GLI STATUTI DELLA LIGURIA.

PROBLEMI E PROSPETTIVE DI RICERCA.

di Rodolfo Savelli

 






 

 

 

 


1. Il progetto di preparare un nuovo repertorio delle fonti statutarie della Liguria fu illustrato  a grandi linee più di dieci anni or sono
[1]; l'iniziativa si collocaa all'interno di quel rinnovato interesse verso le fonti statutarie cui si assiste da almeno un paio di decenni[2]. Sulla base di accordi con altri gruppi di lavoro (piemontesi, lombardi e toscani) si decise di svolgere tale censimento scegliendo come confini di indagine quelli amministrativi attuali delle Regioni, per evitare sovrapposizioni e duplicazioni: queste sarebbero state ineliminabili per quei territori, quali la Lunigiana, dalla complessa storia civile e istituzionale, che non si identifica con le vicende di uno solo degli stati d'ancien régime. Da un certo punto di vista potrebbe essere considerata una scelta in qualche modo antistorica, ma se tutti i gruppi giungeranno alla fine dei rispettivi lavori di censimento, l'area nord occidentale dell'Italia avrà una serie di strumenti di ricerca integrati tra di loro che (spero) renderanno in qualche modo superati i precedenti, e ad oggi insostituibili, lavori dello Sforza, del Rossi e del Fontana[3].

Rispetto ai precedenti repertori ci si è autolimitati anche dal punto di visto degli “oggetti” censiti: l'attenzione si è rivolta infatti ai soli statuti e regolamenti degli enti territoriali (città, comunità, universitates, borghi, ville), escludendo in linea di massima gli statuti corporativi e quelli di singoli uffici (penso, ad esempio, a quelli delle magistrature dell'abbondanza o dei monti di pietà, che si diffondono capillarmente in tutta la Liguria a partire dal Cinquecento)[4], anche se - è ovvio - spesso gli statuti possono includere parti o rubriche a ciò dedicate. Si sono invece censiti gli statuti campestri (o dei danni), non solo perché rappresentano spesso per le comunità minori quella identità giuridica che è l'equivalente dei grandi statuti delle civitates come Genova, Albenga o Savona, ma anche perché sono una fonte insostituibile per la storia delle comunità[5].

Il periodo preso in considerazione è quello che va dai primi brevia di Genova del XII secolo sino alla fine del Settecento, alla vigilia dell'esperienza giacobina e francese, nonostante il fatto che una certa qual parte di quella produzione normativa locale non sia andata del tutto in disuso[6].

Fino ad oggi sono stati schedati circa milleduecento testi, per più di cinquecento differenti redazioni statutarie: per molte comunità è rimasta a volte una sola testimonianza, di altre una serie ininterrotta di stesure e di riforme, dal XII-XIII secolo fino al XVII-XVIII; a volte si tratta di testi complessi, ampi, articolati (di decine o centinaia di pagine), a volte di smilzi provvedimenti di un paio di carte che regolamentano pochi usi locali relativi a raccolti e danni.

2. Una prima considerazione da farsi riguarda la distribuzione di questa esperienza statutaria nel territorio e nel tempo.

Se immaginiamo di aver di fronte ai nostri occhi delle carte geografiche in cui siano segnalate, distinte per secoli, le presenze di queste redazioni statutarie, la prima e piú significativa cosa che potremmo osservare è la differente distribuzione territoriale e storica del fenomeno[7]. Il Levante e il Ponente ligure sono le due zone in cui dal Duecento in avanti troviamo una diffusa e capillare presenza di statuti, che si infittisce sempre piú con il passare del tempo (anche se, come si vedrà, spesso la natura dell'oggetto che chiamiamo indifferenziatamente “statuto” muta, parzialmente o totalmente, a partire dalla seconda metà del Cinquecento in avanti). Dalle civitates ai piú sperduti borghi della montagna apenninica è un moltiplicarsi di comunità che hanno uno statuto.

Spostiamo ora lo sguardo al centro di questa carta, là dove è il genovesato. Non può non saltare subito agli occhi che per i primi secoli (si prenda il 1528 come data di demarcazione) l'unica località che compare è proprio, e solo, Genova. Le prime comunità che troviamo sulla costa con statuti propri sono, ad occidente, la podesteria di Varazze, Celle, ed Albisola e, ad oriente, Framura e Levanto[8]. Nell'interno troviamo Rossiglione, Savignone e Santo Stefano d'Aveto (tutte comunità feudali, quindi sottratte alla immediata giurisdizione genovese)[9]. Attorno a Genova vi è il vuoto. Il fatto merita una prima riflessione (anche se si dovranno attendere senz'altro piú approfondite ricerche future).

Questo “vuoto” di fonti statutarie attorno alla civitas non è certo una particolarità genovese, ma direi che in questo caso risulta appariscente (pensiamo come vi siano incluse importanti comunità quali Recco, Rapallo, Chiavari o Sestri). I due estremi sopra ricordati (da un lato, quella che sarà poi la podesteria di Varazze, e dall'altro Framura e Levanto) corrispondono ai confini del distretto così come risulta consolidato a partire dalla metà del '200. Gesta (il torrente Arrestra vicino a Cogoleto) e Deiva sono ricordati, ad esempio nelle convenzioni con Ventimiglia, con Albenga e con Savona, come i confini dell'areale degli habitatores Ianue[10].

Il problema è costituito dal fatto che nelle fonti del XII e degli inizi del XIII secolo si indicano come termini del distretto Gesta e Roboretum: mentre non vi sono problemi per Gesta[11] la storiografia è stata tutt'altro che unanime nell'identificazione di Roboretum, oscillando tra una località vicino a Zoagli e un'altra vicino a Framura; mentre nel secondo caso non sorgono sostanzialmente problemi (vista la vicinanza tra Deiva e Framura), accettando la prima ipotesi, invece, nascono questioni di non poco conto, visto che resterebbe fuori dal comitatus/districtus tutta la zona che va da Rapallo, appunto, fino a Framura[12].

Il problema si intreccia con la questione della confinazione ecclesiastica, vale a dire fin dove si estendesse la diocesi (e poi arcidiocesi) genovese, quali fossero i territori inclusi nell'episcopatus - indicato spesso nelle fonti come sinonimo di districtus. Sembrerebbe strano poter pensare che aree come Chiavari e Sestri facessero parte dell'episcopatus e non del districtus[13].

Il fatto è che tra gli inizi del XII e gli inizi del XIII si svolse l'azione di conquista politico-militare di questa parte della riviera e dell'entroterra apenninico, con lo smantellamento dei principali insediamenti signorili, al centro dei quali vi erano i Malaspina e i comites Lavaniae[14].

 In attesa di una ricerca più esauriente, credo per il momento sia verisimile l'identificazione di Roboretum con il toponimo vicino a Framura, visto che da un lato corrisponde ai confini con la diocesi di Brugnato, e che, dall'altro, si identifica sostanzialmente con i termini univoci di metà Duecento[15]. Tale affermazione è fatta avendo ben presente che il potere dei “lavagnini” e degli altri consorzi signorili costituiva un problema non ancora risolto per i consoli genovesi, ma non certo in termini di insediamento feudale sulla costa, a Lavagna[16]. E ciò potrebbe anche spiegare certe oscillazioni nelle fonti di tipo pattizio del XII secolo[17].

Nelle fonti normative troviamo che, fin dal breve del 1143, Gesta e Roboretum sono i termini del districtus, i confini della giurisdizione dei consoli genovesi (anche se in questo documento compaiono altre indicazioni non univoche), così come sono individuati, ad esempio, anche nel giuramento di fedeltà di Opizzo Malaspina al comune di Genova nel 1168[18];  tali compaiono anche negli statuti duecenteschi, proprio nella prima rubrica intitolata de manutenendo honorem archiepiscopatus Ianue omniumque ecclexiarum districtus Ianue[19].

Nelle stesse fonti, per altro, troviamo anche un altro tipo di indicazione: già nel breve del 1143 (come in quello del 1157) il binomio Gesta-Roboretum coesiste con l'altro, a Portu Veneris usque ad Portum Monachi, che con diverse varianti troveremo sempre come espressione del dominio di Genova (anche quando questo era di là da venire)[20]. Nel doppio volumen capitulorum duecentesco troviamo sempre questa coesistenza: Gesta-Roboretum, e Portus Veneris-Monacum.

Si potrebbe affermare (in via di ipotesi) che il primo binomio indicava (dal XII al XVI secolo) i termini di giurisdizione effettiva e di subordinazione immediata al governo genovese (il comitatus, l'episcopatus), mentre con il secondo si delimitavano gli spazi di esercizio della sovranità (ma anche di giurisdizione, sia pure non sempre immediata)[21]. Questo, credo, il motivo per cui tra Gesta e Deiva non troviamo statuti sino a tutto il Cinquecento (perché lí si applica il diritto di Genova) e quelli che troveremo successivamente saranno di tutt'altra natura e genere[22].

3. Visto che si è accennato ai capitula genovesi è il caso a questo punto di fare alcune considerazione sugli statuti di questa città; non tanto per riassumere in poche parole una storia plurisecolare, quanto per porre l'attenzione solo su alcuni punti, per evidenziare alcune particolarità (più che per illustrare quanto di comune ha con quella delle altre città italiane). E incominciamo da quell'accenno fatto sopra relativamente al doppio volume dei capitoli.

Come è noto, del primo testo complessivo degli statuti genovesi sono rimasti due manoscritti, di cui uno fu pubblicato nell'Ottocento sotto il nome di Statuti di Pera. L'altro manoscritto, preparato più o meno nello stesso periodo, conservato sempre alla Biblioteca Reale di Torino, ha avuto minore fortuna storiografica, forse per la frammentarietà del testo, forse per le cattive condizioni complessive del codice[23]; e ciò nonostante il fatto che, come ha osservato Piergiovanni, “il rubricario ed i capitoli rimasti ci mostrano una redazione statutaria piú estesa e piú curata di quella coeva conosciuta come Statuti di Pera”[24]. Abbiamo insomma due manoscritti che ci tramandano a grandi linee lo stesso testo statutario da collocare tra il 1221 come termine post quem, e il 1316 (ultime additiones datate; si tratta insomma di un testo con una forte impronta alluvionale, in cui la stratificazione diacronica delle norme è piuttosto sensibile).

Pongo il 1221 come termine post quem perché in quell'anno furono cancellati tre capitula “libertati ecclesie contraria” di cui non vi è in effetti piú traccia nei volumi rimasti[25] Il fatto che nel 1221 vi fossero “in capitularibus civitatis” tali rubriche sta senz'altro ad indicare che il processo di formazione statutaria si era ormai decisamente dilatato rispetto ai brevia del secolo precedente[26]. Quindi, nel 1229, quando come narra l'annalista, il Baldovini “capitula emendavit, et ipsa per libros distinxit” forse esisteva già una redazione statutaria di cui non abbiamo piú traccia come corpo autonomo[27].

I manoscritti in questione non sono, però, solo due differenti testimoni di una medesima tradizione testuale; queste due copie d'uso ci illuminano in effetti sul fatto che ancora agli inizi del Trecento era viva e operante la distinzione tra giurisdizioni cittadine delle compagne de versus burgum (per le quali era stata approntata la redazione usata per l'edizione dei Statuti di Pera) e quelle de versus civitatem (per le quali invece valeva un'altra redazione, da cui fu tratto l'altro manoscritto)[28].

Si legga in proposito un passo della prima rubrica dei cosiddetti statuti di Pera:

De universis quoque lamentationibus quas ante me fecerint inter se homines qui expendunt in IIII compagnis de versus burgum usque Gestam [...] iusticiam tractabo equaliter utriusque partis [...] De causis autem vertentibus inter homines IIII compagnarum et plebium de versus civitatem non me intromittam nisi quando speciali capitulo contineatur quod in aliqua causa possum facere[29].

Se passiamo all'altro manoscritto troviamo, invece, che la forma del giuramento prevede che il console giuri di risolvere le questioni “inter [...] homines qui expendunt in quatuor compagnis de versus civitatem usque Roboretum” e analogamente si impegnava a non occuparsi delle cause “inter homines quatuor compagnarum et plebium de versus burgum”[30].

Insomma lo statuto cittadino era (teoricamente) lo stesso, ma l'organizzazione della città era tale che si sentiva la necessità di scriverlo in due modi differenti, a seconda di quale gruppo di compagne lo avrebbe poi utilizzato (con una significativa ed esplicita proiezione verso il complesso del distretto). In questo senso ho prima scritto di un “doppio” volume degli statuti duecenteschi. Né si può pensare che tale divisione testimoniata dagli statuti fosse solo un avanzo di un'antica tradizione testuale di cui si era poi smarrito il significato[31]. Questa divisione urbana e istituzionale era talmente viva che almeno fino agli anni Trenta del Trecento giudicavano distintamente il consulatus burgi e quello civitatis; e ancora per buona parte del secolo è testimoniata l'esistenza di due distinti archivi notarili, quello de versus burgum e quello de versus castrum[32]. E' da metà Trecento in avanti che questa distinzione tende ad affievolirsi, in un processo di progressiva scomparsa.

Dalla fine del Duecento, inoltre, si moltiplicano le testimonianze del fatto che a fianco di questi volumina capitulorum (in cui era racchiusa la legislazione di tipo civile, criminale e commerciale) esisteva anche un altro volume, un magnum volumen capitulorum: ne sono rimasti solo miseri frammenti e citazioni, dai quali si può dedurre che vi fossero contenute soprattutto prescrizioni di tipo politico, amministrativo, ma le testimonianze sono cosí rade che è difficile per il momento dirne molto di piú[33]. Questa collocazione delle materie in corpi statutari differenti ebbe però a Genova una fortuna notevole, e non fu solo una partizione che rispondesse a meri criteri di praticità o di sistematicità, ma comportò una visione decisamente originale delle fonti del diritto proprio.

Come ho cercato di illustrare in un precedente lavoro, nel linguaggio giuridico, politico e cancelleresco genovese tra tardo medioevo e prima età moderna, non compare quasi mai il termine statutum, bensí quello di capitula e di regulae[34]. E mentre capitulum/capitula compaiono dal XII secolo, per regulae si deve aspettare l'avvento al potere di Simone Boccanegra. E' dal 1340 che compaiono con sistematicità riferimenti ai regulatores e al volumen regularum[35]. Cosa contenesse tale volume è impossibile dire, visto che anche questo è da annoverare tra le fonti perdute. Se volgiamo la nostra attenzione alla testimonianza degli annalisti veniamo a sapere che nel 1344, in una fase di acuto scontro tra nobili e popolari, tra guelfi e ghibellini, furono cambiate le regulae, e al Boccanegra “fuerunt date suo regimini regule et ordines, quos non auderet transcendere”. L'anno successivo il nuovo doge, Giovanni da Murta, “publica asseruit contione se regulis subdi velle ad modum Veneciarum ducis et prout electi ad condendas regulas disposuerint”[36].

Per meglio illustrare questa prospettiva, è significativo ricordare come l'annalista Stella abbia registrato i modi con cui, nel 1415, furono successivamente creati doge Barnaba di Guano e Tommaso Campofregoso: per il primo ricordava che i cittadini si riunirono e lo elessero “iuxta regularum ordinem” (e annotava poi che “rigide incipit Barnabas dux preesse, volens plenissime leges et sibi datas regulas ac statuta servare”); a proposito del secondo, invece, scriveva che “consulitur quod, cum esset Ianua multum lacerata dissidiis, eligatur preses qui regulis non sit subditus, cum lex erudiat ut in extraordinariis ordinem non servare sit ordo”[37]. Lo Stella in fondo riusciva ad evidenziare in poche righe quella che sarebbe stata una continua tensione per tutto il periodo tre-quattrocentesco, tra le esigenze di un sistema comunale-repubblicano e le aspirazioni da parte dei dogi al governo personale, all'instaurazione di dinastie familiari[38]. Non meno significativa ed icastica è la testimonianza di un annalista cinquecentesco: narra Agostino Giustiniani che Battista Campofregoso fu scalzato dal potere perché “tentò di esser fatto vicario dell'Imperatore sopra la città, volendo piú presto essere di quella signore e Duca a bacheta, che Duce sottoposto alle regole e a i capitoli della città”[39]

Le regulae, insomma, rappresentano un sistema separato di norme che riguardano la figura del doge (e della sua familia), in rapporto al sistema di governo[40]; offrono i parametri del progetto “costituzionale” entro cui i regulatores intendono far funzionare la macchina del Comune, della “respublica”. Sono un insieme di norme, quindi, che si collocano al di sopra del doge: cosí aveva stabilito nel 1344 il nuovo consiglio formato per metà di nobili e per metà di popolari. Non diversamente avvenne nel 1345 quando il successore del Boccanegra, Giovanni da Murta, riconobbe questa subordinazione richiamando addirittura il “modum Veneciarum ducis”; e sempre in termini analoghi vengono inquadrati i rapporti tra doge e regulae nei decenni successivi.

Delle regulae sono rimaste due redazioni: quella del 1363, di cui abbiamo un solo codice, e quella del 1413, di cui i testimoni si contano a decine (ne sono stati individuati per il momento ventinove); molti di questi sono tardi, del diciottesimo secolo, segno di un non mai sopito interesse (erudito anche, oltre che pratico e politico) verso questa fonte. In effetti dal momento che le regulae si ponevano al di sopra del doge e del governo, necessitavano di un soggetto politico-istituzionale di riferimento, di un autorità che facesse sí che le regulae fossero rispettate; questo soggetto era la magistratura dei sindacatori, tra i cui compiti vi era proprio quello di tutelare le regulae, di controllare l'operato del doge e del consiglio degli anziani, e che nelle regulae trovavano il testo ispiratore del loro operare[41].

L'interesse di questa vicenda è che il sistema concepito a metà Trecento, perfezionato nel Quattrocento, non si esaurí contestualmente alla fine del sistema di governo dei dogi a vita; la concezione di due differenti corpi di leggi (la legislazione ordinaria - civile e criminale, innanzi tutto, racchiusa negli statuti, nei capitula -, e la legislazione “costituzionale” - quella di ordinamento dello stato e dei sistemi di controllo, nelle regulae), continuò, mutato nome, nei secoli successivi, improntando di sé tutta la storia della repubblica genovese fino alla fine del Settecento. Anche se il termine di regulae non è quasi piú utilizzato, le leggi “costituzionali” del 1528 e del 1576 (frutto anch'esse della risoluzione di aspri conflitti interni e internazionali), non rappresentano altro che la riproposizione ad un nuovo livello di quel binomio normativo delineato per la prima volta a metà Trecento[42].

Non si vuole certo enfatizzare il caso delle regulae tre-quattrocentesche e delle leggi “politiche” cinquecentesche, ma nel panorama dei sistemi cittadini e repubblicani italiani esse rappresentano senz'altro un'esperienza caratterizzata da indubbia originalità; leggi e statuti relativi agli ordinamenti politici e istituzionali si trovano anche in altre situazioni, ma è raro trovare una cosí precoce e coerente concezione della diversità dei piani su cui si collocano i diversi sistemi normativi[43].

Relativamente al tema degli statuti civili e criminali di Genova il discorso meriterebbe diversi approfondimenti, per quanto riguarda sia la fortuna della ricordata redazione due-trecentesca, sia per i suoi progressivi adeguamenti e rinnovamenti tra 1375 e 1414, fino alla prima edizione del 1498[44]. Quello che mi preme qui segnalare, invece, è la fortuna dell'oggetto statuto in piena età moderna, quando, secondo i moduli di una visione tradizionale, lo statuto sarebbe generalmente andato in crisi a scapito della legislazione principesca[45].

Già l'espressione “legislazione principesca” dovrebbe farci riflettere sul fatto che certi modelli storiografici sono stati costruiti da un lato partendo dall'analisi di esperienze giuridiche e istituzionali basate su forme di governo monocratico, e non repubblicano, e dall'altro prendendo in considerazione lo statuto in modo indifferenziato, senza sostanzialmente distinguere quelli delle città soggette da quello della dominante[46].

In realtà se volgiamo lo sguardo a stati che mantengono fino alla fine del Settecento la forma repubblicana di governo, possiamo dire che lo statuto della città dominante (antiquato fin che si vuole, superato anche dalla legislazione corrente) è un oggetto che rivela in qualche modo una sua forte vitalità. L'ultima redazione degli statuti civili genovesi fu completata nell'inverno del 1588, e la prima edizione vide la luce nel 1589: oltre alla prima ne abbiamo contato altre 17 fino al 1787, quando fu ripubblicato il testo dello statuto con il commento di Giuseppe Bottino[47]; e ben 11 di queste 17 si assiepano tra il 1663 e il 1710, con una punta eccezionale nel 1688 quando l'editore Franchelli pubblicò addirittura due diverse edizioni: una in dodicesimo, “libretto da  mano”, e una in folio, destinata evidentemente ad un esclusivo pubblico di professionisti, visto che fu realizzata con grandissimi margini (su cui avvocati, causidici e cancellieri potevano liberamente annotare riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, modifiche legislative, etc.)[48].

Ancora nella seconda metà del Settecento, quando in tutta Europa era ormai aperto da tempo il dibattito sui codici, si porrà mano ad una nuova revisione; questa, però, non superò mai lo stato di progetto[49].*problema statuti criminali/civili e loro estensione

 

4. Dopo aver brevemente trattato degli statuti genovesi è il caso di volgere lo sguardo a quel complesso universo rappresentato appunto dagli “statuti liguri”. E' corretto innanzi tutto parlare di “statuti liguri” come di un insieme omogeneo? Si può postulare l'esistenza di un “diritto ligure” come fece il Besta?[50] Per il momento non credo di poter dare una risposta, né positiva né negativa, in quanto sarebbe necessario aver studiato approfonditamente tutte le diverse redazioni statutarie di tutte le comunità.

D'altronde, sul problema degli statuti da tempo si confrontano posizioni radicalmente opposte (anche fra i soli storici del diritto): da un lato vi è chi tende ad isolare un particolare statuto, a prepararne l'edizione, a sottolinearne caratteristiche e specificità individuali (che non possono non esserci); dall'altro una robusta tradizione storiografica tende a svalutare l'esperienza statutaria per il “modesto contenuto giuridico” per le “minuzzaglie di nessun interesse per lo storico del diritto [...] e l'assai relativa attenzione per assetti negoziali vitali”[51]. Queste posizioni hanno avuto per altro esiti comuni: la mancanza di studi tendenti a verificare complessive esperienze regionali o sub-regionali, dotate di un qualche grado di omogeneità (il famoso problema delle “aree statutarie”)[52].

Per la Liguria, in effetti, un tentativo vi fu dopo la pubblicazione del lavoro del Rossi: si tratta del breve ma stimolante saggio di Giovanni Zirolia. Fortemente influenzato dal Besta e sulla scorta delle indicazioni bibliografiche del Rossi, egli tentò (in meno di cento pagine) di tratteggiare un quadro degli statuti liguri come un'esperienza caratterizzata innanzi tutto dalle politiche accentratrici di Genova[53]. Nonostante molte ingenuità e superficialità, Zirolia intravvide alcuni temi che sono poi stati lasciati cadere dalla storiografia ligure, tutta tesa a enunciare la presunta assenza di strutture territoriali e statali a livello regionale[54]. Solo recentemente Piergiovanni ha tentato, proprio partendo dallo studio del fenomeno statutario e delle convenzioni, di ribaltare tale posizione e ha accennato ad una “via genovese allo stato moderno”, caratterizzata dalle politiche di controllo del centro sulle esperienze statutarie locali[55].

Il problema delle caratteristiche comuni di determinate esperienze statutarie può anche essere meglio compreso se non si dimentica che in tutte le esperienze di un certo livello di elaborazione erano sempre presenti notai e/o avvocati; cioè persone appartenenti a quel ceto formato e caratterizzato dal comune linguaggio e cultura del diritto romano-canonico, appreso negli studia o nei collegi locali[56]. E il diritto romano aveva caratterizzato precocemente la cultura e l'esperienza ligure[57].

In secondo luogo è da tenere presente che gli statuti delle comunità liguri (a parte Genova) rispecchiano in qualche modo quella che era in realtà una civiltà eminentemente contadina, anche se in essa le correnti di traffico e di commercializzazione dell'agricoltura erano fortemente presenti[58].

In terzo luogo va considerato che doveva essere diffuso in qualche modo un processo imitativo; vale a dire che si tendeva ad utilizzare precedenti corpi statutari (se non pedissequamente trascrivere dagli stessi). Se gli statuti duecenteschi di Savona (cosí come anche i successivi) presentano una forte caratterizzazione autonoma, già in quelli di Albenga del 1288 si possono individuare singoli “calchi” da quelli duecenteschi genovesi[59]. Analoghi risultati vengono da un confronto tra quelli di Genova e quelli tre-quattrocenteschi di Oneglia[60].*diano? levanto?

Il discorso sui processi imitativi si intreccia di necessità con il tema delle politiche di controllo svolte da Genova sulle pratiche statutarie locali. Ed è problema di non facile soluzione per il periodo che va fino alla fine del Trecento, data la distruzione delle maggior parte delle carte della cancelleria genovese; ma risulta da innumerevoli indizi che il tema fosse sempre presente al governo della capitale, anche in un periodo cosí turbinoso e di crisi come gli ultimi decenni del secolo XIV.

Approvando nel 1370 gli statuti di Portovenere, Domenico Campofregoso cassa un capitolo che poteva in qualche modo entrare in conflitto con i privilegi giurisdizionali di Genova[61]. Aggiunte e correzioni sono fatte agli statuti di Vezzano nel 1382[62]; decreti analoghi degli anni successivi ci testimoniano l'esistenza di redazioni statutarie non piú conservate[63]. Da un indice di atti preparato da uno dei cancellieri piú attivi ed importanti, Antonio Credenza, veniamo a sapere che tra il 1382 e il 1399 furono portati a Genova per essere approvati gli statuti di quasi trenta comunità[64].

Se dunque il controllo è in linea di principio costante e puntuale, non fosse altro che per una formula di tipo generale che si trova spesso in queste procedure di approvazione e conferma (si approvano “in quantum non sint contra capitula civitatis Ianue”), ovviamente vi erano differenti tipologie di controllo; queste differenze risultano evidenti in casi di statuti di comunità passate di frequente dalla dominazione di uno stato ad un altro, come molte località della Lunigiana.

Esemplare, da questo punto di vista, il caso di un manoscritto degli statuti di Falcinello: il passaggio dal governo fiorentino a quello genovese è testimoniato innanzi tutto dalle frequenti rasure della pergamena, con la sovrascrittura di “Genova” o “S. Giorgio”, là dove era scritto “Firenze” (o vi erano somme espresse in fiorini)[65]. Qualcosa del genere doveva aver fatto anche un notaio di Fivizzano nel trascrivere gli statuti di Ortonovo, perché nella formula di sottoscrizione annotava: “copiavi, et de ipsis statutis antiquis fideliter extraxi, prout in ipsis reperi, nil addendo vel minuendo, nisi forte literam vel sillabam, praeterquam ubi dicta statuta antiqua loquentur de Magnifica Dominatione tam Mediolanensi, quam Genuensi, mutavi in Excelsam et Magnificam Dominationem Florentinam”[66].

Se la stratificazione delle redazioni statutarie risulta evidente e facilmente leggibile nel caso del bel codice membranaceo degli statuti di Falcinello, risulta invece piú complesso individuarla in casi come quello degli statuti di Nicola nella redazione dei primi del Quattrocento: abbiamo solo manoscritti relativamente tardi, e l'alternarsi delle autorità (ora Firenze ora la casa di S. Giorgio) è appiattito in un testo apparentemente unitario[67].

Un caso paradossale, ma significativo, è quello di Pieve di Teco che meriterebbe senz'altro uno studio approfondito. Di questa comunità abbiamo trovato relativamente pochi testi statutari (a parte numerose copie dei bandi campestri): un manoscritto seicentesco degli statuti criminali approvati da S. Giorgio nel 1514[68], un manoscritto seicentesco della redazione completata a Pieve di Teco nel 1649 sotto la guida del capitano genovese (e giurista) Paolo Sauli[69]; e infine un'edizione stampata a Genova nel 1652 da Giovanni Maria Farroni.

Che testo viene però stampato nel 1652? Non certo quello redatto nel 1649 sotto l'attenta e diligente supervisione di Paolo Sauli. Le opposizioni di una parte della comunità e dei rappresentanti di alcune ville che facevano parte della castellania di Pieve avevano spinto il Senato di Genova a bloccare la nuova redazione statutaria, e in assenza di una copia autentica dei precedenti, a procedere alla stampa dell'esemplare “apparens ex caratere magis antiquum”[70]. Or bene, se confrontiamo l'edizione farroniana del 1652 con la stampa degli statuti quattrocenteschi di Genova curata dal Visdomini nel 1498, ci accorgiamo che il testo è sostanzialmente identico, a parte gli ovvi e necessari aggiustamenti. Discorso analogo vale anche per il ricordato manoscritto dei capitoli criminali approvati nel 1514, anch'essi ricalcati direttamente sull'edizione Visdomini*, ma che non furono ripresi nell'edizione del 1652; questione dell'estensione dei criminali*. Il caso, come dicevo, è (solo apparentemente) paradossale: a metà Seicento si ripubblica un testo molto datato, quasi non si sapesse più che era stato mutuato dalla redazione genovese del 1413-1414. Ma è anche significativo: in assenza per il momento di altri riscontri documentari, non possiamo fare a meno di pensare che a Pieve, quando nel 1512 finí sotto il controllo della Casa di S. Giorgio, furono estesi, pari pari, gli statuti allora vigenti a Genova.

E' indubbio che all'interno del personale di governo della Repubblica di Genova si potesse riscontrare anche una notevole sensibilità al problema del sistema degli statuti locali. Da questo punto di vista è da ricordare un passo della relazione redatta nell'estate del 1577 da Prospero Doria e Cesare Romeo, commissari sindacatori della riviera di ponente:

la detta podesteria [di Varazze] e il capitanato della Pieve et qualch'altri luoghi di detta Riviera si governano ogn'uno di loro sotto più sorte de statuti, cosa che si pare irragionevole et cosa ch'apporta et può apportare de molti inconvenienti. Giudicheriamo che fussi men male quelli d'una istessa Podesteria ridurli tutti ad una forma, massime che la più parte sono concessi espressamente ad beneplacitum Illustrissimae Dominationis[71].

Non sempre il controllo delle pratiche statutarie era cosí attento come nel caso di Pieve (anche se avremo modo di ricordare almeno un altro episodio significativo). Si procedeva anche per altre vie. L'edizione degli statuti di Ameglia. recentemente curata dal Silvestri, non ha incluso le fitte correzioni che furono fatte a Genova nel 1598; a conclusione di queste si trova una formula ricorrente in tale tipo di documenti: “nei casi ne quali non dispongono gli sodetti capitoli e riforme si habbi ricorso alli statuti criminali della Ser.ma Republica con imporre non dimeno la metà solo delle pene pecuniarie [...] e mancando in qualche capo detti statuti della predetta republica si attendi la dispositione della legge commune”[72]. Ad Ameglia, come in numerosissimi altri casi, il governo genovese proponeva (e/o imponeva) il proprio come diritto “comune” dello stato, e confinava il diritto romano nella posizione di vero diritto residuale[73].

Ma se ciò era forse semplice a fine Cinquecento, e nei confronti di una piccola comunità, meno lo era stato nel passato. Esemplare credo sia il testo della sentenza pronunciata nel 1361 da Andreolo de Mari e Giovanni Cattaneo, arbitri tra Genova e Sanremo [*gli stella, giustiniani??]: dal lungo elenco dei documenti presentati dai genovesi veniamo a sapere che vi erano capitoli e statuti del 1283, 1298, 1303, 1334, e che in questi ultimi “est capitulum positum sub rubrica de voluntate et arbitrio dominorum quod factum est tempore dominorum Anselini et Casani de Auria in quo continetur quod prefacti domini et quilibet ipsorum possint et possit addere et diminuere in dictis capitulis prout eis placuerit”[74]. I sanremaschi presentarono altri documenti da cui risultava invece che era stato fatto un giuramento “de regendo legaliter secundum formam capitulorum antiquorum Sancti Romuli vel iura romana, quocienscumque deficerent dicta capitula et predicta in presentia domini Ansermi”. Vale a dire, si tentava di limitare il potere di statuizione dei signori (e/o di Genova) ricorrendo al diritto romano, collocandolo, nella gerarchia delle fonti, subito dopo lo statuto locale[75].

 I due arbitri cercarono una soluzione di mediazione, foriera per altro di successivi conflitti: “in iusticia facienda serventur capitula dicti loci facta et fienda et ubi capitula deerunt secundum iura romana, dummodo dicta statuta non sint contra honorem et statum communis Ianue, super quo stetur et stari debeat determinationi domini ducis et communis Ianue quando dubitaretur dicta capitula fore seu esse contra honorem et statum dicti domini ducis et communis”[76]. Il problema dell'autonomia statutaria (e quindi dell'amministrazione della giustizia) era sempre vivo e cruciale nei rapporti tra centro e dominio. Nel 1753, dopo la rivoluzione di Sanremo, in un memoriale sottoposto all'attenzione del governo genovese, troviamo questa proposta: “togliere via lo statuto municipale come mancante e scandaloso per tante rifforme ed abollire altresì qualonque pretese consuetudini, e supplire invece con lo statuto di Genova”[77].

Ovviamente il fatto che una sentenza arbitrale come quella del De Mari e del Cattaneo venisse conservata nel volume delle convenzioni e nei Libri iurium, e assumesse in qualche modo lo stesso valore di una convenzione, comportava che ad essa si potesse sempre ricorrere, come ad una fonte limitante il potere legislativo di Genova sul complesso del districtus. In questa direzione si mosse il famoso giurista Pietro d'Ancarano quando prese le difese dei sanremaschi:

iurisdictio que fundatur super conventionibus et pactis non debet extendi ad alia que in pactis expressa et maxime in casu nostro in quo ius utriusque fundatur in sententia quae est stricti iuris [...] ex quibus sine ulteriori prosecutione concludo illos de castro Sancti Romuli non censeri Ianuenses secundum leges et statuta Ianue nec quod ad alia in sententia non expressa, et maxime quia suis statutis et iure comuni romanorum debent regi et gubernari secundum formam sententie; statuta ergo Ianue, quibus illi de eius territorio obligantur, non debent gaudere postquam cum comitatenses ianuenses recusant suscipere eandem in legibus disciplinam[78]. *cartari/armenzani

Il diverso tipo di gerarchia delle fonti previsto per ogni comunità o insieme di comunità (precedenza o meno dello statuto di Genova rispetto al diritto romano) era il segno della maggiore o minore autonomia delle stesse rispetto al centro, e attente erano le comunità nel tutelarla[79]. Si vedano tutte le limitazioni che sono poste nello statuto di Levanto:

In casibus seu negotiis, super quibus per Statuta seu ordinationes communis Levanti non est provisum, stetur et stari debeat statutis, vel decretis, seu deliberationibus et ordinationibus communis Ianuae, dummodo talia statuta [...] communis Ianuae aliqua non disponant per quae seu quorum observantia lederetur commune Levanti circa suam iurisdictionem, immunitatem vel conventionem[80]

5. Le convenzioni (ricordate nel consilium di Ancarano cosí come negli statuti di Levanto) rappresentano un tema strettamente connesso al fenomeno statutario. Il processo con cui si diede vita al districtus da Porto Venere a Monaco (con il parziale smantellamento delle signorie feudali e l'erosione degli altri distretti cittadini)[81], e il sistema di patti con cui fu costruito lo stato genovese, attendono ancora una ricostruzione analitica e complessiva. Ma è indubbio che non si potrà scrivere una compiuta storia degli statuti liguri se non si studieranno contestualmente le convenzioni territoriali[82].

In proposito non si può fare a meno di ricordare che già nel 1156, in uno dei tanti accordi con la nobiltà della riviera, era previsto di includere il testo della convenzione nel breve (“faciemus iurare consulibus intraturis post nos quod conventum istum observent et capitulum illud non removebitur de brevi consulum comunis usque XXVIII annos”)[83].

Estremamente significativi sono gli accordi con Albenga del 1251: fu da un lato specificato che “hoc anno creabuntur emendatores capitulorum Ianue, per quos emendabitur et fiet capitulum [...] de hac conventione attendenda et observanda et in brevi compagne ponetur”; e dall'altro che “comune Ianue concedet et substinebit quod comune Albingane faciat capitula et ordinamenta”[84]. E la prima rubrica degli statuti di Albenga del 1288 è appunto intitolata “De conventione inter Ianuam et Albinganam edita firma tenenda”[85]. Inoltre fu posto un capitolo che legava direttamente lo statuto della città alla convenzione: “Omnia supradicta capitula in qualibet sui parte intelligantur et intelligi debeant salva in omnibus et per omnia conventione que est inter civitatem Albingane et civitatem Ianue, et salvis omnibus aliis conventionibus quibus constet publicum instrumentum, quas eciam magistratus Albingane observa­re teneatur”[86].

Il fatto che si registrassero le convenzioni non solo nei libri iurium ma anche nei brevia, e poi negli statuti, non è solo un interessante esempio di pratica cancelleresca[87]; è anche il segno tangibile dell'importanza che veniva data a questo tipo di documento politico-diplomatico (e al tempo stesso contrattuale). Genova lega a sé il territorio, ne controlla le politiche statutarie, ma è vincolata al rispetto delle convenzioni. A questo proposito non si può fare altro che sottoscrivere un preciso giudizio di Felloni: “Il precoce successo di Genova sul piano regionale fu certo il frutto di un'efficace attività militare, ma fu anche (e forse soprattutto) il risultato di laboriosi compromessi che le permisero di inglobare in modo incruento ampie parti della Liguria [...] Le sottomissioni negoziate, se dapprima favorirono l'allargamento territoriale della sovranità genovese, in un secondo tempo ne divennero una palla al piede”[88].

Nell'universo delle fattispecie disciplinate dalle convenzioni due filoni possono essere individuati come centrali: da un lato il tema fiscale, dall'altro quello dell'amministrazione della giustizia, entrambi legati alle vicende statutarie. E ciò diventa particolarmente evidente nel periodo cinque-settecentesco, quando Genova compie il massimo sforzo per creare strutture amministrative unitarie nel suo territorio.

Partiamo, in via di esemplificazione, dalle convenzioni di Sarzana con Genova del 1407: in esse viene stabilito, dopo una lunga serie di immunità e privilegi in campo fiscale, che la giustizia sarebbe stata amministrata in base agli statuti locali, “dummodo statuta et provisiones [...] confirmentur per prefatum dominum gubernatorem, consilium et commune Ianue, exceptis criminibus lese maiestatis [...] et exceptis causis appellationum excedentibus summam viginti quinque florenorum”. Genova, insomma, ritaglia per sé zone di giurisdizione - non solo, ovviamente, i delitti di lesa maestà, ma anche tutte le cause di appello piú importanti[89].

Il rapporto asimmetrico tra terre dominate e città dominante viene bene illustrato anche dai decreti del 1562 (quando Sarzana passò dal dominio di S. Giorgio a quello diretto della Repubblica) e che sono posti in testa al volume delle Reformationes ad nonnullas rubricas statuti civitatis Sarzanae[90]. La richiesta dei sarzanesi che “quaecumque consuetudines, seu potius abusus [...] existentes contra formam statutorum dictae civitatis sint et esse intelligantur cassae, vanae et irritae, et observari debeant dicta statuta, ad litteram prout iacent, et prout observantur capitula civitatis Genuae, tam circa damna data quam circa omnia alia” fu accolta, con una clausola limitativa e che lasciava ampio arbitrio alla dominante (“cum declaratione tamen quod per hoc nullum fiat praeiuditium concessionibus Illustrissimorum Protectorum, respicientibus stilum et consuetudinem”); ma si modificarono anche i capitoli concessi nel 1484 da S. Giorgio: “ad IX capitulum continens quod homines Sarzanae non possint in ius trahi extra civitatem. Addatur. nisi ad instantiam Civis Ianuensis, prout caeteri districtuales trahuntur”.

Se negli esempi addotti le convenzioni appaiono come strumento del processo di centralizzazione, non bisogna però dimenticare che, in quanto patti bilaterali, esse potevano anche imbrigliare l'azione della dominante[91].

Quando nell'estate-autunno del 1576 si mettono in pratica le Leges novae di Genova, una questione emerge quasi subito: i capitoli dedicati all'istituzione della rota criminale prevedevano che i giusdicenti locali avrebbero potuto istruire processi e sentenziare, ma “ubi agatur de crimine quod habeat poenam mortis naturalis, mutilationis membri et triremium etiam temporalium, non prius manum ad decisionem causae admovebunt, quam Rotae fideliter et adamussim statum causae et processus, cum eorum voto, retulerint, ac responsum decisivum habuerint; quod ad unguem servari et exequi teneantur”[92]. Con tale norma si intendeva attribuire alla rota criminale di Genova una funzione di controllo sull'attività giudiziaria locale, per tutte quelle fattispecie criminali di una qualche rilevanza.

In questo caso il progetto centralizzatore si scontrò proprio con le convenzioni: il 7 dicembre 1576 il Senato scrisse al commissario di Sarzana esonerandolo dall'invio dei processi alla rota “attenta exemptione conventionatorum [...] sed procedat prout faciebat ante dictas leges”[93]. La convenzione, quindi, faceva aggio sui processi di innovazione normativa, ne vanificava parzialmente le valenze centralizzatrici, diventava un meccanismo fondamentale nella tutela dell'autonomia locale.

Così come agiva nello specifico terreno della giustizia e del diritto, il meccanismo di autodifesa delle comunità soggette poteva funzionare altrettanto efficacemente in quello, non meno importante, della fiscalità. Ovvio quindi che a fronte di tutte le innovazioni fiscali introdotte nel Seicento, Sarzana appaia come uno dei tanti centri di opposizione alle politiche di Genova, facendo perno proprio sulle convenzioni[94].

Sui congiunti temi della fiscalità e dell'amministrazione della giustizia si manifesta un'altra tendenza di lungo periodo, che viene a collegarsi con il problema degli statuti. Come è stato dimostrato in uno dei piú brillanti e acuti saggi sulla Liguria in età moderna, una delle costanti di questa storia è la conflittualità tra i diversi soggetti socio-amministrativi: ville e borghi contro le comunità, le comunità contro le città, le città contro Genova, con la capitale che tendeva a diventare il referente proprio delle ville e dei borghi[95].

Perché fiscalità e diritto diventano il terreno privilegiato di tale conflittualità? Per motivi diversi ma in qualche modo congiunti: i differenti tipi di imposte dirette volute da Genova (e in parte alcune indirette) erano sempre imposte che potremmo definire, sostanzialmente, di ripartizione. Vale a dire, era la comunità il soggetto impositivo, che ripartiva poi al suo interno i carichi attraverso diversi sistemi di catastazione e di rilevamento. Vi erano inoltre imposte locali, con cui si faceva fronte a tutte le spese proprie della comunità (il maestro di scuola, il medico, etc.). Con un trend impositivo in costante ascesa per tutta l'età moderna, era ovvio che si tendesse a scaricare il peso sui soggetti politicamente e istituzionalmente piú deboli: dalla capitale sul dominio, e nel dominio, dalle città sulle comunità, dalle comunità sui borghi e le ville, da questi sui “quartieri” o “terzieri”[96].

Conseguentemente borghi e ville tesero a rendersi autonomi dalle entità superiori in cui erano inglobati. Ciascun insediamento voleva essere separato, per contare di piú e decidere piú liberamente[97].

Questo processo si intrecciò con una politica della capitale volta a limitare l'indebitamento delle comunità, e a porre quindi sotto controllo la gestione economica delle stesse, chiedendo innanzi tutto una maggiore formalizzazione nel sistema di formazione delle decisioni[98]. Il convergere di tutti questi fattori portò ad una nuova fase nella storia statutaria ligure: questa si colloca grosso modo tra la metà Cinquecento e la fine Settecento, ed è caratterizzata dalla significativa produzione di bandi campestri e “statuti politici” (regolamenti di governo della comunità). A questo punto, se rianalizziamo la distribuzione territoriale degli statuti, si constata che anche il tratto compreso tra l'Arrestra e Deiva si ricopre progressivamente di centri che si danno questo nuovo tipo di statuti - Recco, Rapallo, Chiavari, per ricordare solo i piú importanti[99]. Processo identico è in atto nel resto delle riviere e nell'entroterra, reso ancora piú ricco dal fatto che si assiste spesso al conflittuale formarsi di nuove entità amministrative, nate dalla scissione di precedenti unità. Penso, ad esempio, alla creazione della comunità degli Otto luoghi[100], delle due Albisola (Superiore e Marina), alla separazione di Laigueglia da Andora; una delle prime conseguenze è la stesura di un regolamento politico-amministrativo, seguito o preceduto dalla emanazione di bandi campestri, il tutto sempre sotto l'occhio vigile del governo genovese[101].

Uno dei casi piú interessanti e complessi è quello che vede Albenga opposta, da un lato, ad Alassio e, dall'altro, a Borghetto S. Spirito, comunità che facevano originariamente parte del suo districtus[102]. Alassio ottiene la podesteria nel 1540, e poi a partire dal Seicento riuscirà a darsi bandi campestri e capitoli politici; ma nonostante ciò il conflitto con Albenga durerà fino alla fine del Settecento, soprattutto sul tema cruciale del riparto delle imposte (sia quelle decise da Albenga, sia quelle decise da Genova)[103]*ma questi dipendono da albenga, quindi è un caso a parte [però cercando alassio in asg.db viene fuori che questo m un tema cruciale, e sembra che paghino ad esempio la tassa delle galere, quindi non fanno parte del distretto di albenga da al punto di vista fiscale? e/o in che misura?. Borghetto, invece, che era riuscito a redigere degli statuti nel 1440, non riuscí ad ottenere dal Senato di Genova l'approvazione della riforma del 1587, in conseguenza di una tenace e dura opposizione di Albenga[104]. La lunga querelle, che vide impegnati anche numerosi giuristi, è interessante perché le pretese di Borghetto mettevano in discussione un'organizzazione (fiscale e giuridica) del territorio basata, fino ad allora, sul ruolo di intermediazione di Albenga. La città ingauna pretendeva di mantenere un “suo” districtus, mentre per i borghettini:

essendo tutta la Liguria da Crovo a Monaco l'anno 1162 stata infeudata alla Republica da Federico primo Barbarossa, il Borghetto s'intende soggetto alla Republica, se li albinganesi non provano il contrario; in modo che in tutte le cose nelle quali li huomini del Borghetto non sono soggetti a quelli di Albenga, come è quella di fare statuti, restano soggetti alla Republica come suprema signora[105].

Il problema non era però solo se Borghetto avesse o meno il diritto di darsi autonomamente nuovi statuti, con conseguente limitazione dell'area di vigenza di quelli ingauni. Quando nel 1606 prese avvio la riforma degli statuti di Albenga, esplose in modo eclatante un contrasto sulle procedure di nomina dei riformatori: la controversia, all'inizio, verteva su una questione di rappresentanza - la civitas voleva una rappresentanza paritetica, mentre ville e borghi pretendevano di avere i due terzi. La diatriba fu risolta dal Senato avocando a Genova tutta la pratica e nominando una commissione di riformatori di cui facevano parte anche due giuristi genovesi: la commissione iniziò i propri lavori nel novembre 1607 e li concluse nel marzo dell'anno successivo.

Discussioni e trattative durarono ancora diverso tempo. Quando, finalmente, il primo marzo 1610 il commissario genovese Giulio Cesare Lomellini promulgò in Albenga le riforme, avvenne qualcosa di inaspettato: scoppiò un tumulto nel corso del quale un frate stracciò il nuovo testo statutario.

Di fronte a questo comportamento del tutto inusuale (e dietro cui si sospettava la longa manus delle principali famiglie della città ingauna) il governo genovese usò le maniere forti: inviò nella cittadina rivierasca due galere con fanteria, agli ordini di due commissari, per mettere ordine; ma a questo punto è il caso di lasciare la descrizione degli eventi successivi al colorito racconto contenuto nel diario di Giulio Pallavacino

sbarcati dalle galere in terra li soldati entrarono in quella città con tamburi battenti, bandiere spiegate, micchie accese, intendendo pigliare il possesso di detta città figura belli, et incontrati da quei consoli, non volsero quelli illustrissimi [commissari] ammetterli, ne riconoscerli ne accettare da loro offerte d'alloggiamento alcuno, ma in arrivando nella città fecero gettar giú la porta di Prospero Cipolla, che è la miglior casa che sia in quella città, e quivi allogiarono; distribuirono poi in altre case la soldatesca, et nel convento di S. Domenico, per memoria del frate che fu authore [dei disordini], posero ad alloggiare.

 Comminate gravi pene (capitali e di bando ad imputati contumaci) - conclude il Pallavicino - “si sono fatte pubblicare le nuove leggi et ordini et si spera che detta città debba quietarsi”[106].

Si è voluto ricordare questo episodio non tanto per dare l'immagine di un governo genovese “forte” (che sarebbe un'immagina in parte distorta), ma per segnalare la centralità dei processi di redazione statutaria all'interno della trasformazione dello stato regionale. In questo caso il ruolo della metropoli fu essenziale: un'attenta analisi del manoscritto originale delle riforme statutarie potrebbe consentire di cogliere le differenze dei contributi provenienti dai giuristi genovesi a fronte di quelli, rispettivamente, dei sindaci di Albenga e dei borghi e delle ville. L'opera di riforma degli statuti civili e criminali avveniva in una situazione di grave conflittualità intra-comunitaria e quindi l'intervento della Dominante fu piú deciso; ma, in generale, l'attenzione a tutti i fenomeni di statuizione locale fu continua e capillare.

Non a caso le difficoltà della ricerca in questo campo derivano proprio dal fatto che le fonti principali per la conoscenza di questi testi, per il periodo cinque-settecentesco, sono (tra le altre) le sterminate serie documentali del Senato. La pratica poteva essere istruita di volta in volta dai Residenti di palazzo, dal Magistrato delle comunità o dalla Giunta dei confini, alla fine era sempre il Senato a decidere l'approvazione, a recepire o meno le proposte di correzione sia a importanti statuti quali quelli criminali di Savona, sia al piú minuto bando campestre o regolamento comunitativo[107].

Un esempio di intervento (e della rapidità di intervento) del governo centrale nelle questioni interne alle comunità è rappresentato, ad esempio, dalla riforma dei capitoli di governo di Bracelli: il 20 giugno 1613 arriva a Genova una lettera di protesta contro chi usurpava la gestione della comunità, il 27 luglio il capitano di La Spezia invia un breve rapporto in cui riconosce che il governo si è ristretto in poche famiglie

che son li più comodi e facultosi che vi siano, da questo ne nasce che vien ad esserne esclusi molti, che in li estimi che han fatto delle facultà ne restan evantagliati tutti li suddetti, e molti che han poco pagano del pari a quelli che han senza comparatione più assai [...] li consoli et quelli che amministrano la raggione secondo li privileggi loro tengono la corte in casa del sudetto, né si assolve o condanna eccetto quelli che ad esso piace, a tal che questa forma di governo ha più del tirannico che delli sudditi di VV.SS. Ser.me.

Il 28 agosto sono già approvate dal Senato le nuove regole con cui si introducevano forti correttivi alle procedure elettorali, basati sul sorteggio[108].

Credo che una prima conclusione di questo lavoro sia che l'esperienza statutaria in Liguria ebbe senz'altro connotati simili: questi dipendono, in primo luogo, dall'ovvia appartenenza ad un'area di diritto comune, e, in secondo luogo, dal primato dei capitula genovesi e dalle contestuali politiche di controllo territoriale svolte dalla capitale (almeno a livello di formazione del diritto); politiche, per altro, che si svilupparono in un perenne confronto con le aspirazione autonomistiche delle comunità.



Una primissima stesura di questo testo è stata presentata al convegno “Società ed istituzioni lunigianesi negli statuti delle comunità” organizzato dall'Accademia Capellini di La Spezia. E ho intenzionalmente mantenuto le caratteristiche della relazione, limitando al minimo le indicazioni bibliografiche.

[1] V. Piergiovanni, Gli statuti di Albenga ed il progetto di un "corpus" degli statuti liguri, in Legislazione e società nell'Italia medievale. Per il VII centenario degli statuti di Albenga, Bordighera 1990, pp. 25-37. Altri temi di questa ricerca sono stati presentati in R. Savelli, Geografia statutaria e politiche fiscali, in Studi in onore di Victor Uckmar, Padova, Cedam, 1997, II, 1099-1116.

[2] Cfr. in proposito le considerazioni di M. Ascheri, Gli statuti: un nuovo interesse per una fonte di complessa tipologia, in Biblioteca del Senato della Repubblica, Catalogo della raccolta di Statuti, VII, a c. di G. Pierangeli e S. Bulgarelli, Firenze 1990, p. XXXI e ss; U. Santarelli, Lo statuto 'redivivo', in “Archivio Storico Italiano” 152 (1993), pp. 519-526; G. S. Pene Vidari, Un ritorno di fiamma: l'edizione degli statuti comunali, in “Studi piemontesi” XXV (1996), pp. 327-343. Tra i contributi più significativi segnalo Statuti città ter­ritori in Italia e Germania tra Medioevo ed Età moderna, a cura di G. Chittolini e D. Willoweit, Bologna 1991; le iniziative della scuola di H. Keller (tra cui H. Keller - J. W. Busch, Statutencodices des 13. Jahrhunderts als Zeugen pragmatischer Schriftlickeit, München 1991); Dal dedalo statuario, numero speciale di “Archivio Storico Ticines” XXXII (1995). Un'ulteriore prova dell'interesse verso questa fonte è la pubblicazione di altri repertori: Repertorio degli statuti comunali umbri, a c. di P. Bianciardi e M.G. Nico Ottaviani, Spoleto 1992; Statuti cittadini, rurali e castrensi del Lazio. Repertorio (sec. XII-XIX), ricerca diretta da P. Ungari, Roma, ed. provvisoria,  1993; L'Alpe e la Terra. I bandi campestri biellesi nei secoli XVI-XIX, a c. L. Spina, Biella 1997; Repertorio degli statuti comunali emiliani e romagnoli (sec. XII-XVI), a c. di A. Vasina, 2 voll., Roma 1998-1999.

[3] G. Sforza, Saggio d'una bibliografia storica della Lunigiana, Modena 1874; G. Rossi, Gli statuti della Liguria, in “Atti della Società Ligure di Storia Patria” [=ASL], XIV (1878); L. Fontana, Bibliografia degli statuti dei comuni dell'Italia superiore, Milano-Torino-Roma, 1907, 3 voll.

[4] Cfr. E. Grendi, L'approvvigionamento dei grani nella Liguria del Seicento: libera pratica e annone, in “Miscellanea Storica Ligure” XVIII (1986), n. 2, pp. 1021-1047; P. Massa Piergiovanni, Assistenza e credito alle origini dell'esperienza ligure dei monti di pietà, in Banchi pubblici, banchi privati e monti di pietà nell'Europa preindustriale, Genova 1991 (= ASL, CV), pp. 591-616.

[5] Sul problema degli statuti campestri cfr. O. Raggio, Norme e pratiche. Gli statuti campestri come fonti per una storia locale, in “Quaderni storici” XXX (1995), n. 88, pp. 155-194.

[6] E' il caso di ricordare come la Legge organica sull'ordine giudiziario nella Repubblica Ligure dell'11 febbraio 1803 (in Raccolta degli atti e delle leggi emanate dal potere legislativo della Repubblica Ligure n. 25) prevedesse all' art. 188: “sono aboliti tutti li statuti locali si civili che criminali, eccettuati soltanto li statuti, o parte di essi, che riguardano le accuse per danni campestri, i quali si continuano ad osservare fino alla formazione di un Codice rurale per tutta la Repubblica”. E l'articolo successivo completava quel processo di estensione del diritto della Dominante a tutto il territorio che aveva avuto nei secoli precedenti un percorso accidentato e non sempre facile: “Sono sostituiti agli indicati statuti locali li statuti civili e criminali di Genova, che in tutte le parti compatibili colla Costituzione e colla presente Legge si osservano tanto nel procedere come nel giudicare in tutti i luoghi della Repubblica, compresi gli aggregati”; così si spiega come nel 1804 Ambrogio Laberio scrivesse le sue lezioni universitarie Rationalia ad statutum ligusticum, (Biblioteca Civica Berio, Genova, mr.V.2.11).

[7] Cfr. Savelli, Geografia statutaria, pp. 1107-1109

[8] Lo statuto di Varazze del 1345 è conservato nell'Archivio del comune (un estratto fu pubblicato da N. Russo, Su le origini e la costituzione della "Potestatia Varaginis Cellarum et Arbisolae". Note critiche e documenti inediti, Savona 1908, pp. 260-262; ne sta curando l'edizione Ausilia Roccatagliata); riferimenti a precedenti capitula si trovano anche nelle convenzioni del 1343 (Cfr. Liber iurium, II, Historiae Patriae Monumenta [=HPM] IX, coll. 540-549; per gli statuti di Albisola del 1389, tra i diversi manoscritti rimasti, cfr. Biblioteca Universitaria di Genova [=BUG] B.VI.27; gli statuti di Celle sono stati pubblicati in modo del tutto acritico da M. Cerisola, Gli statuti di Celle (1414), Bordighera 1971 (la curatrice non si è minimamente accorta dei problemi editoriali e di datazione che tale testo comportava, e delle evidentissime stratificazioni testuali: ad esempio nel proemio e nei capp. 27-28 si tratta di Boucicault come governatore di Genova, mentre i capp. 86-87 mantengono ancora la forma soggettiva del breve, indice di una provenienza ben piú antica). Per gli statuti trecenteschi di Levanto cfr., oltre al manoscritto Biblioteca Estense Modena, Fondo Campori, Gamma P.4.20, le edizioni Genova 1549 e Lucca 1773; per Framura cfr., ad esempio, Archivio di Stato Genova [=ASG], Senato, Sala Senarega 1392.

[9] A. Pesce, Statuti di Rossiglione, Pine­rolo 1914; per quelli di Savignone del 1487, ASG, Fondo Gavazzo 2, 360 e Biblioteca Reale Torino [=BRT], Ms St.p. 79. Gli statuti di Santo Stefano d'Aveto sono presenti in diversi manoscritti di cui il piú antico è conservato alla Biblioteca Comunale di Alessandria, Ms 80; il loro testo (a parte alcune poche modifiche secondarie) è totalmente mutuato (e tradotto) da quelli di Cariseto: cfr. C. Artocchini, La legislazione statutaria dei Marchesi Malaspina per i feudi della Val Trebbia (sec. XIV). Gli statuti di Cariseto, “Archivio Storico per le province parmensi” S. IV, XV (1963), pp. 111-169 e Corpus statutorum lunigianensium, a c. di M.N. Conti, I, La Spezia 1979, pp. 186 e ss.

[10] Liber iurium, I, HPM VII, nn. 789, 790, 811.

[11] R. Pavoni, L'organizzazione del territorio nel Savonese: secoli X-XIII, in Le strutture del territorio fra Piemonte e Liguria dal X al XVIII secolo, Cuneo 1992, pp. 65-119.

[12] Ricordo qui solo i contributi più recenti, rinviando ad altra sede una discussione più approfondita: R. Pavoni, Organizzazione del territorio genovese nei secoli X-XIII, in “Rivista Ingauna e Intemelia” XL (1985; ma 1988), pp. 5-12; Id., Dal comitato di Genova al Comune, in La storia dei genovesi, V, Genova 1985, pp. 151-175; Id., L'evoluzione cittadina in Liguria nel secolo XI, in L'evoluzione delle città italiane nell'XI secolo, a c. R. Bordone e J. Jarnut, Bologna 1988, pp. 241-253.

[13] I confinsi della diocesi sono a Capo d'Anzo sia per A. Ferretto, I primordi e lo sviluppo del cristianesimo in Liguria ed in particolare a Genova, in ASL XXXIX (1907), p. 308, sia per Pavoni, Brugnato e i confini fra Genova e Luni, in “Memorie della Accademia Lunigianese di Scienze G. Capellini. Sc. storiche e morali” LX-LXI (1990-1991), pp. 47-100.

[14] R. Pavoni, Genova e i Malaspina nei secoli XII e XIII, in La storia dei genovesi, VII, Genova 1987, 281-316; Id., Signori della liguria orientale: i Passano e i Lagneto, in La storia dei genovesi, IX, Genova 1989, 451-484; G. Petti Balbi, I conti di Lavagna, in Formazione e strutture dei ceti dominanti nel medioevo: marchesi conti e visconti nel regno italico (secc. IX-XII), I, Roma 1988, 83-114; in gran parte da ridiscutere, a mio parere, la ricostruzione (e la cartografia) di J. Heers, Gênes au XVe siècle, Paris 1961.

[15] R. Pavoni, Dal comitato, cit. e Id., Brugnato. Sul problema in generale cfr. anche V. Polonio, Le circoscrizioni territoriali nella Liguria medievale: modulo ecclesiastico o civile?, in “Rivista di studi liguri” L (1984), pp. 177-181.

[16] Secondo la testimonianza del Caffaro già nel 1110 “castra Lavaniae, Pedezunca et cetera, domini eorum Ianuensibus resistebant; victa, comuni Ianue in perpetuo tradita fuerunt”, però nuovamente nel 1132 fu necessario un altro intervento militare e così nei decenni successivi (Annali Genovesi di Caffaro e de' suoi continuatori, I, a c. di L. T. Belgrano, Roma 1890, pp. 15, 26).

[17]  Un'interessante testimonianza di questa incertezza è fornita da un frammento statutario del XIII secolo, dedicato all'organizzazione dei castelli, e in cui si specifica che i balestrieri “sint natione a Iugo usque mare et a Cogoleto usque Rapallum, comprehensa tota potestaria Rapalli” Leges Genuenses, HPM XVIII, Augustae Taurinorum 1901, col. 17.

[18] Per il breve del 1143 cfr. F. Niccolai, Contributo allo studio dei piú antichi brevi della compagna genovese, Milano 1939, p. 104 e ss; per il giuramento del Malaspina cfr. I Libri iurium della Repubblica di Genova, vol. I/1, a c. di A. Rovere, Genova 1992, pp. 311-312.

[19] Cfr. V. Promis, Statuti della colonia genovese di Pera, in “Miscellanea di Storia Italiana”, XI (1870), pp. 565, 581; e BRT, ms St. p. 291 c. 4r; sulla redazione due-trecentesca degli statuti genovesi cfr. V. Piergiovanni, Gli statuti civili e crimi­nali di Genova nel Medioevo. La tradizione manoscritta e le edizioni, Genova 1980.

[20] Per la concessione di Federico I del 1162 cfr. V. Piergiovanni, I rapporti giuridici tra Genova e il dominio, in Genova, Pisa e il Mediterraneo tra Due e Trecento, ASL XCVIII (1984), fasc. II, p. 432; R. Pavoni, Liguria medievale, Genova 1992, p. 253.

[21] Su questo genere di problemi cfr. le considerazioni di  A. I. Pini, Dal comune città-stato al comune ente amministrativo, in Comuni e Signorie: istituzioni, società e lotte per l'egemonia, Torino 1981, p. 458.

[22] Questo tipo di assenza di documenti statutari non sembra neppure ascrivibile alla presenza signorile dei Fieschi. Infatti in altre località di loro dominio comunità, statuto e signore coesistono; così come coesistono nel ponente, là dove è collocato l'altro grande insediamento nobiliare, quello carrettesco, protagonista di una originale esperienza normativa.

[23] Sui due manoscritti cfr.  nota 19.

[24] Piergiovanni, Gli statuti, cit., p. 29. Come accenna il Promis nell'introduzione, vi era stato un precedente tentativo di edizione, ma la trascrizione “era andata smarrita” (p. 515); probabilmente questa trascrizione è quella oggi conservata in Archivio storico del Comune Genova [=ACG] Ms 994, ed è interessante notare che il curatore aveva previsto di riportare tutte le varianti dei due manoscritti torinesi.

[25] Cfr. D. Puncuh, Liber privilegiorum ecclesiae ianuensis, Genova 1962, pp. 182-185; sulla campagna antiereticale del 1221 (e i connessi interventi sugli statuti) cfr. T. Scharff, Häretikerverfolgung und Schriftlichkeit. Die Wirkung der Ketzergesetze auf die oberitalienischen Kommunalstatuten im 13. Jahrhundert, Frankfurt am Main 1996*di poco successiva, cfr. A. Vauchez, Ordini mendicanti e società italiana XIII-XV secolo, Milano 1990, pp. 119 e ss.* da vedere thompson, revival preachers 1233, IG S7.2.1.99; e *Piergiovanni, in federico II legislatore 625 che rinvia a G. Levi, registri dei cardinali ugolino d'ostia e ottaviano degli ubaldini, roma 1980[??] 33-34, 50-52, 94-96 106-107; G. Levi, Documenti ad illustrazione del Registro del Card. Ugolino d'Ostia, in @Archivio della Società Romana di Storia Patria#XII (1889), pp. 241-326, in specie 322,.. E un riferimento al 1222 come anno di intervento su una rubrica si trova nei cosiddetti statuti di Pera (cfr. ed. cit., p. 743). 

[26] Si sente enormemente la mancanza di una stesura del XII secolo del breve dei consoli dei placiti, cui sono frequenti i rinvii già nel breve della compagna del 1143. Il breve fu poi ripreso nei capitula duecenteschi: cfr., ad esempio, due citazioni in Il secondo registro della curia arcivescovile di Genova, a cura di L. T. Belgrano, ASL XVIII (1887), pp. 262-263. Il significato e l'importanza di testi di questa fase è stato significativamente illustrato per il caso pisano da C. Storti Storchi, Intorno ai Costituti pisani della legge e dell'uso (secolo XII), Pisa 1998.

[27] Già nel 1224 nel consilium di Rolandus de Gotofredis e Petrus Iohannis Michaelis indirizzato al consul de iusticia troviamo che si parla espressamente di statuti, “consideratis [...] capitulis seu statutis vestre civitatis” (Ibid., p. 446); e altrettanto avviene nel 1228 (si vedano gli accordi con i marchesi Clavesana “hoc actum expressim inter nos quod teneamur apponere in statutis civitatis Ianue et compagne super quibus iurabunt annuatim potestas seu consules communis”, Liber iurium, I, HPM VII, col. 825, mentre precedentemente si usava preferenzialmente il termine di breve o capitulum). La citazione relativa a Baldovini è tratta da Annali genovesi di Caffaro e de' suoi continuatori, III, a c. di C. Imperiale di Sant'Angelo, Roma 1923, p. 45. Ricordiamo come Baldovini sia stato protagonista anche del rinnovo dei libri iurium (cfr. D. Puncuh - A. Rovere, I Libri Iurium della Repubblica di Genova. Introduzione, Genova 1992, p. 45 e ss).

[28] Per questa partizione territoriale cfr. una prima messa a punto in L. Grossi Bianchi - E. Poleggi, Una città portuale nel Medioevo. Genova nei secoli X-XVI, Genova 1980, pp. 41, 106, 111.

>>>>* cfr. poleggi.doc,<<<<<

nel breve 1143 e 1157 si parla di burgus civitas e castrum, ma senza una particolare connotazione delle due parti però vedi anche quello che dice giustiniani annali xxxviir, e il rinvio che fa alle pagine precedenti: andrebbe fatto un controllo negli annalisti*.

[29] Statuti di Pera, cit., pp. 564-565.

[30] BRT, Ms St. p. 291 c. 4rv. Il capitolo è stato edito da Piergiovanni, Gli statuti, cit., p. 265.

[31] Cfr. p. es. V. Vitale, Vita e commercio nei notai genovesi dei secoli XII e XIII, ASL LXXII, I (1949), p. 41.

[32] HPM XVIII, col. 171; Mostra storica del notariato medievale ligure, a c. di G. Costamagna e D. Puncuh, Genova 1964, p. 74; ancora nel 1364 il cancelliere Corrado Mazurro è “constitutus super custodiam cartulariorum defunctorum notariorum Ianue de quatuor compagnis de versus Burgum” (HPM XVIII, col. 35). E cfr. A. Assini, L'archivio del collegio notarile genovese e la conservazione degli atti tra Quattro e Cinquecento, in Tra Siviglia e Genova: notaio, documento e commercio nell'età colombiana, a c. di Vito Piergiovanni, Milano 1994, pp. 216-218.

[33] Cfr. Piergiovanni, Gli statuti, cit., p. 35; R. Savelli, “Capitula”, “regulae” e pratiche del diritto a Genova tra XIV e XV secolo, in Statuti città, cit., p. 450.

[34] “Capitula”, “regulae”, cit.; cfr. anche Piergiovanni, Gli statuti, cit, pp 101-127, 155-158; e per le regulae anche A. Pacini, La tirannia delle fazioni e la repubblica dei ceti. Vita politica e istituzioni a Genova tra Quattro e Cinquecento, in “Annali dell'Istituto storico italo-germanico in Trento” XVIII (1992), pp. 57-119

[35] ASG, Ms membranacei IV, c. 316r; HPM XVIII, col. 220; ASG, Notai antichi 33, c. 265v (decreto del Boccanegra del 1344 sulle cause da discutere davanti ai boni viri “secundum formam capitulorum et regularum”).

[36] G. et I. Stellae, Annales genuenses, a c. di G. Petti Balbi (RIS2 XVIII/II), Bologna 1975, pp. 140-142 (corsivo mio). Sui problemi connessi alla promissione ducale nel sistema veneziano si vedano le considerazioni di L. Pansolli, La gerarchia delle fonti di diritto nella legislazione medievale veneziana, Milano 1970, pp. 78-81.

[37] Stellae, Annales, cit., pp. 327 e 330 (corsivo mio).

[38] “Quod nullus vocet Dominum ducem Segnor” è, non a caso, il titolo di una rubrica delle Regulae del 1413.

[39] A. Giustiniani, Annali [...] della [...] Republica di Genova, Genova, Antonio Bellone, 1537, c. CCXLIv. Sul tema cfr. Savelli, “Capitula”, cit., passim.

[40] Per la familia et comitiva del doge si vedano le regulae del 1363 (HPM XVIII, coll. 262 e ss) e quelle del 1413 ASG, Ms tornati da Parigi 19, c. 42r e ss); nella familia erano compresi anche i cancellieri (sul tema cfr. R. Savelli, Le mani della repubblica: la cancelleria genovese dalla fine del Trecento agli inizi del Seicento, in Studi in memoria di Giovanni Tarello, Milano 1990, I, pp. 541-609).

[41] Uno dei piú acuti cancellieri genovesi, Francesco Botto, cosí annotava nella prima metà del Cinquecento a proposito delle regulae: “ea quae continentur in regulis cancellarie et D. Sindicatorum que sunt consimiles” (ASG, Ms 221, c. 68r). Su sindacatori e regulae cfr. R. Ferrante, La difesa della legalità. I sindacatori della repubblica di Genova, Torino 1995

[42] Per le leggi del 1528 cfr. A. Pacini, I presupposti politici del “secolo dei genovesi”: la riforma del 1528, in ASL n.s. XXX/I (1990); per quelle del 1576 cfr. R. Savelli, La repubblica oligarchica. Legislazione, istituzioni e ceti a Genova nel Cinquecento, Milano 1981.

[43] Piú tradizionali ed omogenei ad altri statuti di città italiane sono gli statuti politici di Savona (ancora inediti quelli degli inizi del Quattrocento: Archivio di Stato di Savona, Comune di Savona, I, 7 e 8) o le leggi di Albenga del 1413 (cfr. P. Accame, Legislazione medioevale ligure. II. Statuti di Albenga dell'anno 1413, Finalborgo 1901). Il termine di regula compare anche in questa città, cfr. Statuta seu municipalia iura inclite civitatis Albingane, Ast, per Francischum Sylvam 1519, cc. 108 e ss.

[44] Cfr. Piergiovanni, Gli statuti; Savelli, “Capitula”, cit.

[45] *leicht ?* Il giudizio tradizionale è stato variamente limitato e valutato: sulla lunga “vitalità” degli statuti cfr. le considerazioni cfr., ad esempio, A. Cavanna, Tramonto e fine degli statuti lombardi, in Diritto comune e diritti locali nella storia dell'Europa, Atti del convegno di Varenna 1979, Milano 1980, pp. 305-328; G. Di Renzo Villata, Diritto comune e diritto locale nella cultura giuridica lombarda dell'età moderna, in Diritto comune e diritti locali, cit., pp. 331-389; G. P. Massetto, Le fonti del diritto nella Lombardia del Quattrocento, in J.-M. Cauchies (ed.), Milan et les États bourguignons: deux ensemble politiques princiers entre Moyen âge et Renaissance, Bâle 1988, p. 54 e ss; G. Chittolini, Statuti e autonomie urbane, in Statuti città territori, cit., p. 40 e ss. Non molto convincente la recente messa a punto di G. Ortalli, L'outil normatif et sa durée. Le droit statutaire dans l'Italie de tradition communale, in “Cahiers de Recherches Médiévales (XIIIe-XVe siècles)”, 4 (1997), 163-173.

[46] Relativamente alla questione del rapporto “principe” e statuti, si vedano le stimolanti considerazioni di Massetto, Le fonti, cit., p. 58 e ss. Sul tema delle diverse tipologie di statuti aveva scritto parole di grande interesse G. B. De Luca, quando invitava a tenere queste fonti ben distinte concettualmente, soprattutto in rapporto al tema città suddite / città dominanti (a capo di uno stato): “Ius particulare seu municipale [...] ab aliquibus explicatur ut sit omne illud particulare ius, quod cum saeculi potestate in prophanis materiis conditum sit, ita confundendo Constitutiones et Pragmaticas quas Principes supremi ordinant pro universu principatu [...] cum statutis particularibus, quae fiunt per civitates vel per singula territoria intra eorum territorium [...] Verum clarum est aequivocum, quoniam sub nomine iuris statutarii [...] proprie veniunt illa statuta sive ordinationes quae fiant per civitates subditas [...] Secus autem, ubi [...] de illis civitatibus quae libertatem sibi vendicaverint [...] adeo ut se gerant pro Republica [...] His etenim casibus, erroneum est huiusmodi leges appellare statutarias vel municipales [...] quoniam vere ac proprie sunt leges communes et primariae principatus, et quae praevalere debent [...] legibus civilibus romanorum” (Theatrum veritatis et iustitiae, XV, Venetiis, ex typographia Balleoniana 1759, p. I disc XXXV, nn. 19-20, pp. 110-111). De Luca riprendeva riflessioni che da tempo si andavano affermando nella dottrina: cfr. la rassegna di posizioni fatta dal Toschi alla conclusio 541 “Statuta civitatis dominantis dicuntur ius commune et extenduntur ad castra et loca subiecta, et quando non” (Conclusionum iuris [...] tomus septimus, Lugduni, sumptibus Phil. Borde, Laur. Arnaud, et Claud. Rigaud 1661, pp. 337-338). *@deficiente statuto particularium locorum recurritur ad statutum Genuae, quod respecut locorum dominii dicitur ius commune gratianus, discept forens 9 n24 Surdus cons IV 50 n6 e 560 n6 etiam si statuta locorum inferiorum disponerent quod deficientibus statutis esset recurrendum ad ius commune late Menoch de presumptionibus lib.2 n. praes. VI, 121ta* cfr. fasano 83-4 cozzi??

[47] Le 17 edizioni possono essere considerate in realtà 16, in quanto l'edizione Pavoni del testo in volgare nel 1622 è una seconda emissione di quella (sempre pavoniana) del 1613.

[48] Cfr., ad esempio, la copia ASG, Biblioteca 175, appartenuta al cancelliere Francesco Maria Viceti. Anche dell'edizione del 1663 furono messi in commercio esemplari con margini amplissimi: cfr. l'esemplare in Biblioteca Durazzo Genova, G.C.V.18 con fitte note manoscritte o quello in BUG Ms.C.VII.34 con note di Stefano Cattaneo.

[49] Nel 1766 i Supremi sindacatori si erano attivati per predisporre una nuova edizione; questa riproduceva sostanzialmente il testo nel 1588-1589, modificato grazie a qualche aggiunta (si pensava, ad esempio, di introdurre nel primo libro una rubrica dedicata ai conservatori del mare) e la riscrittura di non molte rubriche: il testo approntato nel 1769 è conservato in ASG, Archivio segreto 1271, mentre frammentari materiali di lavoro della commissione sono in ASG, Senato, Sala Gallo 452 e 595. Per un'altra esperienza di “lunga durata” cfr. G. Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani, Torino 1982, in specie p. 319 e ss.

[50] E. Besta, Fonti: legislazione e scienza giuridica dalla caduta dell'impero romano al secolo decimosesto, in P. De Giudice, Storia del diritto italiano, I, II, Milano 1925, p. 604.

[51] P. Grossi, L'ordine giuridico medievale, Bari 1995, p. 231.

[52] Sul tema rinvio per le indicazioni bibliografiche a C. Montanari, Gli statuti piemontesi: problemi e prospettive, in Legislazione e società, cit., p. 103 e ss, e a G. S. Pene Vidari, Censimento ed edizione degli statuti con particolare riferimento al Piemonte, in “Archivio storico ticinese” XXXII (1995), p. 275; ho accennato a possibili influenze tematiche da parte di Savigny in Geografia statutaria, cit.

[53] G. Zirolia, Intorno agli statuti dei comuni liguri nel medio evo, Sassari 1902. Il saggio del Besta cui si fa riferimento è Dell'indole degli statuti locali del dogado veneziano e di quelli di Chioggia in particolare, in Studi giuridici offerti a Francesco Schupfer, II, Studii di storia del diritto italiano, Torino 1898, pp. 395-441.

[54] I lavori piú interessanti, anche se non del tutto condivisibili in questa prospettiva, sono quelli di V. Polonio, L'amministrazione della res publica genovese fra Tre e Quattrocento. L'archivio “Antico comune”, ASL XCI 1977 e di G. Assereto, Dall'amministrazione patrizia all' amministrazione moderna: Genova, in L'amministrazione nella storia moderna, Archivio ISAP, ns. 3, vol. I, Milano 1985, pp. 95-159. Sui limiti delle amministrazioni territoriali quattrocentesche, oltre ai ben noti studi di Giorgio Chittolini, cfr. ad esempio le considerazioni di J. E. Law, Un confronto fra due stati “rinascimentali”: Venezia e il dominio sforzesco, in Gli Sforza a Milano e in Lombardia e i loro rapporti con gli Stati italiani ed europei (1450-1535), Milano 1982, pp. 397-413.

[55] Piergiovanni, Gli statuti di Albenga, cit., p. 34. Sul problema delle convenzioni .*.

[56] Cfr. in proposito le considerazioni di Besta, Fonti, cit., p. 553, e di G. Fasoli, Edizione e studio degli statuti: problemi ed esigenze, in Fonti medioevali e problematica storiografica, Atti del congresso internazionale tenuto in occasione del 90° anniversario della fondazione dell'Istituto storico italiano, Roma 1976, p. 181.

[57] Cfr. la breve nota di E. Besta, La cultura giuridica e la legislazione genovese dalla fine del secolo decimoprimo all'inizio del decimoterzo, in Storia di Genova dalle origini al nostro tempo, III, Milano 1942, pp. 263-274. E' forse il caso di segnalare una precisa citazione dal Codice giustinianeo (C.8.4.7) in un atto giudiziario del 1171 (cfr. M. Calleri, Le carte del monastero di San Siro di Genova (952-1224), I, Genova 1997, pp. 208-209). * cfr costamagna su formule romanistiche* e ricordare caso di cosio e problema del vulgarrecht??*

[58] Mi è sembrato significativo che all'interno di uno statuto come quello di Ponzano del 1586 (ASG, Senato Sala Senarega 1509), tutto costruito attorno ad un'esperienza eminentemente agricola, si potesse trovare una rubrica De libri de mercanti, et artieri (in cui era statuito che a chi teneva correttamente i libri “siagli creduto pienamente come se per publico instrumento constasse di tal credito, et habbia però esecutione parata, fino però alla somma di lire quindici”); precisa eco delle posizioni che attorno a questo tema da tempo si avevano in dottrina e nelle pratiche legislative (si veda, ad esempio, la rubrica “de causis mercatorum et artificum” degli statuti di Sarzana (nell'edizione del 1529 libro III, cap. 52, cc. 55v-56r; la rubrica sembra introdotta a Sarzana nel periodo di dominazione fiorentina: cfr. il testo mutilo delle riforme statutarie conservato in Archivio di Stato di Firenze, Statuti delle comunità autonome e soggette 823). Disciplina analoga anche negli statuti di Savignone (BUG, Ms C.VIII.11, pp. 42 e ss). Sul problema cfr. C. Pecorella, Fides pro se, in “Studi parmensi” XXII 1978 ora in Studi e ricerche di storia del diritto, Torino 1995, p. 432 e M. Fortunati, Scrittura e prova. I libri di commercio nel diritto medevale e moderno, Roma 1996 precedenti stesure ?*influenze fiorentine? sullo statuto fiorentino del 1415 cfr. Statuta populi et communis Florentiae, Friburgi [=Firenze], Apud Michaelem Kluch, 1778, II, pp. 165-170;

[59] Per Savona cfr. Archivio di Stato Torino [=AST], Riviera di Genova, Savona, mazzo 1, n. 25; editi da M. Calleri, I più antichi statuti di Savona, in ASL CXI,  (1997) fasc II, pp. 115-212 (ma anche in questa stesura vi è una rubrica mutuata dagli statuti genovesi). Già Besta (La cultura giuridica, pp. 271 e 274) aveva proposto un confronto tra quelli di Genova e quelli stampati ad Albenga nel 1519; risultati piú aderenti alle fonti, anche se forse piú limitati, emergono dal confronto con quelli del 1288 (Biblioteca Comunale di Camporosso, fondo Doria A.5.4; editi da J. Costa Restagno, Gli statuti di Albenga del 1288, Genova 1995): cfr., ad esempio, i capitoli 33 34 50 61 69 124 125 126 127 132 134 137 139 211 di quelli di Genova (Promis, Statuti, cit.) con quelli (tutti del secondo libro) di Albenga 69 70 23 39 99 79 78 75 76 87 86 84 88 65.

[60] Cfr. Genova i cap. 61 124 125 132 208 209 (nell'ed. Promis) e Oneglia II 38, II 20, III 21, III 22, II 55, II 54 (per Oneglia ho utilizzato la inaffidabile edizione curata da G. Molle, Statuti di Oneglia e della sua Valle, Imperia 1979). Sul tema cfr. R. Braccia, Processi imitativi e circolazione dei testi statutari: il ponente ligure, in corso di stampa negli studi in onore di Franca Avonzo De Marini.

[61] Cfr. Corpus statutorum lunigianesium, II, La Spezia 1985, pp. 279-280.

[62] ASG, Archivio segreto 497, decreto del 9 giugno; di esse non vi è traccia nell'edizione curata di C. Cottafavi e L. Ferrarini (Spezia 1895)

[63] Confronta i decreti (del 1399) di conferma degli statuti di Follo e di Spotorno in ASG, Archivio segreto 499, c. 117r, e ASG, Archivio segreto 500, c. 4rv.

[64] ASG, Ms 673.

[65] ASG, Ms membranacei XXVI. Per pratiche analoghe cfr. ad esempio G. Ortalli, Cittadella e i suoi statuti, in Statuti di Cittadella del secolo XIV, a c. di G. Ortalli, G. Parolin M. Pozza, Roma, Jouvence 1984, p. 15

[66] Biblioteca Comunale di S. Margherita Ligure, Ms 66, p. 36.

[67] Cfr. M. N. Conti, Gli statuti quattrocenteschi di Nicola, in “Memorie della Accademia Lunigianese di Scienze Giovanni Capellini”, XXXI (n.s. IX) fasc. 2°, La Spezia 1960, pp. 183-234* (e risolto univocamente il problema di chi sia lo Spinetta menzionato a p. 219, capiremmo ancor meglio lo sviluppo dello statuto)*.

[68] AST, Biblioteca antica, Ms J.b.V.17.

[69] ASG, Biblioteca Ms 100.

[70] Si veda il decreto del 18.1.1650 riprodotto in appendice al volume del Farroni, e in ASG, Senato, Sala Senarega 2176 (dove è raccolta parte della documentazione relativa al caso).

[71] ASG, Senato, Sala Senarega 1423.

[72] E. Silvestri, Ameglia nella storia della Lunigiana, Ameglia 1991, pp. 331-407; il testo delle correzioni in ASG, Senato, Sala Senarega 1609 e ASG, Ms 657, pp. 103-118.

[73] Questo tipo di pratica non era ovviamente solo genovese: per Firenze, ad esempio, cfr. E. Fasano, Gli statuti delle città soggette a Firenze tra '400 e '500: riforme locali e interventi centrali, in Chittolini - Willoweit, Statuti città territori, cit., pp. 69-124 (in specie p. 83).

[74] ASG, Ms membranacei LV, c. 5rv (e cfr. Liber iurium, cit., II, coll. 688-700, 694). Testo già pubblicato in Documenti comprovanti la libertà, e diritto della magnifica Università di S. Remo, appendice a In difesa della Magnifica Università di S. Remo contro la sentenza del Serenissimo Senato di Genova, pronunziata il 1 febbraio 1753. per la separazione di Colla, Villa del Distretto Sanremasco. Dissertazione di un Amico del vero, s.l. 1755, pp. 8 e ss.

[75] Per analoghe considerazioni cfr. P. Caroni, Statutum et silentium. Viaggio nell'entourage silenzioso del diritto statutario, in “Archivio Storico Ticines” XXXII (1995), p. 155.

[76] Ibid., c. 7v (Liber iurium, II, cit., coll. 696-697). La sentenza continua affermando “in casu quo potestas communis Ianue non possit facere et exercere in dicto loco iusticiam bona fide, quod dominus dux et commune Ianue [...] possit et liceat iusticiam facere et fieri facere cum potenti brachio”.

[77] ASG, Archivio segreto 305. Suggerimento ripreso in un memoriale indirizzato dalla Giunta dei confini al governo: “Si annullino tutti i decreti, statuti e constitutioni civili, criminali ed economiche colle quali suddetta communità si è finora regolata, e si ordini che in avvenire la detta università e uomini di S. Remo siano e restino sottoposti e sogeti a tutti li decreti leggi e constituzioni, e statuti civili e criminali di Genova”.

[78] P. Ancaranus, Consilia, Rome, per Adam Rot, 1474, n. 438

[79] Piergiovanni, I rapporti giuridici, p. 445.

[80] Statuta communitatis Levanti, Lucae, apud Franciscum Maria Berchiella 1773, p. 79 (corsivo mio).

[81] Esemplare come nel 1529 Genova si preoccupi di delimitare nuovamente i confini del distretto di Savona (dopo averle, come è noto, interrato il porto): cfr. ASG, Liber iurium IV.

[82] Sul tema delle convenzioni cfr. N. Calvini, Relazioni medioevali tra Genova e la Liguria Occidentale (Secolo X-XIII), Bordighera 1950; Piergiovanni, I rapporti giuridici, cit.

[83] Cfr. I Libri iurium, ed. 1992, p. 268.

[84] Liber iurium, I, cit., coll. 1039-1044 (analoghi provvedimenti nelle convenzioni con Savona dello stesso anno).

[85] Le convenzioni saranno riprodotte anche in appendice all'edizione del 1519 (cfr. supra nota 43).

[86] Costa Restagno, Gli statuti di Albenga, cit., p. 370 (“Ut capitula intelligantur salvis conventionibus de quibus est instrumentum”). Sul ruolo delle convenzioni con Genova cfr. anche le considerazioni di V. Piergiovanni, L'organizzazione dell'autonomia cittadina. Gli statuti di Albenga del 1288, in Costa Restagno, Gli statuti di Albenga, cit, pp. XXII e ss.

[87] Cfr. anche, a titolo di esempio, Statuta antiquissima Saone (1345), a c. L. Balletto, Bordighera 1971, I, cap. 103 “De conventione facta inter comune Saone et comune Albingane observanda”

[88] G. Felloni, La fiscalità nel dominio genovese tra Quattro e Cinquecento, in Società Savonese di Storia Patria “Atti e memorie” XXV (1989), p. 107.

[89] G. Pistarino, Il Registrum vetus del Comune di Sarzana, Sarzana 1965, p. 228. Le formule sono riprese anche nelle convenzioni di Sarzana con Firenze del 1468 (Ibid., p. 276).

[90] Genuae, typis Antonii Casamarae, s.d. [1706], pp. 2-6.

[91] Sul tema cfr. anche le considerazioni di A. De Benedictis, Repubblica per contratto. Bologna: una città europea nello Stato della Chiesa, Bologna 1995, pp. 45 e ss.

[92] Leges novae Reipublicae Genuensis, Mediolani, Apud Antonium de Antoniis 1576, p. 42.

[93] Cfr. Genuensis Reipublicae Leges anni MDLXXVI. Cum declarationibus, additionibus et reformationibus, Genuae, apud Iosephum Pavonem 1617, pp. 138-139 (corsivo mio).

[94] Il “manifesto” dell'opposizione è significativamente rappresentato dall'opuscolo di Francesco Cicala, Discorso [...] sopra le conventioni della Città di Sarzana con la sereniss. Republica di Genova. In risposta al consulto del già sig. Leonardo Spinola contro i popoli conventionati et alla relatione del sig. Raffaele della Torre, Lucca, appresso Bernardino Pieri e Iacinto Paci, 1654 (in cui sono pubblicati anche una significativa raccolta di pareri di giuristi lucchesi: Lelio Altogradi, Gio. Battista Meconi, Ottavio Arnolfini, Francesco Palma, Luigi Mansi). E' possibile che questo opuscolo abbia causato al dottore sarzanese un arresto in torre d'ordine degli Inquisitori di stato: cfr. ASG, Archivio segreto 3019. L'opposizione poteva manifestarsi anche su terreni di minore importanza, come nel 1638 quando rifiutarono di applicare una grida sui pesi e misure: “le gride generali non comprehendono li luoghi conventionati, se non sono nominati in specie” (Reformationes [...] Sarzanae, ed. cit. p. 75*il problema dei pesi era presente negli statuti 1330 CSL p. 96, rif fioretina, ripresa in ed. parma). Sul problema delle misure vi fu anche l'opposizione di Pieve di Teco (ASG, Archivio segreto 55). * portofranco

[95] E. Grendi, Il Cervo e la repubblica, Torino 1993, in specie il capitolo I.

[96] Le conclusioni cui è giunto Felloni sono univoche: “nel corso del tempo la proporzione tra le imposte statali della capitale e quelle del dominio mutò da 14 : 1 nel 1550 a 5 : 1 nel 1650 ed a 3 : 1 nel 1750, con una chiara tendenza a gravare sempre piú i sudditi della terraferma” G. Felloni, Distribuzione territoriale della ricchezza e dei carichi fiscali nella repubblica di Genova, in Prodotto lordo e finanza pubblica secoli XIII-XIX, Atti della Ottava Settimana di Studi dell'Istituto internazionale di storia economica F. Datini - Prato, a c. di Annalisa Guarducci, Firenze 1988, p. 794.

[97] Cfr. in proposito le considerazioni di G. Chittolini, Città, comunità e feudi negli stati dell'Italia centro-settentrionale (secolo XIV-XVI), Milano 1996, p. 61 e ss.

[98] Sul Magistrato delle comunità oltre a Grendi, Il Cervo, cit., cfr. Assereto, Dall'amministrazione, cit. passim, e Id., Amministrazione e controllo amministrativo nella Repubblica di Genova: prospettive dal centro e prospettive dalla periferia, in Comunità e poteri centrali negli antichi Stati italiani, a c. di L. Mannori, Napoli 1997, pp. 117-138; G. Benvenuto, Una magistratura genovese, finanziaria e di controllo: il Magistrato delle Comunità, “La Berio” XX (1980), n. 3, pp. 18-42.

[99] Cfr. Savelli, Geografia statutaria, cit., pp. 1108-1109.

[100] B. Durante - F. Poggi, Storia della Magnifica Comunità degli Otto Luoghi, Pinerolo 1986

[101] Che non sempre concede queste separazioni: la richiesta di separazione di S. Margherita da Rapallo è respinta nel 1608 dal Senato “omnibus votis” (ASG, Senato, Sala Senarega 1700), mentre troviamo che agli inizi del Settecento si è data dei “capitoli” (ASG, Magistrato delle comunità 497).

[102] J. Costa Restagno, La politica territoriale del comune di Albenga tra Due e Trecento: le nuove fondazioni, in “Rivista Ingauna e Intemelia” XL (1985; ma 1988), pp. 73-91.

[103] Per i bandi e i capitoli cfr. ACG, Ms Brignole Sale 106.D.26, 107.C.6, 109.E.6; una significativa raccolta di documenti in ASG, Ms 560.

[104] ASG, Ms membranacei LXXXII; ASG, Fondo Gavazzo 2, 358.

[105] ASG, Senato, Sala Senarega 1713.

[106] Per le vicende si veda la ricca documentazione conservata in ASG, Archivio segreto 32-37; per il diario di Giulio Pallavicino cfr. ACG, Ms Brignole Sale 109.D.4, cc. 181r, 182r; l'originale della riforma è conservato in ASG, Archivio segreto 34; ne fu curata un'edizione a Genova: Reformationes statutorum et capitulorum communis Albinganae, Genuae, Apud Iosephum Pavonem 1610.

[107] Per le correzioni fatte dai giuristi genovesi agli statuti criminali di Savona della seconda metà del Cinquecento cfr. ASG, Ms 587.

[108] ASG, Senato, Sala Senarega 1733.