), a cura di B. Garnot, Dijon, 1996. In tempi più recenti, certa storiografia ha mostrato un qualche disagio nei confronti di questo termine, che sottintenderebbe l’inferiorità delle pratiche conciliatorie rispetto al modello giudiziario (cfr. P. MacCaughan, Le baile du seigneur et la résolution des conflits à la fin du Moyen Âge, in Entre justice et justiciables. les auxiliaires de la justice du Moyen Âge au XXe siècle, a cura di C. Dolan, Quebec, 2005, pp. 601-616, spec. 602-3 e 615-6). A nostro giudizio, però, si tratta di una polemica dal carattere più linguistico che non sostanziale e che può esser risolta attraverso una mera puntualizzazione, giacché non si contende sul contenuto della categoria dell’ ‘infrajudiciaire’, quanto sull’appropriatezza dell’espressione in sè.

[14] M. Sbriccoli, Giustizia negoziata, giustizia egemonica. Riflessioni su una nuova fase degli studi di storia della giustizia criminale, in Criminalità e giustizia in Germania e in Italia, cit., pp. 345-364, ma anche Id., Giustizia penale, in Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, a cura di M. Fioravanti, Roma-Bari, 2003, pp. 164-167. Cfr. pure M. Damaska, I volti della giustizia e del potere: analisi comparatistica del processo, Bologna, 1991, pp. 309-313.

[15] Vallerani, La giustizia pubblica medievale, cit., pp. 26-28.

[16] A. Zorzi, Politica e giustizia a Firenze al tempo degli ordinamenti antimagnatizi, in Ordinamenti di giustizia fiorentini. Studi in occasione del VII centenario, a cura di V. Arrighi, Firenze, 1995, p. 108. Son spunti di riflessione che lo stesso autore ha ripreso in Conflits et pratiques infrajudiciaires dans les formations politiques italiennes du XIIIe au XVe siecle, in L’infrajudiciaire, cit., pp. 19-336.

[17] L’ha giustamente notato la Niccoli, Rinuncia, pace, perdono, cit., p. 252. In questo senso si muovono, per l’età moderna, gli studi di C. Povolo, L’intrigo dell’onore. Poteri e istituzioni nella Repubblica di Venezia tra Cinque e Seicento, Verona, 1997 e di O. Raggio, Faide e parentele: lo stato genovese visto dalla Fontanabuona, Torino, 1990, pp. XVII ss, 8-30; Id., Visto dalla periferia. Formazioni politiche di antico Regime e stato moderno, in Storia d’Europa, IV, L’età moderna. Secoli XVI-XVIII, a cura di M. Aymard, Torino, 1995, pp. 515-18; Id., La politica nella parentela. Conflitti locali e commissari in Liguria orientale (secoli XVI-XVII), in Quaderni storici, n.s., 63, 1986, pp. 737 e ss.; J. Bossy, Peace in the Post-Reformation, Cambridge, 1998; S. Carroll, The peace in the feud in sixteenth-and seventeenth-century France, in Past and present, 178, 2003, pp. 78-115.

[18] M. Rossi, Polisemia di un concetto: la pace nel basso medioevo. Note di lettura, in Quaderni di storia religiosa,  XII, 2005, pp. 9-45; M. R. Dessì, Pratiche della parola di pace nella storia dell’Italia urbana, in Pace e guerra nel basso Medioevo. Atti del 40 Convegno storico internazionale: Todi, 12-14 ottobre 2003, Spoleto, 2004 (Atti dei convegni del centro italiano di studi sul basso medioveo - Accademia Tudertina e del centro di studi sulla spiritualità medievale, n.s. diretta da E. Menestò, 17), pp. 271-312, saggio ripreso poi, col titolo Pratique de la parole dans l’histoire de l’Italie urbaine, in Prêcher la paix et discipliner la société. Italie, France, Angleterre (XIIIè-XVè siècles), a cura di Ead., Turnhout, 2005 (Collection d’études médiévales de Nice, 5), pp. 245-278.

[19] D. Toschi, Practicarum conclusionum iuris in omni foro frequentiorum, Romae, 1606-1608, VI, lett. P, concl. CLXXI, nn. 1-4, 14, 26, 29, pp. 115-16.

[20] Queste le quattro grandi accezioni del termine. Può essere tuttavia rimarchevole notare come fino al secolo scorso il primo significato di ‘pace’ fosse quello di concordia privata e solo per terzo si considerasse l’aspetto delle relazioni internazionali (oltre al Toschi, cfr. ad es. G. Rezasco, Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo, Firenze, 1881, rist. anast. Bologna, 1966, pp. 730-734), mentre oggi S. Battaglia-G. Barberi Squarotti, Grande dizionario della lingua italiana, XII, Torino, 1984, pp. 318-322 inverte totalmente l’ordine.

[21] G. Claro, Liber Quintus sive practica criminalis, in Id., Opera omnia sive Practica civilis, atque criminalis (…), Venetiis, 1640, q. 58, n. 39, p. 485.

[22] G. B. Baiardi, Additiones, et annotationes insignes ac solemnes ad Iulii Clarii Lib. V Receptarum Sententiarum sive Practicam criminalem (…), Parmae, 1597, q. 58, n. 73, c. 185r.

[23] Pone bene la distinzione Padoa Schioppa, Delitto e pace privata, cit., p. 211.

[24] S. Guazzini, Tractatus ad defensam inquisitorum, carceratorum, reorum, et condemnatorum tomi duo simul legati, Venetiis, 1671, II, def. 34, cap. I, n. 2, p. 169. Il Toschi opportunamente diceva che “pax non pertinet ad pecuniarum extimationem, sed ad iniuriarum, et rancoris extimationem” (Toschi, Practicarum conclusionum, cit., VI, lett. P, concl. CLXXI, n. 33, p. 116).

[25] Così, S. Guazzini, Tractatus de pace, treuga, verbo dato alicui principi, vel alteri personae nobili, et de cautione de non  offendendo, Maceratae, 1669, p. I, q. 4, n. 1, p. 3, che in pratica schematizza la pace in una duplice ed incrociata remissione ad opera di entrambe le parti.

[26] Toschi, Practicarum conclusionum, cit., VI, lett. P, concl. CLXXI, n. 6, p. 116.

[27] P. Cavallo, Resolutionum criminalium, Florentiae, 1646 (prima ed. Venetiis, 1607), cas. 245, n. 5, II, p. 107.

[28] E. Bossi, Tractatus varij criminales, qui fere omnem criminalem materiam complectuntur (…), Lugduni, 1575, tit. de pace, n. 3, p. 404, ma anche G. M. Vermiglioli, Consilia criminalia ad defensam in romana curia edita, Romae, 1651, cons. 223, n. 10, p. 317.

[29] Tavilla, Paci, feudalità e pubblici poteri, cit., p. 54.

[30] Era il tribunale criminale centrale bolognese (cfr. F. Boris, T. Di Zio, Il grande archivio degli atti civili e criminali di Bologna, in Studi in onore di Arnaldo D’Addario, a cura di R. M. Zaccaria, L. Borgia, F. De Luca e P. Viti, Lecce, 1995, I, pp. 269-290).

[31] Niccoli, Rinuncia, pace, perdono, cit., rispettivam. pp. 227, 228, 240 e ss. Sostanzialmente analoghe le conclusioni di Tomás y Valiente, El perdon de la parte ofendida, cit., pp. 92-94. Addirittura di ‘età dell’oro’ per la pace privata nei secoli XVI e XVII ha parlato A. Soman, Deviance and criminal justice in Western Europe 1300-1800: an essay in structure, in Criminal justice history, 1, 1980, pp. 16 e ss.

[32] Padoa Schioppa, Delitto e pace privata, cit., p. 249, che poi sottolinea la sua proliferazione come preliminare alla concessione delle grazie (su cui torneremo infra, § 3.2).

[33] Tavilla, Paci, feudalità e pubblici poteri, cit., p. 71.

[34] Su questa magistratura, mi si permetta il rinvio (anche per l’opportuna bibliografia) a D. Edigati, La ‘tecnicizzazione’ della giustizia penale. Il magistrato degli Otto di guardia e balia nella Toscana medicea del primo Seicento, in Archivio storico italiano, CLXIII (2005), disp. III, pp. 385-430.

[35] Gatti, L’imputabilità, cit., pp. 368 e ss, spec. 381-388.

[36] Mi riferisco sia, ad un livello più ampio, a singoli ordinamenti giuridici, sia, ad un livello più ristretto, a certe tipologie di reati. Nel primo senso, ad es. W. M. Bowsky, The medieval commune and internal violence. Police power and public safety in Siena, 1287-1355, in American historical review, 73, 1967, pp. 12-13 ha provato come nel comune di Siena, tra fine XIII e inizio XIV secolo, all’istrumento di pace fossero riconosciuti effetti estintivi sulla causa avviata (su Siena, cfr. infra). Un fenomeno simile è stato ravvisato, nella stessa epoca, ad Avignone da J. Chiffoleau, Les justice du Pape. Délinquance et criminalité dans la région d’Avignon au quatorzième siècle, Paris, 1984 (Histoire ancienne et médiévale, 14), pp. 222-3. Nel secondo senso, su cui torneremo a breve, alludo a categorie di reati minori.

[37] Così come in Spagna: cfr., oltre al citato saggio di Tomás y Valiente, anche (per quanto molto sinteticamente), M. P. Alonso Romero, El proceso penal en Castilla (siglos XIII-XVIII), Salamanca, 1982, pp. 182-183, che sottolinea l’eccezione rappresentata dal delitto d’adulterio. Sul punto, oltre ai citati saggi di Padoa Schioppa, precisi sia nell’interpretazione dell’evoluzione dottrinale che di quella statutaria – che giunsero ad escludere effetti della pace sul processo in corso –, cfr. il rapido sunto di Vallerani, La giustizia pubblica medievale, cit., p. 172.

[38] Cfr. ad es. Statuti della Repubblica fiorentina, a cura di R. Caggese, II, Statuti del Podestà dell’anno 1325, Firenze, 1921, lib. II, rubr. LXXXVI, pp. 152-157.

[39] Lo hanno dimostrato dapprima le ricerche di M. B. Becker, Changing patterns of violence and justice in fourteenth-and fifteenth century Florence, in Comparative studies in society and history, 18, n. 3, 1976, pp. 281-296 e poi più largamente quelle di A. Zorzi, L’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica fiorentina. Aspetti e problemi, Firenze, 1988, pp. 85 e ss; Id., Politica e giustizia a Firenze, cit. pp. 105-109 e 139-144; Id., Contrôle social, ordre public et répression judiciaire à Florence à l’époque communale: éléments et problèmes, in Annales ESC, XLV, 1990, pp. 1169-1188. Cfr. poi L. Martines, Lawyers and statecraft in Renaissance Florence, Princeton, 1968, pp. 226 e ss.

[40] A. Zorzi, Ordinamenti e politiche giudiziarie in età laurenziana, in Lorenzo il Magnifico e il suo tempo, a cura di G. C. Garfagnini, Firenze, 1992, p. 148.

[41] Statuta populi et communis Florentiae publica auctoritate collecta castigata et praeposita anno salutis 1415, Friburgi, [ma Firenze], 1778-1781, I, pp. 56-58.

[42] La si può vedere riprodotta in L. Cantini, Legislazione toscana, Firenze, 1800-1808 [del quale si veda ora l’edizione digitale a cura di M. Montorzi, Pisa, 2006], II, pp. 43-47.

[43] Statuta populi et communis Florentiae, cit., I, lib. III, rubr. 118, p. 324.

[44] M. A. Savelli, Pratica universale, Firenze, 1715, voce ‘Pace’, n. 6, p. 213. Quasi certamente, il Savelli ebbe notizia (e forse consultò direttamente) la Provvisione concernente a chi si aspetti dar la pace à delinquenti, che vogliano godere il benefizio di quella del di 22 ottobre 1476 (stampata a Firenze nel 1627 da Pietro Cecconcelli dall’originale conservato nell’Archivio delle riformagioni) in uno dei volumi della raccolta di leggi e bandi in BUPi, Ms. 482, cc. 18 e ss. (sulla qual raccolta, nonché sul suo costituire una fonte primaria per il Savelli ed i vari membri tecnici delle magistrature medicee, mi si consenta il rinvio a D. Edigati, Da una raccolta di leggi e bandi alla letteratura giuridica “d’apparato”, in Tecniche di normazione e pratica giuridica in Toscana in età granducale. Studi e ricerche a margine della Legislazione toscana raccolta ed illustrata dal Dottore Lorenzo Cantini Firenze, 1800-1808, a cura di M. Montorzi, Pisa, 2006 (Incontri di esperienza e di cultura giuridica, 2), pp. 93-147).

[45] Cfr. entrambe in BUPi, Ms., 482, cc. 26r-28r e 30r-32r. Le citazioni che seguono sono ivi tratte.

[46] Su questa, come su altre simili clausole diminuentes iuris ordinem, basti qui rinviare a M. Meccarelli, Arbitrium. Un aspetto sistematico degli ordinamenti giuridici in età di diritto comune, Milano, 1998 (Pubblicazioni della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Macerata, n.s., 39), pp. 280 e ss.

[47] Tutto salvo in seguito (BUPi, Ms. 482, c. 32r) mitigare la perentorietà del termine, autorizzando ampiamente una proroga di due terzi del medesimo, con la sola cautela di un giuramento degli Otto che attestasse che “così giudicano essere di bisogno per migliore informatione e piu chiara intelligentia di tal causa”.

[48] Ben delineata in E. Fasano Guarini, Considerazioni su giustizia stato e società nel Ducato di Toscana del Cinquecento, in Florence and Venice: comparisons and relations. Act of the two Conferences at Villa I Tatti in 1976-1977 organized by Sergio Bertelli, Nicolai Rubinstein, and Craig Hugh Smyth, Florence, 1980, II, pp. 135-168.

[49] Cito da BUPi, Ms., 482, c. 51r, in cui si trascrive una copia di una lettera degli Otto di guardia al capitano di Cortona del dicembre del 1547 e una degli Otto di pratica del 6 febbraio dello stesso anno.

[50] Cantini, Legislazione toscana, cit., II, pp. 41-42.

[51] Sui quali si rinvia a A. D’Addario, I «Capitoli della militia» e la formazione di un ceto di privilegiati alla periferia del Principato mediceo fra XVI e XVII secolo, in Studi in onore di Leopoldo Sandri, a cura dell’Ufficio centrale per i beni archivistici e della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari dell’Università di Roma, Roma, 1983, II, pp. 347-380, ora ripubblicato (con aggiornamenti e variazioni) col titolo L’«Honorata militia» del Principato mediceo e la formazione di un ceto di privilegiati nel contado e nel distretto fiorentino dei secoli XVI e XVII, in Archivio storico italiano, disp. IV, 2004, pp. 697-738. Si veda inoltre F. Angiolini, Politica, società e organizzazione militare nel Principato mediceo. A proposito di una «Memoria» di Cosimo I, in Società e storia, a. IX, 31, 1986, pp. 32-37; Id., Le Bande medicee tra “ordine” e “disordine”, in Corpi armati e ordine pubblico in Italia (XVI-XIX secolo): seminario di studi, Castello Visconti di S. Vito Somma Lombardo, 10-11 novembre 2000, a cura di L. Antonielli e C. Donati, Soveria Mannelli, 2003, pp. 30-43 e ivi, A. Contini, Il sistema delle Bande territoriali fra ordine pubblico e riforme militari nella prima età lorenese, pp. 189-191. Sulle Bande è ora da vedersi F. Alunno, Bande ed amministrazione del territorio nella politica di instaurazione medicea. Una prima ricognizione normativa, in Tecniche di normazione e pratica giuridica, cit., pp. 9-92, in part. 50-57 sull’amministrazione della giustizia.

[52] Cantini, Legislazione toscana, cit., II, p. 16.

[53] Si veda tale norma nei privilegi annotati in appendice al testo di T. Crispolti, Casus militares discussi, ac risoluti a Tullio Crispolto I.C. Reatino dum erat generalis auditor exercitus S.D.N. Urbani Papae VIII, Romae, 1635, privilegio 16, p. 15. Sui privilegi dei militari nello Stato della Chiesa, cfr. G. Brunelli, Poteri e privilegi. L’istituzione degli ordinamenti delle milizie nello Stato pontificio tra Cinque e Seicento, in Cheiron. materiali e strumenti di aggiornamento storiografico, XII, 23, 1995, pp. 117-121. Per simili concessioni in altre realtà italiane, cfr. E. Dalla Rosa, Le milizie del Seicento nello Stato di Milano, Milano, 1991, pp. 97-101; W. Barberis, Le armi del Principe. La tradizione militare sabauda, Torino, 1988, pp. 29-34; D. Ligresti, L’organizzazione militare del Regno di Sicilia (1575-1635), in Rivista storica italiana, a. CV fasc. III, 1993, pp. 654-5; Le istituzioni dei Ducati parmensi nella prima metà del Settecento, a cura di S. Di Noto, Parma, 1980, pp. 118-120. Sulla dignitas del miles nell’universo della società di status dello ius commune, cfr. le pagine di S. Di Noto Marrella, «Doctores». Contributo alla storia degli intellettuali nella dottrina del diritto comune, Padova, 1994 (Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza, 19), II, pp. 57-86.

[54] Cantini, Legislazione toscana, cit., IV, cap. VI, pp. 367-368 (cit. seguente a p. 368).

[55] Cfr. le due missive nel libro di leggi e bandi del notaio Abbracciabeni di San Gimignano (ASFi, Acquisti e doni, 6 , c. 92v). Su questo registro, cfr. anche per riferimenti bibliografici, M. P. Geri, ‘Che lo dica da la su e poi sarà calato’. Un processo criminale tra istruzioni di cancelleria e carte d’archivio, in Rivista di storia del diritto italiano, anno LXXVI, n. LXXVI, 2003, p. 257 e nt. 17.

[56] Sulla Balia senese, D. Marrara, Studi giuridici sulla Toscana medicea. Contributo alla storia degli stati assoluti in Italia, Milano, 1965 (rist. inalt. Milano, 1981), pp. 130-175; M. Ascheri, Siena nel Rinascimento. Istituzioni e sistema politico, Siena, 1985, pp. 36-42.

[57] Cantini, Legislazione toscana, cit., V, pp. 62-63.

[58] Cantini, Legislazione toscana, cit., VII, risp. pp. 49-50 (del 6 agosto 1568) e 69-70 (del 4 gennaio 1569).

[59] Così aveva stabilito una lettera circolare dell’auditore fiscale Aurelio Manni il 3 gennaio 1566 (cfr. Cantini, Legislazione toscana, cit., V, p. 287): la pena pecuniaria versata dall’accusato era devoluta per metà al fisco, per un quarto al rettore che aveva condannato e per l’ultimo quarto all’offeso.

[60] I quali, naturalmente, una volta soddisfatta la vittima, acquisivano il diritto di regresso verso i violatori dell’accordo. Una norma analoga, anche se a parti inverse, fu emanata nel ducato di Ferrara da Alfonso I d’Este nel 1531 (cfr. Tavilla, Paci, feudalità e pubblici poteri, cit., p. 67 e nt. 35), con cui si obbligava i notai ad inserire nell’atto una clausola espressa in virtù della quale le sentenze di condanna non producessero effetti solo contro i principali delinquenti che pur non fossero nominati e non avessero ratificato la pace, ma anche nei confronti dei “principali che havranno fatta la pace o tregua” ed i loro fideiussori.

[61] Cantini, Legislazione toscana, cit., VIII, pp. 322-324.

[62] Cfr. lo statuto di Siena, distinctio III, rubr. 165 in L’ultimo statuto della Repubblica di Siena (1545), a cura di M. Ascheri, Siena, 1993 (Accademia senese degli Intronati, Monografie di storia e letteratura senese, XII), p. 359.

[63] Liber statutorum Arretii, Florentiae, 1580, lib. III, rubr. 12, p. 147.

[64] G. Nori, Criminalista del modo di procedere ne gl’atti criminali; in servitio de’ Notari, Procuratori, Giudici novelli, et di ogn’altro, che sappi leggere, con utile particulare et universale, Siena, 1578, p. 104.

[65] M. A. Savelli, Pratica universale, Firenze, 1665, pp. 298-303. Per maggiori informazioni sia sull’Autore, che sulle sue opere mi si passi il rinvio a D. Edigati, Una vita nelle istituzioni. Marc’Antonio Savelli girista e cancelliere tra Stato pontificio e Toscana medicea, Modigliana, 2005.

[66] Qui utilizzeremo quella cit. veneziana del 1715, in cui la voce ‘Pace’ è alle pp. 216-219.

[67] Faccio mia l’espressione che F. Angiolini, Il lungo Seicento (1609-1737): declino o stabilità, in Storia della civiltà toscana, III, Il Principato mediceo, a cura di E. Fasano Guarini, Firenze, 2003, pp. 41-76 ha usato per esprimere la continuità dell’azione politico-istituzionale ravvisabile durante il regno degli ultimi quattro sovrani medicei, continuità che si incrinò solo con il mutamento dinastico e l’arrivo dei Lorena, nel 1737.

[68] J. K. Brackett, Criminal justice and crime in late Renaissance Florence, 1537-1609, Cambridge, 1992, pp. 90-91.

[69] C, 2,4,18.

[70] Claro, Liber Quintus, cit., q. 58, n. 15, p. 477.

[71] Savelli, Pratica universale, voce ‘Pace’, n. 19, p. 217.

[72] Liber statutorum Arretii, cit., lib. III, rubr. 12, p. 147.

[73] Cavallo, Resolutionum criminalium, cit., cas. 74, n. 9, I, p. 132. Ricordiamo anche che questo giurista fu sostenitore dell’interpretazione più estesa della facoltà di transigere, dato che non esitò a dirsi favorevole ad essa persino nell’ipotesi di adulterio (ivi, II, cas. 245, pp. 105-6).

[74] Ad es. P. Cavallo, Tractatus de omni genere homicidij, Florentiae, 1629, n. 411, p. 37 escludeva il godimento di ogni beneficio (della pace, come della confessione) per i colpevoli di ‘omicidio proditorio’. Carbasse, Histoire du droit pénal, cit., pp. 188-189 opera una duplice distinzione più profonda e convincente: da un lato tra criminalità endogena ed esogena e dall’altro tra reati violenti d’occasione e crimini ‘a sangue freddo’ o commessi da recidivi, dove nelle seconde ipotesi prevaleva la “répression dissuasive et exemplaire”. Ma, come lui stesso avverte, siamo tuttoggi in attesa di “recherches plus approfondies” sul punto.

[75] Gatti, L’imputabilità, cit., p. 383.

[76] G. P. Massetto, Un magistrato e una città nella Lombardia spagnola. Giulio Claro pretore a Cremona, Milano, 1985, pp. 322-23.

[77] Toschi, Practicarum conclusionum, cit., VI, lett. P, concl. CLXXI, n. 10, p. 116: “instrumentum non est necessarium ad pacem, quia sufficit consensus, et pactum: ideo probatio per testes idem operatur quod instrumentum”.

[78] Il dibattito è ben sintetizzato in G. D. Rainaldi, Observationum criminalium, civilium, et mixtarum, Venetiis, 1699, I, cap. VIII, § 1, p. 489.

[79] Ivi, n. 18.

[80] Per tutti, L. Cabrini Chiesa, Gesti e formule di pace: note in margine alll’età medievale, in Quaderni di storia religiosa, XII, 2005, pp. 47-97, spec. 47-59, ma anche C. K. Schreiner, “Gerechtigkeit und Frieden haben sich geküßt” (Ps. 84, 11). Friedensstiftung durch symbolisches Handeln, in Träger und Instrumentarien des Friedens in hohen und spaten Mittelalter, a cura di J. Fried, Sigmaringen, 1996 (Vorträge und forschungen, XLIII), pp. 37-86.

[81] Cavallo, Resolutionum criminalium, cit., cas. 141, n. 10, I, p. 293.

[82] Statuta populi et communis Florentiae, cit., I, p. 324 “possit etiam dicta pax probari per testes legitimos solvendo gabellam, supradictam”.

[83] Doveva esser conservato in una filza di suppliche oggi alluvionata.

[84] Sul quale ora vedi Edigati, La ‘tecnicizzazione’ della giustizia penale, cit., pp. 500, 511. Cfr. l’annotazione in ASFi, Miscellanea repubblicana, 116, c. 162r.

[85] Savelli, Pratica universale, cit., voce ‘Pace’, n. 18, p. 217, ma anche Id., Summa diversorum tractatuum, Venetiis, 1707, III, voce ‘Pax’, n. 20, p. 286.

[86] In effetti, lo stesso Rainaldi, Observationum criminalium, loc. ult. cit., n. 20, riconosceva alla fine del suo discorso che “tutius tamen proceditur cum instrumento, ne fraudes commitatur”.

[87] Mi avvalgo dell’espressione proposta da Elena Fasano Guarini, I giuristi e lo Stato nella Toscana medicea cinque-seicentesca, in Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del Cinquecento, I. Strumenti e veicoli della cultura. Relazioni politiche ed economiche, Firenze, 1983, pp. 229-247.

[88] ASFi, Otto di guardia e balia del principato [d’ora innanzi: Otto di guardia], 2108, proc. di Pisa contro Ermolao Parducci del 21-22.1.1717, fasc. 4743.

[89] Il richiamo è a P. Farinacci, Responsorum criminalium, Venetiis, 1606-1621, I, cons. 98, n. 8 e ss, c. 349r, ma anche a Vermiglioli, Consilia criminalia ad defensam, cit., cons. 223, n. 9, p. 317.

[90] ASFi, Otto di guardia, 2108, proc. di Pisa contro Simone Bartalena, fasc. 4743.

[91] ASFi, Otto di guardia, 2139, proc. di San Miniato contro Luca Soldaini del 17-21.7.1733, fasc. 7775.

[92] Bando sopra gl’acciarini, canne, ruote d’archibusi, e bastoni ordinarj. Sopra le catture di chi fosse trovato senza licenza a i monasteri. E sopra le processure, e pene di fratture di pace, di bestemmie, d’incesti, di coiti nefarj, di sodomie, e d’adulterj, del dì 16 gennaio 1699 ab Incarnatione, in Cantini, Legislazione toscana, cit., XXI, pp. 91-92.

[93] Sulla finalità, come sul disegno reale di Cosimo III, intento nel modellamento di un diritto uniforme su base territoriale, attuabile anche per il tramite dell’imposizione autoritativa della ‘ragion commune’, rimando a quanto ho scritto nel cap. III della mia tesi di dottorato dal titolo Gli occhi del Granduca. Tecniche inquisitorie e arbitrio giudiziale tra stylus curiae e ius commune nella Toscana secentesca, Università degli studi di Macerata, Dottorato di ricerca in storia del diritto, ciclo XIX, A. A. 2005/2006, rel. Prof.ssa F. Colao.

[94] S. Bonfini, Notabilia in bannimentis generalibus ditionis ecclesiasticae (…) quibus in hac tertia editione accesserunt suppletiones uberrimae in singula capita (…) Opera, ac studio Francisci Antonii Bonfinii authoris ex filio nepotis, Lucae, 1714, I, cap. XXXIII, n. 37 p. 509. Al n. 36, pp. 508-9 aveva dato atto della contraria disposizione assodata dal Savelli. Anche il Bonfini non contestava l’opportunità di avere la scrittura “ut evitentur fraudes”.

[95] Sul punto, Tavilla, Paci, feudalità e pubblici poteri, cit., p. 60.

[96] Baldo degli Ubaldi, In feudorum usus commentaria. Andreae Barbatiae, alias excusis, Vincentiique Godemini, IVD Pisis ordinarium iuris canonici legentis, adnotationibus illustrata, Venetiis, 1580, rubr. de pace tenenda, et eius violatoribus, in princ., p. 56r.

[97] O. Volpelli, Tractatus de tregua, et pace, in Tractatus universi juris, XI, De iudicijs criminalibus, p. I, q. 51, n. 1, c. 411v.

[98] Farinacci, Praxis et theoricae, cit., II, Venetiis, 1607, q. 107, p. I, art. 6, n. 57, p. 525 (che comunque in seguito ne puntualizzava la reale applicabilità nello stato della Chiesa, cfr. nn. 62 e ss, p. 563).

[99] Per la Toscana, lo diceva anche il Savelli, Pratica universale, cit., voce ‘Pene’, n. 12, p. 223.

[100] BUPi, Ms. 482, cc. 49r-50r: Poena rumpentis pacem, inducias, vel alias promissiones.

[101] Infatti, l’Armaleoni cita un processo del mag. contro Francesco e Lorenzo Bandocci, senza indicarne precisamente gli estremi (lo ho poi reperito in ASFi, Otto di guardia, 2074, fasc. 314 del 6-9.8.1701), nel quale sì si optò per la pena arbitraria, ma previo accertamento della mancata ‘rottura’ della pace e dell’esistenza di una nuova causa di dissenso con l’offeso. Ciò prova anche quanto smaliziata sia l’operazione di recupero di sedimenti giurisprudenziali a sostegno delle proprie tesi.

[102] Cfr. sul punto A. Concioli, Resolutiones criminales theoricopraticae alphabetico ordine pro maiori Lectoris facilitatae dispositis, Venetijs, 1749, v. Pax, res. 24, n. 1, p. 271.

[103] Su questo processo, basti rinviare a M. Montorzi, Giustizia in contado. Studi sull’esercizio della giurisdizione nel territorio pontederese e pisano in età moderna, Firenze, 1997, pp. 73 e ss e a L. Mannori, Il Sovrano tutore. Pluralismo istituzionale e accentramento amministrativo nel principato dei Medici (sec. XVI-XVIII), Milano, 1994 (Per la storia del pensiero giuridico moderno, 45), pp. 55 e ss.

[104] Cfr. ad es. ASFi, Otto di guardia, 1977, proc. di Certaldo contro Matteo Magazzini del 25.9.1631; Otto di guardia, 1980, proc. di Bagno contro Niccolò dal Poggiolo del 21.10.1634.

[105] ASFi, Otto di guardia, 1983, proc. di San Giovanni contro Bartolomeo di Iacopo del 26.9.1637.

[106] ASFi, Otto di guardia, 376, proc. contro Francesco Tilli del 27.4.1657, cc. 136v-137r.

[107] Era infatti entrato in ruolo nel febbraio del 1641 (cfr. ASFi, Magistrato supremo, 4338, c. 138r).

[108] Cavallo, Resolutionum criminalium, cit., cas. 75, I, pp. 132-133. Il vago cenno ai descritti si ha al n. 10, p. 133.

[109] Sul tema della memoria e la sua essenzialità nell’esperienza giuridica del diritto comune, si vedano le pagine di M. Montorzi, Fides in rem publicam. Ambiguità e tecniche del diritto comune, Napoli, 1984 (Storia e diritto. Studi e testi raccolti da R. Ajello, E. Cortese, V. Piano Mortari, Studi, 12), pp. 217 e ss.

[110] Cfr. infatti ASFi, Miscellanea repubblicana, 166, c. 214r.

[111] ASFi, Otto di guardia, 2042, proc. del mag. contro Giovanni Battista Baldi e altri del 23.12.1672, fasc 187.

[112] Invero, risulta complicato attribuire senz’ombra di dubbio il parere in questione a Cesare Parasacchi, potendo esser uscito dalla penna del padre Giulio, che allora era formalmente titolare della carica di auditore delle Bande. Tuttavia, fin dal settembre del 1672, Cesare faceva le veci del padre (cfr. la mia tesi di dottorato cit., vol. appendice, p. 221), per cui dobbiamo presumere che il voto fosse stato da lui sottoscritto. E’ d’uopo mantenere qualche margine di incertezza, visto che spesso i pareri erano stilati alcuni mesi prima che la causa venisse discussa e risolta dagli Otto.

[113] E infine registrata dal Savelli nelle edizioni della Pratica universale successive alla prima del 1665 (cfr. op. cit., voce ‘Pace’, n. 3, p. 216, con trascrizione di ampi stralci del negozio originale).

[114] Cfr. il voto dell’auditore degli Otto Curzio Poli in ASFi, Otto di gurdia, 2048, proc. di Vicopisano contro Sabatino Baglini del 1.4.1675, fasc. 1070.

[115] Il fatto – non tanto la risoluzione, dato che si potrebbe trattare di una causa delegata, quanto l’aver emesso anche il rescritto –, si può forse spiegare con la considerazione che abbiamo prove che l’Autore esercitò, in certi periodi (e peraltro certamente proprio nel corso del 1681), le mansioni di luogotenente fiscale e sostituì il primo ministro del fisco (cfr. Edigati, Una vita nelle istituzioni, cit., pp. 90-91).

[116] Savelli, Pratica universale, cit., voce ‘Pace’, n. 3, p. 216.

[117] D, 2,1,19 (l. penult. ff. de iurisd.omn.iudic.), dove ci si chiede se sia eseguibile una sentenza proferita da un giudice contro una donna, quando essa, sposatasi, ricada sotto la competenza di un altro organo giudiziario e si conclude affermativamente. Inoltre, si veda la lex incola ad 34 ff. ad Municipal. (D, 50, 1, 34), nella quale si sfrutta l’analogia con lo status dei cittadini destinati a pubblici offici, che non possono rinunziare alla cittadinanza “nisi perfecto munere”).

[118] Crispolti, Casus militares discussi, cit., cas. 32, n. 12, p. 184 “Ex praeventione aurem is potissimum resultat effectus, quod causa sit prosequenda coram iudice, qui citare incepit, etiam si post praeventionem citatus forum mutaverit, et etiam conditionem personae, adeo ut privilegium ex mutatione acquisitum nihil prosit, quoad causam in qua praeventa est iurisdictio”.

[119] Cavallo, Resolutionum criminalium, cit., cas. 147, nn. 15 e 27, I, p…

[120] ASFi, Carte strozziane, IV serie, 716, cc. 339r-340r, proc. di Pisa contro Alessandro Brunacci del 1701 (il rescritto è datato 4.4.1701).

[121] Giovanni D’Andrea, In Sextum decretalium librum novelli commentaria, Venetiis, 1581 (rist. anast., Torino, 1966), in cap. unic. de clericis coniugatis, cc. 92a-93 e Felino Sandei, Commentariorum (…) in Decrealium libros V, Venetiis, 1574, II, in cap. 2 de foro competenti [X, 2, 2, 2], n. 3, col. 152 (per cui il privilegio, se canonico, “nunquam datur carenti ordine nisi iure exprimatur”).

[122] Alla base, v’era infatti la lex mulieres C. dignit. (C, 12,1,13): “Mulieres honore maritorum erigimus, genere nobilitamus et forum ex eorum persona statuimus et domicilia mutamus”.

[123] In questo senso, C. Crespi de Valdaura, Observationes illustratae decisionibus Sacri Supremi Regii Aragonum Consilii, Supremi Consilij S. Cruciatae, et Regiae Audientiae Valentinae. Editio novissima…, Lugduni, 1677, obs. 55, n. 54, II, p. 63 “ex contractu matrimonii resultat, qua unum corpus, et una caro vir et uxor efficiuntur”. Cfr. poi l’Epilogus privilegiorum iuris communis et de personis, seu militibus, qui illis fruuntur alphabetica serie distinctus, a conclusione di Crispolti, Casus militares discussi, cit., p. 34 e F. de Amaya, In tres posteriores libros Codicis Imperatoris Iustiniani, in Id., Opera iuridica, seu commentarii in tres posteriores libros Codicis Imp. Iustiniani, necnon Observationes iuris nunc noviter additae, Lugduni, 1667, lib.10, tit. 39 (‘De incolis’), nn. 26 e ss., p. 328 (dove, a proposito della cittadinanza, si sostiene che la moglie acquista quella del marito e che la ratio “non est in obscuro, quai per matrimonium (…) uxor ita unitur viro, et unam domum constituant (…) et unam carnem et unum corpus”.

[124] Su questo celebre brano della Genesi (2, 18 e 22-24), che illustra l’essenza del matrimonio, cfr. J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, Torino, 1989, pp. 32, 131, 179, 234.

[125] Vedi in ASFi, Carte strozziane, IV serie, 716, cc. 340r-341r una copia di una informazione del vicario di Pescia non datata, che rinvia ad una decisione della Rota romana del 1666 coram Ottalora (Sacrae Romanae Rotae decisionum recentiorum a Paulo Rubeo J.C. romano selectarum, Venetiis, 1716, XIV, dec. 472, n. 2, p. 481 “Magis dignus trahet ad se minus dignum, eique proprium privilegium communicet, quando omnium ius est deductum”). Ma cfr. lo stesso Amaya, In tres posteriores libros, cit., tit. 39, n. 27, p. 328 “et ea est natura unitorum quae quod minus est trahit ad se”.

[126] Ibidem.

[127] Alunno, Bande ed amministrazione del territorio, cit., pp. 57-60; D. Sassetti, Lari e il suo tribunale: i processi civili e militari della prima metà del XVIII secolo, s.l., 2004, pp. 55-59.

[128] Cfr. un parere anonimo in ASFi, Carte strozziane, IV serie, 716, cc. 341v-342r.

[129] Cantini, Legislazione toscana, cit., XXI, p. 358 (cap. XIII, n. 3 dei Capitoli, ordine e privilegi delle milizie toscane, pedestri, equestri, stabiliti, e concessi dall’Altezza Reale di Cosimo III Gran Duca etc. del dì 20 agosto 1706).

[130] Cantini, Legislazione toscana, cit., XXIV, p. 325 (art. IX, n. 2 degli Ordini e privilegi militari per le milizie nazionali toscane, e per il lor Tribunale rinnovati l’anno 1741 dall’Altezza Reale di Francesco III Duca di Lorena e di Bar Granduca di Toscana etc. del dì 9 agosto 1741 ab Inc.). Si consideri inoltre che nelle carte che illustrano il procedimento di approvazione della nuova versione dei ‘Capitoli’ (ASFi, Segreteria di guerra 1747-1808, 513, ins. 31 [anno 1741]) non v’è traccia di alcuna discussione sul contenuto della norma che ci riguarda.

[131] Sul tema, vastissima sarebbe la letteratura; qui ricordiamo: G. Alessi, Prova legale e pena. La crisi del sistema tra evo medio e moderno, Napoli, 1979; I. Rosoni, Quae singula non prosunt collecta iuvant. La teoria della prova indiziaria nell’età medievale e moderno, Milano, 1995; Meccarelli, Arbitrium, cit., e la bibliografia ivi richiamata a p. 196, nt. 3.

[132] Oltre a quanto osservato in precedenza, tale linea di demarcazione tra i due secoli interessò certamente l’intero rito procedurale (cfr. il mio La ‘tecnicizzazione’ della giustizia penale, cit., pp. 509 e ss.).

[133] Cfr. ASFi, Acquisti e doni, 6, c. 92v.

[134] Sullo Staccoli, cfr. una nota biografica in G. Pansini, Le segreterie nel principato mediceo, in, Inventario del carteggio universale di Cosimo I, a cura di C. Lamioni e A. Bellinazzi, Firenze, 1977, p. xliv, nt. 154.

[135] ASFi, Otto di guardia, 1971, Pisa contro Rodomonte Favilli e altri del 9.8.1624, con rescritto favorevole del primo segretario di stato Curzio Picchena del 14 agosto.

[136] Testimoniata in modo assai evidente in un ms. anonimo secentesco dal titolo ‘Formule criminali’, conservato presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze, segn. ms. B.v.22, cc. 96 e ss, in cui è trascritto il negozio relativo ad una inquisizione di Pescia del 1666, con un parere – per l’appunto – di Giulio Parasacchi.

[137] La circolare, come vedremo, è reperibile esclusivamente nei registri di leggi e bandi ad uso delle circoscrizioni territoriali con competenza penale (cfr. ad es. ACSM, Vicariato di San Miniato, 4597, c. 7r-v). Su questi registri, si veda un cenno in Edigati, Da una raccolta di leggi e bandi, cit., p. 121.

[138] Ossia i fondi ‘Consulta, poi Regia Consulta’ e ‘Leggi e bandi appendice’ dell’Archivio di stato di Firenze.

[139] Ad una ricerca compiuta attraverso l’edizione digitale del Cantini citata, si ricava che la raccolta contiene ben 133 circolari dei più disparati ministri e magistrati, ma di queste solo 60 sono precedenti al 1700. Occorrerebbe in più restringere ulteriormente la ricerca escludendo quelle date alle stampe che, per ciò stesso, avevano avuto una diffusione più ampia.

[140] Così, con approvazione di Cosimo III, nel proc. di Anghiari contro Batista, Domenico e Mariotto d’Agnolo del 16.1.1672 (ASFi, Otto di guardia, 2039, fasc. 4915).

[141] E, si noti bene, in tal guisa la circolare del Parasacchi venne implicitamente approvata. Infatti, nel proc. del mag. contro Filippo Segolini del 21-22.3.1675 (ASFi, Otto di guardia, 2048, fasc. 1067) l’auditore delle Bande sorprese gli Otto nonché il fiscale Luci ed ebbe la meglio, accludendo la sua circolare al proprio parere (“dall’acclusa lettra circolare da me fatta d’ordine di S.A.S. potra riconoscere il magistrato loro qual’sia la mente della medesima Altezza che le pene arbitrarie non si riduchino, e non se ne dia diminutione”).

[142] Come lui stesso dichiara: Savelli, Pratica universale, voce ‘Statuti’, n. 52, p. 294.

[143] ASFi, Otto di guardia, 2050, mag. contro Iacopo Pasquini e altri del 14.1.1676, f. 1375. Il tutto è stato poi puntualmente documentato con la trascrizione dell’intero negozio (con l’unica imprecisione del nome dell’imputato, che non è tale Nannini), dal Savelli, Pratica universale, voce ‘Statuti’, n. 52, p. 294.

[144] ASFi, Otto di guardia, 2054, proc. del mag. contro Francesco Masini del 24.5.1677, fasc. 1920.

[145] Cantini, Legislazione toscana, cit., IV, pp. 181-182: Legge sopra la interpretatione, et vigore de’ rescritti di S.E. Illustriss. et delle lettere, et decreti de’ suoi magistrati, passata nel Consiglio de’ Quarantotto il dì 29 luglio 1561.

[146] Ho cercato di descrivere questa ragnatela tessuta dai giuristi sulle altre fonti normative e in part. sui rescritti in Edigati, Una vita nelle istituzioni, cit., pp. 92-94.

[147] Ho cercato di illustrare passo per passo le logiche della partecipazione nel primo cap. della mia tesi cit. Gli occhi del Granduca, pp. 17-73. Per il momento, si veda Geri, ‘Che lo dica da la su, cit., pp. 276-278.

[148] La si può vedere riprodotta in Savelli, Pratica universale, voce ‘Statuti’, n. 52, pp. 294-5. Non ho trovato invece esemplari della stessa a Firenze (ma le filze di bandi e circolari degli Otto sono alluvionate); nei libri dei rettori è invece stata copiata a mano (es. ACSM, Vicariato di San Miniato, 4597, c. 106v, intitolata Lettera circolare circa li benefizij de soldati).

[149] Sul punto, cfr. le osservazioni di E. Fasano Guarini, Principi e territori in Italia. Il caso toscano tra Cinque e Seicento, in La società dei principi nell’Europa moderna (secoli XVI-XVII), a cura di C. Dipper e M. Rosa, Bologna, 2004, pp. 156-57.

[150] Cifre attinenti al vicariato di Lari nel XVIII secolo in Sassetti, Lari e il suo tribunale, cit., pp. 78 e ss.

[151] Su questa figura, ha ora centrato l’attenzione un recente studio di M. P. Geri, “Merce straniera venuta di oltremonte”: appunti su Carmignani e l’agiotaggio, in L’indice penale, n.s., a. VII, 1, 2004, pp. 417-442, che ha dimostrato come i giuristi toscani a cavallo tra XVIII e XIX secolo (e specialmente Carmignani) abbiano imperniato su tale crimine la costruzione di “una sorta di categoria generale dei comportamenti frodatori” (p. 426).

[152] Quello che Meccarelli ha con maetsria ravvisato nelle varie categorie dei crimina innominata, ossia dei reati senza pena prescritta e dei delitti puniti con pena straordinaria commissa a statuto, del crimen stellionatus ed infine del delitto tentato (Meccarelli, Arbitrium, cit., pp. 200-210).

[153] E’ chiaro che il Savelli, probabile estensore della circolare, fa qui riferimento ad uno degli ambiti di ricorrenza del “fenomeno della sostituzione delle pene ordinarie”, quello appunto dell’ “adeguamento della pena alle circostanze e all’elemento psicologico del reato”, ma Meccarelli ha evidenziato come altre due ipotesi applicative erano la “valutazione della prova indiziaria” e l’ “aggiornamento di pene edittali desuete” (per tutto Meccarelli, Arbitrium, cit., pp. 211-254).

[154] ASFi, Otto di guardia, 2061, proc. di Ripomarance contro Marc’Antonio Cercignani e altri del 12.1.1680, fasc. 5063.

[155] ASFi, Otto di guardia, 2069, proc. del mag. contro Piero Guadagni del 17-21.11. 1699, fasc. 6358.

[156] Cantini, Legislazione toscana, cit., XXI, p. 358.

[157] Per tutti, si vedano E. Cortese, Contumacia (diritto intermedio), in Enciclopedia del diritto, X, Milano, 1962, pp. 452-58 e ora L. Garlati Giugni, Inseguendo la verità. Processo penale e giustizia nel ristretto della pratica criminale per lo stato di Milano, Milano, 1999, pp. 217-229, con bibliografia aggiornata.

[158] Cfr. as es. ASFi, Otto di guardia, 1971, Pieve S. Stefano contro Sandro di Francesco e Francesco di Martino del 22.11.1624; ivi, Borgo S. Sepolcro contro Bernardino di Christofano del 18.2.1625; Otto di guardia, 1981, S. Giovanni contro Piero Toci del 22.9.1635 e Prato contro Domenico Masi del 5.10.1635; Otto di guardia, 1988, Terra del Sole contro Piero d’Ulivo e altri del 5.12.1642. Molte sarebbero poi le missive (con specificazione espressa di non ridurre la pena) degli auditori rinvenibili presso gli archivi delle corti locali (vedine un es. in ASPi, Vicariato di Lari, 778, c. 586, De Pretis al vicario, 23.7.1641). E’ evidente che la prassi periferica deviava dal modello che centralmente si intendeva imporre.

[159] Cfr. ASFi, Otto di guardia, 1970, Scarperia contro Giovanni Campani e Antonio Bernardi del 22.6.1615. Di quegli anni è anche una lettera dell’auditore Antonio Del Pozzo al vicario di Lari (ASPi, Vicariato di Lari, 733, c. 895r-v, del 9.9.1615).

[160] ASFi, Otto di guardia, 1981, Anghiari contro Santi e Bastiano Acquisti del 21.7.1635 e Lucignano contro Girolamo Donnini del 27.4.1635; Otto di guardia, 1984, proc. del mag. contro Cristofano Sociani e altri del 7.8.1638.

[161] ASFi, Otto di guardia, 1989, Lari contro Bastiano Magnani del 18.7.1643, in cui è l’auditore De Pretis a suggerire la modifica al disegno del vicario ed il magistrato a votare un partito a sostegno di quest’ultimo; sarà il rescritto a firma del segretario di stato Gondi a accogliere il parere dell’auditore. L’orientamento dei giudici delle milizie resta costante anche con l’avvicendarsi di diverse personalità. Del resto, a fine 1646 la tendenza favorevole al contumace troverà consacrazione in certe decisioni degli Otto: cfr. ASFi, Otto di guardia, 1992, mag. contro Bastiano Pieruzzi e altri del 17-22.12.1646.

[162] G. Alessi, Giustizia penale e foro ecclesiastico: l’area italiana, in Justice pénale et droit de clercs en Europe XVIe-XVIIIe siècles, sous la direction de B. Durand avec la collaboration de M. Lesné-Ferret, Lille, 2005, pp. 83-99.

[163] ASFi, Otto di guardia, 1981, Empoli contro Vettorio Bucchi del 22.9.1635. Analogamente, sebbene con diverso tono, ivi in Pescia contro Frediano Landucci e altri del 5.10.1635.

[164] U. Santarelli, Ius commune e iura propria: strumenti teorici per l’analisi di un sistema, in Rivista di storia del diritto italiano, LXII, 1989, p. 427, cui si rinvia anche per una lettura complessiva del rapporto ius commune-iura propria.

[165] ASFi, Otto di guardia, 2030, Pescia contro Piero di Fante e Giuseppe di Bernardo del 23.8.1668, fasc. 1632.

[166] Guazzini, Tractatus de pace, treuga, cit., p. I, q. 26, n. 4, p. 59.

[167] Come nel caso appena visto del 1668 (nt. 165).

[168] ASFi, Otto di guardia, 2039, Vicopisano contro Cosimo Gambaccini del 29.12.1671, fasc. 4900. Forse queste incertezze iniziali stanno anche in un momento di trapasso che gli Otto stavano vivendo, dopo il lungo segretariato del Poli e che fu tale fino alla stabilizzazione nella carica del Savelli, proprio a fine 1671.

[169] Cfr. il cit. negozio di Anghiari contro Batista, Domenico e Mariotto d’Agnolo (ASFi, Otto di guardia, 2039, fasc. 4915), da cui è tratta anche la seguente citazione.

[170] Cfr. infatti un processo precedente addirittura alla circolare, ma di qualche mese dopo al negozio citato nella nt. prec.: ASFi, Otto di guardia, 2050, S. Giovanni contro Andrea Mucini del 3.3.1676, fasc. 1440.

[171] Sull’istituto, regolato in Toscana da una legge di Cosimo I e da una circolare degli Otto (risp. Cantini, Legislazione toscana, cit., I, pp. 249-250; III, pp. 354-5) si veda A. M. Monti, Iudicare tamquam Deus. I modi della giustizia senatoria nel Ducato di Milano tra cinque e settecento, Milano, 2003 (Università degli studi di Milano, Pubblicazioni dell’Istituto di storia del diritto medievale e moderno, 32), pp. 351 e ss.

[172] Ad es. ASFi, Otto di guardia, 1981, proc. di Arezzo contro Domenico Detti del 18.5.1635.

[173] Basti qui il rinvio alla ricostruzione storica di M. Verga, La Ruota criminale di Firenze (1680-1699). Amministrazione della giustizia penale e istituzioni nella Toscana Medicea tra sei e settecento, in Grandi tribunali e Rote nell’Italia di antico Regime, a cura di M. Sbriccoli e A. Bettoni, Milano, 1993, in part. pp. 223-4. Il nuovo auditore fu il senatore Leonardo Carrillo.

[174] Cfr. ASFi, Otto di guardia, 2075, Arezzo contro Christofano di Martino del 6-9.3.1702, fasc. 528.

[175] Cavallo, Resolutionum criminalium, cit., cas. 110, n. 22, I, p. 229.

[176] Ivi, nn. 32-34, p. 230.

[177] Cfr. il proc. del mag. contro Giovanni Battista Bandinucci del 14-15.12.1703 in ASFi, Otto di guardia, 2080, fasc. 1193, sempre escludendo la multa di 500 scudi.

[178] ASFi, Carte strozziane, IV serie, 716, cc. 4v-5r. L’esempio scovato non è ben individuato, giacché non si citano gli estremi del fascicolo, ma crediamo di poterlo rinvenire – dato che la coincidenza della data del rescritto che l’anonimo fornisce, cioè il 31 agosto – nel citato negozio del 1668 di Pescia contro Piero di fante (supra, nt. 164).

[179] Padoa Schioppa, Delitto e pace privata, cit., pp. 249-250, ma cfr. poi, sempre in relazione alla specifica situazione milanese, G. Politi, Aristocrazia e potere politico nella Cremona di Filippo II, Milano, 1975 (Biblioteca di storia lombarda moderna e contemporanea. Studi e ricerche, 3), pp. 375-378; Massetto, Un magistrato e una città nella Lombardia spagnola, cit., pp. 310 e ss ed i più recenti cenni in Monti, Iudicare tamquam Deus, cit., pp. 355-56 e M. G. Di Renzo Villata, Egidio Bossi. Un grande criminalista milanese quasi dimenticato, in Ius Mediolani. Studi di storia del diritto offerti dagli allievi a Giulio Vismara, Milano, 1996, pp. 404-5, 547. Si vedano infine C. Nubola, La «via supplicationis» negli stati italiani della prima età moderna (secoli XV-XVIII), in Suppliche e «gravamina». Politica, amministrazione, giustizia in Europa (secoli XIV-XVIII), a cura di C. Nubola e A. Würgler, Bologna, 2002, pp. 55-58 e, nel medesimo volume, K. Härter, Negoziare sanzioni e norme: la funzione e il significato delle suppliche nella giustizia penale della prima età moderna, p. 293; Rovigo, Le paci private, cit., pp. 209-210. E’ poi da vedersi il datato Tomás y Valiente, El perdon de la parte ofendida, cit., pp. 88-92.

[180] Solo a mo’ di esempio, ASFi, Camera e auditore fiscale, 980, n. 109 (supplica dell’aprile 1626). La grazia è di tre quarti della pena in ASFi, Otto di guardia, 2341, suppl. n. 71 del gennaio del 1626 per un caso di “insulto con arme” e ‘delazione’ di pugnale.

[181] ASFi, Camera e auditore fiscale, 1217, suppl. n. 245 del novembre 1677.

[182] Così ivi, suppl. n. 237 (riduzione di due terzi della pena più composizione del residuo in due anni) o n. 238 (ugualmente, ma con rate in un anno), entrambe del novembre 1677.

[183] M. G. Di Renzo Villata, Tra ius nostrum e ius commune. Il diritto patrio nel Ducato di Milano, in Il diritto patrio tra diritto comuen e codificazione (secoli XVI-XIX). Atti del Convegno internazionale. Alghero, 4-6 novembre 2004, a cura di I. Birocchi e A. Mattone, Milano, 2006, p. 226 l’ha rilevata altrettanto a Milano, ma in riguardo a reati di lieve entità.

[184] Per queste distinzioni, è d’obbligo il rinvio a F. Migliorino, Fama ed infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico dei secoli XII e XIII, Catania, 1985. Per l’età moderna, è da vedersi la trattazione concisa e chiara di L. A. Muratori, Introduzione alle paci private, Modena, 1708, pp. 122-123.

[185] Solo con Pietro Leopoldo si tentò un loro riscatto: cfr. C. Mangio, La polizia toscana. Organizzazione e criteri d’intervento (1765-1808), Milano, 1988 (La “Leopoldina”. Criminalità e giustizia nelle riforme del ‘700 europeo. Ricerche coordinate da L. Berlinguer, 6), pp. 16-17, 33, 48-49.

[186] ASFi, Miscellanea repubblicana, 116, c. 223v, annotazione del giorno 11.6.1662.

[187] Possiamo validamente constatare, già tre giorni dopo la dichiarazione della Consulta, la sua applicazione in ASFi, Otto di guardia, 453, c. 70r, in ordine ad una supplica del caporale Pietro Ferroni, con specificazione che “cosi fù ordine dalla Consulta per relatione del sig. segretario Poli come al libro dei ricordi e statuti”.

[188] Migliorino, Fama ed infamia, cit., pp. 94 e ss.

[189] Cfr. il tutto in Savelli, Pratica universale, cit., voce ‘Pace’, nn. 8-10, p. 216.

[190] V. Guglielmi, Pratica criminale secondo lo stile dello stato di Toscana, Siena, 1775, p. I, cap. XXI, n. 12, p. 108.

[191] ASFi, Otto di guardia, 2471, suppl. n. 301 del maggio 1701.

[192] Cfr. il testo della supplica in ASFi, Camera e auditore fiscale, 1217, n. 233 dell’ottobre 1677. Il memoriale citato non è ivi compreso, ma le allegazioni dottrinali sono annotate in un foglietto originariamente autonomo e quindi incollato al fascicolo, forse redatto ad opera di qualche cancelliere.

[193] G. Menochio, De arbitrarijs iudicum questionibus, et causis. Libri Duo, Venetijs, 1624, lib. II, cas. 290, n. 22, p. 564.

[194] Confermato poi da Guazzini, Tractatus ad defensam inquisitorum, cit., praefatio, n. 25, pp. 3-4, il quale proprio dalla ‘viltà’ degli ebrei aveva inferito la loro incapacità ad esercitare la professione avvocatizia, al contrario di quella di procuratore, proprio in quanto “officium procuratoris sit vilissimum”.

[195] La lex cunctos populos C.de sum Trinit.et fide cath. (C,1,1,1) e la lex nemo C. de episc. (C, 1,4,15).

[196] G. Mascardi, Conclusiones omnium probationum, quae in utroque foro quotidie versantur, iudicibus, advocatis, causidicis omnibus…, Augustae Taurinorum, 1624, II, concl. 945, nn. 21 e ss, p. 142.

[197] Sulle quali, Migliorino, Fama ed infamia, cit., pp. 139 e ss.

[198] ASFi, Otto di guardia, 2079, mag. contro Vincenzo Corsi del 26.9-2.10.1703, fasc. 1117.

[199] ASFi, Otto di guardia, 2074, Barga contro Giovan Battista Ialò del 19-23.9.1701, fasc. 353.

[200] Le citazioni sono ancora da Savelli, Pratica universale, cit., voce ‘Pace’, n. 28, p. 218.

[201] Muratori, Introduzione alle paci private, cit., p. 157. Continuando, il noto giurista e pensatore asseriva che alla persona virtuosa e seguace della gisutizia “non s’accorda l’essere nimico d’una giusta pace”.

[202] Tavilla, Paci, feudalità e pubblici poteri, cit., pp. 54-56; Bellabarba, Pace pubblica e pace privata, cit., pp. 203 e ss. Tale facoltà non era esercitabile al contrario dai tribunali ordinari, a differenza della ‘tregua’ o della cautio de non offendendo, che potevano essere imposte alle parti (Guazzini, Tractatus de pace, cit., p. 2, q. 9, pp. 186-87 e p. 3, q. 6, n. 5, p. 215).

[203] Centrale è l’esposizione di D. Frigo, Principe, giudici, giustizia: mutamenti dottrinali e vicende istituzionali fra sei e settecento”, in Illuminismo e dottrine penali, a cura di L. Berlinguer e F. Colao, Milano, 1990 (La “Leopoldina”. Criminalità e giustizia nelle riforme del ‘700 europeo. Ricerche coordinate da L. Berlinguer, 10), pp. 3-38, da cui ho tratto la precedente citazione (ivi, p. 4). Molto utili sono poi le pagine di A. M. Hespanha, La gracia del derecho: economia de la cultura en la edad moderna, Madrid, 1993. Cfr. infine N. Gonthier, Faire la paix: un devoir ou un delit? Quelques reflexions sur les actions de pacification a la fin du Moyen Age, in L’infrajudiciaire, cit., pp. 38-40.

[204] Cavallo, Resolutionum criminalium, cit., cas. 58, n. 2, I, p. 104.

[205] Simile è la prassi seguita in ASFi, Otto di guardia, 2644, n. 287, suppl. di Carlo Scacchetti del 15.7.1666 che, dimostrando di non aver guadagnato la pace “non ostante le diligenze fatte”, ebbe la grazia, sia pure con l’esilio a due miglia da Firenze “fino à che habbia la pace pena le Stinche non osservando”. Quindi, in questo caso il confino era provvedimento meramente temporaneo, destinato ad estinguersi non appena fosse raggiunto l’accordo tra le parti.

[206] ASFi, Otto di guardia, 2647, n. 95, lettera del Farinola del 27.11.1673.

[207] Cavallo, Resolutionum criminalium, cit., cas. 58, n. 16, p. 105, mentre cessava ogni difficoltà qualora la pace fosse stata concessa dall’offeso in persona, poiché allroa il suo dolore era mitigato “per eam et veniae petitionem ab offensore factam offenso”.

[208] ASFi, Otto di guardia, 2420, suppl. n. 121 di Pier Francesco Borghi dell’ottobre 1677.

[209] Savelli, Pratica universale, cit., voce ‘Pace’, n. 29, p. 218.

[210] ASFi, Otto di guardia, 2363, n. 220, rescritto firmato da Andrea Cioli, segretario di stato, il 5 giugno 1639. Si stabiliva anche il limite massimo di tre mesi per le proroghe e di “una rimessione sola nel’buon dì a rappresentarvisi”.

[211] Si veda il parere in ASFi, Otto di guardia, 2643, n. 42, registrato nel libro d’ufficio degli Otto (ASFi, Miscellanea repubblicana, 116, c. 224v) e poi dal Savelli, Pratica universale, cit., voce ‘Pace’, n. 36, p. 219, che ne traspose interi brani.

[212] In particolare D, 48,2,16 (lex si plures ff. de accusat.).

[213] Claro, Liber Quintus, cit., 58, n. 21, p. 478; P. Farinacci, Praxis et theoricae criminalis, I, Venetiis, 1595, q. 13, n. 1, c. 125r.

[214] Farinacci, Praxis et theoricae criminalis, cit., q. 14, n. 1, c. 132r-v e nn. 20-21, c. 134r. Sul punto, cfr. anche G. Zordan, Il diritto e la procedura criminale nel Tractatus de maleficiis di Angelo Gambiglioni, Padova, 1976 (Pubblicazioni della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Padova, 77), p. 352.

[215] Provisione concernente a chi si aspetti dar la pace à delinquenti, che vogliano godere il benefizio di quella del di 22 ottobre 1476: cito dall’esemplare dato alle stampe a Firenze, per Pietro Cecconcelli, 1627 e conservato in BUPi, Ms. 482, cc. 18 e ss, ma stando ad una lettera del medesimo Parasacchi al vicario di San Miniato (ACSM, 886, c. 2519, del 10.10.1661) fu edita nuovamente nel 1645. Il che mostra chiaramente l’estrema attualità della tematica e forse la necessità delle autorità fiorentine di riconfermarne la validità nel territorio.

[216] Montorzi, Fides in rem publicam, cit, pp. 149 e ss.

[217] Tomás y Valiente, El perdon de la parte ofendida, cit., p. 76.

[218] Cfr. il caso in ASFi, Otto di guardia, 2471, suppl. n. 304 di Francesco Saletti. Il rescritto reca data 18.6.1701. Altrove, a Milano per esempio, ci si risolse a concedere sub conditione la grazia (Massetto, Un magistrato, cit., pp. 321-22).

[219] ASFi, Otto di guardia, 2363, n. 202, suppl. di Francesco Bernardi.

[220] Così Volpelli, Tractatus de tregua, et pace, cit., q. 22, c. 408r; E. Bossi, Tractatus varij criminales, cit., tit. de pace, n. 13, p. 405; Farinacci, Praxis, cit., q. 14, n. 28, p. 135r; Guazzini, Tractatus de pace, cit., q. 11, n. 13, p. 22. Cfr. Zordan, Il diritto e la procedura criminale, cit., pp. 351-52.

[221] Guazzini, Tractatus de pace, cit., q. 11, nn. 11-13, pp. 23-24, ma anche Claro, Liber Quintus, cit., q. 58, n. 29, p. 482 e Baiardi, Additiones, et annotationes, cit., q. 58, n. 51, c. 183v.

[222] Cfr. i documenti del caso in ASFi, Otto di guardia, 2389, suppl. n. 51 di Francesco Buontempi del giugno 1659.

[223] Per un inquadramento del quale, cfr. ora A. Contini, La reggenza lorenese fra Firenze e Vienna. Logiche dinastiche, uomini e governo (1733-1766), Firenze, 2002 e M. Verga, Da cittadini a nobili. Lotta politica e riforma delle istituzioni nella Toscana di Francesco Stefano, Milano, 1990.

[224] Cfr. Cantini, Legislazione toscana, cit., XXVII, p. 36. Sul punto, un cenno in Contini, La reggenza lorenese, cit., pp. 219 e ss.

[225] D. Zuliani, La riforma criminale leopoldina, Milano, 1995 (La “Leopoldina”. Criminalità e giustizia nelle riforme del ‘700 europeo. Ricerche coordinate da L. Berlinguer, 2), II, p. 194.

[226] Il CXIX (cfr. Ivi, pp. 656-57).

[227] Si veda la ricostruzione della genesi dell’articolo riportata in Zuliani, La riforma criminale leopoldina, cit., II, pp. 657-668, con i pareri espressi dagli auditori Tosi e Cercignani in particolare.

[228] Si veda appunto quanto dichiarerà Pietro Leopoldo stesso nelle Relazioni sul governo di Toscana, a cura di A. Salvestrini, Firenze, 1969, I, p. 135, ma cfr. anche M. Da Passano, Dalla “mitigazione delle pene” alla “protezione che esige l’ordine pubblico”. Il diritto penale toscano dai Lorena ai Borbone (1786-1807), Milano, 1988 (La “Leopoldina”. Criminalità e giustizia nelle riforme del ‘700 europeo. Ricerche coordinate da L. Berlinguer, 4), pp. 26-27; F. Colao, “Post tenebras spero lucem”. La giustizia criminale senese nell’età delle riforme leopoldine, Milano, 1989 (La “Leopoldina”. Criminalità e giustizia nelle riforme del ‘700 europeo. Ricerche coordinate da L. Berlinguer, 7), pp. 120-130 e ora I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino, 2002 (Il diritto nella storia, 9), p. 498.

[229] Cfr. Cantini, Legislazione toscana, cit., XXIV, pp. 128-130 (perdono concesso da Francesco Stefano il 21.1.1739) e XXV, pp. 192-194 (indulto grazioso per i delinquenti del 20.9.1745).

[230] Guglielmi, Pratica criminale, cit., p. I, cap. XXI, nn. 11-12, p. 108.

[231] ASFi, Otto di guardia, 2151, fasc. 8821 del 18-30.4.1739, proc. di Prato contro Giovan Battista Pini per rissa.

[232] Ibidem, processi di Prato contro Barbera Bini e altri; S. Giovanni contro Antonio Mugnai e Giovan Battista Rimbotti e anche, nel fasc. 8823 (del 21.4/8.5.1739), proc. di Scarperia contro Carlo Zagli.

[233] G. Pansini, La giustizia criminale Toscana nelle riforme di Pietro Leopoldo, in Atti e memorie della Accademia Petrarca di lettere, arti e scienze, n. s., LXV, 2003, pp. 303 e ss.

[234] Cfr. la documentazione in ASFi, Supremo tribunale di giustizia, 2447, fasc. 80.

[235] ASPo, Archivio comunale, 3421, c. 87v, lettera del 16.5.1693. Si tratta di una circolare che fu inserita nella tarda compilazione di V. Guglielmi, Leggi e bandi criminali veglianti nei felicissimi stati di Toscana, Siena, 1774-5, I, p. 369.

[236] La si veda in ASFi, Supremo tribunale di giustizia, 2431, c. 40r, in data 18.2.1790.

[237] ASFi, Carte strozziane, IV serie, 716, voce ‘Pace’, c. 2.

[238] L. Cremani, De jure criminali libri tres, Florentiae, 1848, lib. I, p. III, cap. IV, n. IX, p. 203.

[239] F. M. Renazzi, Elementa juris criminalis, III, De judiciis criminalibus, ed. III, Romae, 1820, cap. V, pp. 287-88 “Etenim in delictis non adeo gravibus admittitur ut plurimum transactio cum iis, ad quos potissimum injuria pertinet ; et si horum remissio intercesserit, tunc vel statim, vel saltem facilius criminalis persequutio perimitur” (p. 288).

[240] M. Ferro, Dizionario del diritto comune e veneto, II ed., Venezia, 1845, II, pp. 374-75, che utilizza le opere di Farinacci, Clero, Cavallo e Toschi.

[241] G. A. Poggi, Elementa jurisprudentiae criminalis, Florentiae, 1715-19, I, cap. V, n. CV, pp. 118-9.

[242] Cecchi, Sull’istituto della pax, cit., p. 128, nt. 49 e p. 131. Rinvio a Carbasse, Histoire du droit pénal, cit., p. 223 per una bibliografia su “les survivances [della pace] encore constatées au XIXe siècle”.

[243] G. Schwerhoff, La storia della cominalità nel tardo medioevo e nella prima età moderna. Il ‘ritardo’ di un settore di ricerca, in Annali dell’Istituto storico italo-germanico di Trento, XXIV, 1998, pp. 584 e ss.