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Mario Ascheri

Formalismi di giuristi e di storici: un programma di lavoro?

Credo opportuno alternare a contributi specifici, analitici e fortemente ancorati alle fonti, insomma a lavori che possono aspirare a essere per certi aspetti definitivi, altri più ariosi e propositivi, non dirò di metodo – che è divenuta forse giustamente quasi una parolaccia -, ma su problemi di largo interesse. Si corre naturalmente il serio rischio di scrivere pagine del tutto provvisorie[1], com’è in questo caso, o addirittura pagine in cui si dice troppo o troppo poco e di cui ci si dovrà anche presto pentire. Tuttavia, è utile intanto segnalare delle aporie, qualche problema, degli assilli per rimediare ai quali si cerca il dialogo e il conforto dei colleghi. Le pagine che seguono sono tutto questo e al tempo stesso quasi un’espressione di desiderio: nascono da esperienze di ricerca e ne postulano delle altre; sono quasi un programma di lavoro, che non saprei dire quando e come realizzare se non col concorso di altre energie e competenze.

1. Per le premesse, si può partire da una considerazione scontata per chi, come me, si occupa di storia giuridica - pur alternandola con altro tipo di approccio[2], in particolare istituzionale. Ossia quella della ‘separatezza’ della Storia del diritto medievale e moderno - questa è la dizione della disciplina storico-giuridica capogruppo nel nostro attuale ordinamento - rispetto alle altre discipline storiche in sede accademica, universitaria.

La disciplina è stata per tanto tempo confinata solo nelle facoltà di Giurisprudenza dove ha svolto e svolge funzioni molto diverse a seconda delle singole sedi. Ora, sempre meno per la verità, serve da introduzione culturale generale al diritto positivo attuale, coprendo tradizionalmente l’incredibile arco cronologico che va da Giustiniano fino ai nostri giorni; altre volte (come avviene più spesso) vale come disinteressata decorazione culturale, concentrata com’è in corsi o troppo specialistici o troppo generici – spesso finora solo medievistici, assunti dagli studenti senza poterne carpire le virtù euristiche come una medicina cattiva ma necessaria, della quale dimenticarsi comunque al più presto; oppure, ancora, essa può essere al servizio di operazioni politico-culturali attuali, consistenti nell’ammannire a piene mani a studenti inermi (perché reduci da una scuola sostanzialmente de-storicizzata) visioni ideologiche del passato ritenute evidentemente ‘formative’ per il presente. Date queste premesse, non è difficile immaginare che la Storia del diritto italiano (questa la denominazione usuale) abbia subito più di un ridimensionamento nell’ambito della famigerata riforma compendiata nella formula del ‘3+2’.

Il confinamento, o la separatezza di cui si parlava, era facilitata dal fatto che per tanto tempo la disciplina non ha avuto spazio nelle facoltà di Lettere. Infatti, è stato a lungo un caso isolato l’insegnamento (nella facoltà della Sapienza) di Carlo Ghisalberti, il risorgimentista tanto poco in linea con gli orientamenti dominanti della sua disciplina da essersi dovuto trasferire in una cattedra di Storia contemporanea (cambiando quindi totalmente settore disciplinare). L’inversione di tendenza, con l’apertura di qualche corso, è relativamente recente e dovuto ai corsi di laurea in Storia. Più recente ancora è stato l’incontro con i corsi di laurea in Beni culturali; un incontro importante o, meglio, un incontro che può aprire prospettive importanti, ma che è rimasto mi sembra senza una riflessione. Quale è la Storia del diritto più adatta per gli operatori dei beni culturali? Chi si è chiesto se debba avere una funzione specifica, e allora quale, in corsi di laurea del genere? E se pure sarà individuabile, con quali strumenti didattici andrà soddisfatta in quella sede?

Gli storici del diritto non sembrano però molto impegnati su questo fronte. La tendenza odierna più forte è a ricercare un rapporto da tempo perduto con i giuristi positivi offrendo molto impegno nella storia contemporanea, tradizionalmente trascurata e ora invece divenuta campo quasi esclusivo della didattica un po’ per necessità e un po’ per opportunità. Inutile aggiungere però che questi incontri ravvicinati sono assai pericolosi, perché nascono da un’idea di ‘utilità’ della storia di basso profilo[3], e poi perché sono positivi solo se e quando riescono ad affermare le specificità dell’approccio storico. In caso contrario, con il fatto scontato che il giurista riconosce meglio i fondamenti del diritto positivo – com’è anche ovvio a ben vedere -, si può dare la sensazione dell’inutilità stessa dell’approccio puramente storico. Ma non è questa la questione che qui preme.

2. C’è piuttosto una questione assai poco accademica e più di sostanza da discutere e fare oggetto di ricerca. A parte l’utilità pratica (segnalazioni di fonti, problemi tecnici con risvolti pratici, ecc.) che la storiografia giuridica su ogni periodo storico può avere per molte delle ricerche che conducono parallelamente gli storici che di diritto non si occupano, utilità che ha comportato sempre, come comporta oggi, un’attenzione generica da parte di questi ultimi, c’è da chiedersi a) se non ci sia anche un rapporto più stretto, una contiguità per così dire osmotica tra la storiografia giuridica e quella generale o di altra specializzazione, e se viene accertato, b) chiedersi di che tipo essa sia.

Il problema si pone perché all’apparenza gli intimi rapporti esistenti  nel corso dell’Ottocento (per non parlare del passato ‘culto’ francese, ‘elegante’ nederlandese e ‘storico’ tedesco) sono progressivamente andati sfilacciandosi. Le motivazioni sono molte e tutte da considerare attentamente. Molto sommariamente qui richiamerò taluni sviluppi culturali e politici. Ad esempio, osserverei che la storia giuridica nella cultura storica italiana nel Dopoguerra ha finito per soffrire (in misura ben diversa) di due tradizioni distinte, ma convergenti sostanzialmente nell’isolarla. Certe forme di idealismo (non Croce, ma alcuni suoi imitatori se mai) la vedevano lontana dai grandi problemi e la ponevano su un piano d’inferiorità culturale evidente. Era un po’ un trascinarsi di vecchie polemiche, come quella che aveva visto protagonista Pietro Bonfante, lo storico di Roma e del diritto romano[4] che lavorò sulla scia del grande Theodor Mommsen - che esemplarmente dimostrò con la sua opera concreta quanto la felice fusione di ricerca filologica sulle fonti giuridiche e le altre storie specifiche, la storia letteraria, l’archeologia e l’epigrafia, potesse dare risultati di grandissimo rilievo. Il ‘giuridico’ secondo questa prospettiva rimaneva su un piano culturale secondario rispetto ai problemi definitivi del ‘vero’ e del ‘bello’ della tradizione filosofica e letteraria (sembra di ripercorrere l’itinerario del Petrarca…[5]); peraltro, poi, se ne doveva contrastare la forte egemonia nel mondo istituzionale e burocratico, crescente durante il periodo fascista e tutt’altro che allentato nel nuovo mondo repubblicano.

Una convergente, più definitiva e più pesante condanna la decretava poi la tradizione marxista rapidamente consolidatasi nel Dopoguerra. Nella sua applicazione il diritto è stato vissuto solo come una ‘sovrastruttura’, come un livello condizionato da un certo assetto dei rapporti di produzione, e destinato quindi a perire con l’apparato repressivo di cui era un epifenomeno: lo Stato. Venuta meno la tirannia di classe e del ‘suo’ Stato, nella vulgata marxista sarebbe venuto meno anche il diritto, che aveva avuto storicamente la funzione di coprire l’espropriazione di classe ai danni dei produttori, conferendo coercitività alla repressione attuata per via apparentemente contrattuale, ossia volontaria, nel rapporto di lavoro.

Questa, semplificata, la critica che ebbe tanto più successo quanto più radicato apparve, nel nuovo clima politico del Dopoguerra, il tradizionale metodo ‘tecnico-giuridico’ apparentemente asettico e avalutativo, che aveva dominato durante l’epoca fascista e che discendeva dalla autoproclamata ‘scientificizzazione’ della nostra dottrina giuridica attuata grazie alla recezione e rielaborazione dei canoni della Pandettistica tedesca a fine Ottocento[6].

La critica al ‘formalismo’ dei giuristi (bene simboleggiato dalla giurisprudenza della Cassazione) per indicare la loro insensibilità ai valori costituzionali e la loro subalternità ai testi giuridici tradizionali – in primis al testo unico delle leggi di pubblica sicurezza – coinvolgeva anche gli storici del diritto. Quel primo Novecento che aveva visto ancora vivace l’indirizzo storiografico cosiddetto ‘economico-giuridico’ e i suoi fitti rapporti con la storiografia giuridica era ormai un lontano ricordo.

Il boom della produzione storiografica nel secondo Ottocento era stato marcato infatti da un rapporto importante ed esplicito degli storici del diritto con quelli ‘sociali’: pensiamo anche soltanto ad un Salvemini, attentissimo come tanti altri ai fenomeni e alle fonti giuridiche, viste come momento essenziale di comprensione dei rapporti anche economici. Com’è ben noto, nel clima ottimistico del positivismo scientistico si era creduto che conoscere e pubblicare sempre più fonti desse più materiali per accertare positivamente dei fatti che non avrebbero più avuto nulla da nascondere, e perciò desse modo di scrivere una storia oggettiva e definitiva come mai era stata possibile in passato (salvo appunto per l’emergenza di nuovi fatti documentati). Di qui l’incredibile corsa alla pubblicazione di cronache, di statuti e di atti pubblici e privati, i quali tutti avrebbero contribuito a fornire quel tot di conoscenza oggettiva, documentaria, necessaria per approdare a dati oggettivi e perciò definitivi.

3. La corsa ebbe luogo in misura più ampia per il nostro Medioevo, che ha avuto una presenza corposissima del diritto[7]e che quindi agevolò quel rapporto tra storici di varie specializzazioni. Certo, le leggi e gli altri atti pubblici, le deliberazioni di consigli e di collegi, così come gli atti notarili, ci sono stati ieri come ci sono oggi. Il problema è che le fonti giuridiche hanno nella documentazione che ci è pervenuta per il Medioevo un posto assolutamente più centrale rispetto ad altre epoche. Oggi - ma è così ininterrottamente, a partire dall’Età moderna in poi - la fonte giuridica è solo una tra le tante, importante sempre (pensiamo anche solo al rilievo di norme pur particolari come quelle sul voto segreto nella votazione di fiducia ai governi o a istituti che possono produrre risultati eclatanti, come un referendum), ma a volte anche fonte ideologica, di deformazione e filtro della realtà, più che di informazione e quindi di conoscenza storica.

Per il nostro Medioevo invece il testo giuridico rivestiva un posto centrale perché sono stati soprattutto gli atti aventi un rilievo giuridico ad essere conservati, oltre ai grandi monumenti dell’antichità trascritti dagli scriptores monastici e universitari. Rispetto alle cronache, agli epistolari e alle opere letterarie medievali, le opere giuridiche, i singoli atti giuridici oppure le opere scritte, dei giuristi, sono un’enormità, perché sono scritti per i quali esisteva un preciso interesse alla conservazione. I documenti più antichi della nostra stessa lingua sono dei verbali di placiti giudiziari come in genere gli atti giuridici conservati interessanti enti monastici o episcòpi, ossia gli enti che avevano la cultura e la continuità istituzionale indispensabili per fondare la coscienza dell’importanza della scrittura di un atto e della sua conservazione. Non è un caso che siano atti giuridici quelli al centro dell’introduzione alle fonti medievistiche scritta da Cammarosano[8].      Basterebbe del resto già il fatto quantitativo a mettere in guardia.

C’è però anche il dato qualitativo. Se c’è un modo per conoscere idee e fatti del mondo e della società medievale, l’atto giuridico è quello più diretto per arrivarci. Pensiamo alle difficoltà d’interpretazione di un documento agiografico. L’atto giuridico può anch’esso richiedere una lettura attenta, perché frutto della cultura del suo autore più che del soggetto titolare del rapporto giuridico che l’atto documenta; vero cioè che ci dice più del notaio che ha registrato l’atto o la deposizione o del cancelliere che ha preparato il testo della legge che non del contraente, del teste o del re che hanno voluto l’atto di rilievo giuridico. E tuttavia ci dà immediate informazioni sulla società che l’atto produce, nonostante la fissità relativa dei formulari notarili e la permanenza attraverso i secoli di certe funzioni e necessità degli atti giuridici: pensiamo all’immediata (anche troppo e perciò talora fuorviante) leggibilità dei provvedimenti comunali! L’atto giuridico esprime direttamente una necessità sociale, una funzione, una tessera della realtà, anche se c’è sempre una mediazione culturale, che reca una testimonianza di chi all’atto ha dato una veste formale. Ma c’è qualcosa di più.

Il Medioevo italiano, in particolare e più d’ogni altro, proprio perché viveva dell’eredità romana, è stato dominato, direi quasi ossessionato, dal diritto. I grandi conflitti assumevano immediatamente una veste giuridica, come giuridica era la veste delle grandi novità che hanno segnato delle svolte fondamentali nella storia europea: e grazie al culto in gran parte italiano del diritto. Chiesa e Impero, Comuni e feudi, popolo e nobiltà, università, ordini religiosi, corporazioni, confraternite ecc.: tutto acquisiva veste giuridica; tutto aveva – come infatti ancora diciamo espressivamente - il proprio ‘statuto’...

4. Perciò la grande ricerca svolta sulle fonti medievistiche favorì potentemente quel rapporto tra storici di diversa formazione. Col tempo e con la crisi della ragione che tanto ha segnato il Novecento, però nessuno credette più alle premesse positivistiche, quanto meno se prese in senso apodittico. Il che ha contribuito – col confermato ‘formalismo’ dei giuristi - ad accrescere nel Dopoguerra la diffidenza nei confronti delle fonti giuridiche e quindi anche della storiografia giuridica. Le fonti giuridiche erano mistificanti: come la nuova Costituzione, facevano intravedere proclami e valori tutt’altro che rispettati nella ‘prassi sociale’; a questa bisognava finalmente guardare, altroché a normative puramente ideali e fuorvianti!

Perciò, nonostante gli accenni a una recente inversione di tendenza, la storia giuridica continua oggi ad esser vissuta da molti tra gli storici non del diritto (e più in Italia che altrove) come una storia da un lato troppo tecnica, una storia di ‘formalismi’[9], e dall’altro  come storia di ‘Azzeccagarbugli’, di ceti professionali soltanto e per di più parassitari, legati in modo opportunistico a una struttura sociale e a una divisione di ceto o di classe profondamente ingiusta. Queste convinzioni vengono peraltro facilmente confermate dai molti prodotti storico-giuridici oggi in circolazione che si risolvono in trattazioni minuziose di casistiche puramente dottrinali, senza riscontri documentari e contestualizzazioni storiche, quasi esercitazioni scolastiche che hanno dato vita a una specie di post- o para-Pandettistica che cerca anacronisticamente di creare ex post un ‘sistema’ dove  (nel diritto comune) esso non c’era o non c’era certamente di tipo pandettistico. Si arriva al punto, di fronte a queste ricostruzioni dottrinali che si avvitano su se stesse, che i filosofi del diritto possono essere paradossalmente più storici degli storici, come ha mostrato in modo esemplare Giovanni Tarello, il filosofo genovese prematuramente scomparso[10].

Perciò gli altri storici si rifanno ai rapporti di potere che contano, e quindi alla politica e all’economia, che possono meritare grande rispetto e considerazione, oppure – secondo i nuovi impulsi – all’antropologia, alla storia delle mentalità o più in generale alla storia culturale di lungo periodo, ‘costituzionale’.

In queste prospettive i giuristi appaiono del tutto subalterni al ‘sistema’ e i loro storici allineati con esso a fornirne motivi più o meno forti di legittimazione sociale e culturale. Vale a poco osservare, del tutto banalmente, che la cultura giuridica è la cultura degli apparati dello Stato, a cominciare da quelli fondamentali del potere legislativo e giudiziario, e che essa ha poi un’enorme diffusione tra categorie larghissime d’operatori sociali diversissimi, dai consulenti del lavoro e fiscali ai sindacalisti, ai politici ecc. ecc. La cultura di questi e i loro prodotti, un’infinità di libri, riviste e raccolte giurisprudenziali, rimangono confinati in un ambito ritenuto tecnico-professionale, non degno d’attenzione da parte del raffinato uomo di cultura per così dire ‘generale’. Il problema di capire quella cultura non si pone neppure, perché la si confina piuttosto in un’area di ‘non cultura’, con la quale quindi non è necessario fare i conti per definizione[11].

5. Il risultato è un reciproco disconoscimento che comporta conseguenze a mio avviso deleterie, e che vanno ben al di là di quel che singoli esempi possano lasciar supporre. E non già perché il mondo del diritto sia un mondo di bontà disconosciuta – ci sono mille buoni motivi per lagnarsene, e non solo per il diritto di oggi -, ma perché il diritto in sé è piuttosto uno strumento, di cui quindi si può fare, come di ogni strumento, un uso buono o cattivo; il che vale per il mondo d’oggi, ma lo stesso si può dire per ieri. È banale ricordare che sono pur sempre diritto la normativa che garantiva la schiavitù personale o le procedure inquisitorie, allo stesso modo che era ed è diritto il complesso di interventi che hanno eliminato e l’una e l’altra: convenzioni internazionali devono tentare ancor oggi (con scarso successo per la verità) di impedire che il commercio di persone abbia luogo, mentre altri accordi e la sensibilità politica cercano di eliminare dalla nostra teoria e prassi (anche qui senza grandi conquiste) le procedure inquisitorie.

Ma oltre a ciò, andrà ancora ribadito che il diritto ha una importanza fondamentale per aprirci alla comprensione del passato? Il fenomeno giuridico vi è così corposamente presente che è una dimensione di cui dobbiamo essere in qualche modo ben consapevoli, bon gré ou mal gré. E siamo al lapalissiano. Direi perciò anche di più.

Il mondo giuridico è elemento costitutivo di una cultura diffusa che va ben al di là degli operatori del diritto. L’assunto che credo sia urgente verificare, cioè, è che esso non sia affatto quel mondo conchiuso, che si può pensare risolversi in formule notarili o legislative; quelle che possiamo tranquillamente dimenticare non appena fatto l’atto o osservata la norma. La separatezza del mondo giuridico e storico-giuridico di cui si è parlato non significa né implica anche un’estraneità degli storici ‘generali’ o di altre specializzazioni da quel mondo e dalle sue categorie.

Spiego meglio la mia impressione-ipotesi di lavoro. Per quanto si tenti talora disperatamente, come le tre scimmie, di non avere a che fare col diritto, e per quanto ci sia un’apparente estraneità degli storici ‘altri’ dal diritto, esso finisce per invadere e pervadere ogni giorno loro come tutti noi, e non solo nella quotidianità del contemporaneo. Quel che più è grave è che esso ci condiziona nel nostro tentativo - quale che sia l’angolo visuale prescelto - di comprendere il mondo del passato – qualunque passato del nostro mondo. Questo perché le categorie con cui noi andiamo alla scoperta del passato europeo sono spesso intrise di giuridicità: sono quelle che hanno cooperato a fare il mondo moderno e che noi filtriamo consapevolmente o meno dal mondo giuridico odierno.

E qui bisogna aprire una parentesi, perché diviene rilevante il problema della ‘storia generale’, categoria che va anch’esso ridiscussa, a mio avviso. La mia impressione è che ogni storia ‘generale’, del Medioevo come dell’Età contemporanea ecc., regga solo come istituzione universitaria, come espediente didattico o narrativo (per poter disporre di una Storia della Francia, del Papato ecc.). Darei infatti come acquisizione pacifica che la storia generale come disciplina con un proprio statuto, in sé, sia una pia illusione, un po’ come lo furono gli assunti positivistici. Vero che bisogna tentare di fare storia ‘globale’ come ci hanno insegnato le “Annales”, si suole dire, ma questo vale per tutti gli storici, non solo quelli ‘generali’, dato che non possiamo tralasciare interi livelli di realtà privi di attenzione solo perché non ci piacciono o perché non sono mai stati considerati prima. Geografia e clima, alimentazione e abbigliamento, il genere, il sesso e la famiglia, le tecniche e così via si sono aggiunti ai più tradizionali interessi storiografici e hanno posto un’infinità di domande nuove, che hanno consentito di guardare in modo nuovo e più problematico ai problemi più tradizionali.

C’è una circolarità dei problemi in ogni contesto, una loro variegata complessità che fa rinviare da uno a un altro, per cui non ci sono livelli separabili se non arbitrariamente e/o per le (inevitabilmente) ristrette competenze dell’osservatore. Le storie specialistiche non sono compiute in sé, sono storie dimezzate se escludono le altre; ma non c’è neppure, compiuta in sé, una presunta ‘storia generale’ di livello superiore, che possa prescindere dalle storie specialistiche: per il semplice fatto che la cosiddetta storia generale... non esiste.

Quelle che noi chiamiamo nelle università ‘storie generali’ delle varie epoche sono per lo più delle storie sociali arricchite con qualche spunto più o meno ben miscelato di storia politica e religiosa, di storia delle mentalità e di storia economica, quando non si risolvano di fatto semplicemente in corsi specialistici essi stessi; quelli che, dato per manuale formativo di base il libro della scuola secondaria (rimasto a suo tempo più o meno intonso), si incentrano sulla storia del territorio (ora anche considerato ‘micro’) o della cultura universitaria o popolare, della chiesa o della religiosità e così via secodo gli interessi del docente. È tanto difficile (perché impossibile) una storia generale che fioriscono le storie speciali. Esse di quella sono non tanto negazione, quanto dimostrazione della sua inesistenza. Una storia‘generale’ nei programmi didattici è da un lato solo un espediente, una convenzione (corrisponde a quel livello di conoscenze minime che si ritiene di dover assicurare alla cultura generale dello studente medio), e dall’altro un modo, una volta prolificati a dismisura i corsi, per creare e istituzionalizzare delle gerarchie tra i colleghi di una facoltà.

Va da sé che quel livello minimo cambia in base alla cultura e alle opzioni del docente o del ceto accademico di cui fa parte, un livello non oggettivo e per tanti aspetti arbitrario. È più chiaro se pensiamo a problemi più discussi: cos’è necessario far sapere di Storia contemporanea oggi? Che equilibrio, ad esempio, ci deve essere tra storia del Fascismo e della Resistenza e del movimento comunista, tra crimini nazi-fascisti e crimini comunisti? È recente la disputa sulla ‘faziosità’ della storia contemporanea, che mutatis mutandis si potrebbe naturalmente trasferire alla storia del passato meno prossimo, anche se sono meno evidenti le inevitabili opzioni del docente. Crociate ed inquisizione, o Vandea e altre atrocità rivoluzionarie, fanno parte della storia generale? E se la risposta è sì, cosa se ne deve dire oggi?

6. Ma al di là del problema didattico e formativo, che non è qui in discussione e che pure è fortissimo, il punto sul quale va portata l’attenzione è che la scarsa o nulla considerazione al mondo giuridico, che si è riprodotta nei termini e modi rapidamente enunciati, è un fatto culturale con una sua vicenda profondamente radicata nella nostra storia se fu già ben viva in quel Rinascimento italiano che vide la ‘disputa delle arti’; perciò dobbiamo considerarla con attenzione.

Intanto, perché è vero che apparente o reale che sia quella ‘separatezza’ non impedisce affatto l’osmosi di problemi, di concetti, di pregiudizi dall’un mondo nell’altro: da quello giuridico in quello ‘generale’, del comune sentire, epperciò anche nel mondo storiografico che ne è specchio e per certi aspetti ‘organo di governo’ attraverso la scuola e i media.

E siamo finalmente al cuore dell’ipotesi di ricerca che più mi preme.

C’è, e allora quale è, un influsso della cultura giuridica su quella ‘generale’ e quindi anche sugli storici più o meno operativi come ‘generali’ o su altrespecializzazioni? L’ipotesi sulla quale credo utile lavorare è che si debba rispondere positivamente: che quell’influsso esista e che esso sia tanto più importante in quanto rimane per lo più inconsapevole; rimane un elemento di fatto, filtrato col latte, per così dire, inconsapevole, irriflesso; perciò e quindi anche tanto più pericoloso.

Il mondo giuridico, lo sanno e lo dicono tutti, è il mondo del formalismo, il mondo che cura le ‘forme’ degli atti al di là della loro sostanza; si appaga di certe formalità senza le quali un atto è invalido o nullo oppure da assegnare a un’altra categoria di atti. È mondo di precisione concettuale, che non ammette confusioni o che cerca di risolverle se ci sono. Qualifica un atto per certe caratteristiche e da esse fa discendere conseguenze precise di tipo giuridico, positive o negative per un certo soggetto, retto com’è da una logica semplice, della non contraddizione. Proprio perché vuole e deve assicurare stabilità e chiarezza ai rapporti tra i ‘consociati’, come si suole dire, i rapporti umani che in natura sono tutt’altro che stabili, chiari e certi ricevono dal diritto quel quid di ‘innaturale’ che è la stabilità e univocità mediante il crisma della forma. Per dar ordine ai rapporti umani, la mentalità giuridica deve tipizzarli, e perciò anche qualificarli in modo astratto e altrettanto astrattamente distinguerli. Insomma, è come esemplarmente procede il giudice, che è alla ricerca degli ‘estremi’ che permettano di riconoscere una ‘fattispecie’; una volta che essa sia stata riconosciuta le conseguenze sono automatiche. Non entriamo qui, naturalmente, nei problemi dei processi interpretativi e dell’ideologia che li sorregge. Basta renderci conto che questo fare apparentemente meccanico, questo ‘formalismo', ha un suo significato profondo. Come nelle procedure legislative, esso significa o dovrebbe significare rispetto delle regole, trionfo del principio di legalità, garantismo. Ma questo procedere per opposizioni nette tipico del mondo giuridico finisce per influire in modo deleterio se recepito tel quel nel ragionamento dello storico. Facciamo un esempio.

7. Pensiamo alla tipica contrapposizione che vien predicata tra quel mondo feudale e mondo capitalistico odierno – congiunti se mai da una lunga ‘transizione’, si dice (o piuttosto si diceva). Il mondo feudale era caratterizzato dal rapporto diretto del produttore con i mezzi di produzione e dalla coercizione di quel lavoro, perché il colono era obbligato con la forza del signore o dei suoi scagnozzi ad usare di quei mezzi di produzione; anzi, era lui stesso considerato un mezzo di produzione come la terra e il bestiame. Nel mondo capitalistico, superata la transizione con le sue infinite figure intermedie, non c’è più coercizione diretta, perché il produttore è stato espropriato dei mezzi di produzione e semplicemente può dare forza-lavoro con un rapporto contrattuale libero.

In una ricostruzione del genere, che pure fa parte della vulgata marxista, c’è moltissimo di giuridico (com’era tipico del mondo tedesco del secolo scorso[12]). Tutto lo schema nei suoi termini essenziali è impostato in modo giuridico, perché prima si parla di una coercizione caratteristica che diviene poi - a contrario - libertà contrattuale. Ma non è un bell’esempio di formalismo giuridico trasbordante in campo altrui?

A ben vedere, quella coercizione era un rapporto di potere, tanto spesso peraltro rovesciato a favore del prestatore d’opera grazie alla forza contrattuale di cui disponevano i villaggi a fronte di un signore assenteista e con tutt’altri problemi; ugualmente, nel mondo contemporaneo quella ‘libertà’ contrattuale è essa stessa un bel formalismo, perché il contratto di lavoro è tra i meno liberi in assoluto (un tempo squilibrato a favore del datore di lavoro e ora, invece, ancora per qualche tempo almeno, a favore o con maggior tutela del lavoratore), un po’ come quello di chi chiede un servizio pubblico o contratta con una grande impresa, che può solo aderire ad uno schema contrattuale che non lascia alcuna libertà.

Nell’un caso e nell’altro sono le condizioni concrete, le situazioni del contesto che spiegano e dicono chi avesse il controllo del rapporto di produzione, non gli schemi giuridici. Libertà contrattuale e necessità coesistono anche nella stessa ‘formazione economico-sociale’ – se vogliamo continuare ad usare categorie marxiane. La libertà contrattuale dei moderni, quella che sarebbe stata assicurata dai moderni codici - tra breve se ne parlerà tanto per le celebrazioni del bicentenario del Codice civile napoleonico - fu affermata assieme alla sua negazione più netta. Ad esempio prima si potevano fondare con i fedecommessi — ossia con manifestazioni di volontà che duravano attraverso i secoli[13] - dei patrimoni destinati a certi scopi; buoni o cattivi che fossero per noi oggi, allora lo si poteva fare; dopo, non più, in ossequio a un’altra libertà che si volle preminente: quella della circolazione dei beni sul mercato.

Altro esempio, ben presente a chi lavora sul Medioevo. Gli storici oppongono un Medioevo in cui non vale l’individuo in quanto tale, ma solo come membro di un’entità associativa, il ceto o la corporazione, al mondo moderno come luogo dell’individuo per definizione[14]. A ben vedere si tratta di nuovo di una contrapposizione formalistica, di una semplificazione frutto di mentalità giuridica astratta. Vero che c’erano dei gruppi esclusi dal potere politico, oppure da quello dei privilegiati delle città (pensiamo anche soltanto a tutti gli abitanti del ‘contado’ che avevano un trattamento diverso dai ‘cittadini’), ma ciò non vuol anche dire che non ci fosse la tutela individuale dei diritti. Certo, se si aveva dietro, a dar forza alla propria richiesta, un gruppo era molto meglio. Ma oggi non succede forse lo stesso? Proclamata la tutela individuale dei diritti (presente anche negli statuti medievali, beninteso) si conferma sempre più che se non si fa parte di una qualche corporazione, da quella dei docenti a quella dei consumatori a quella di un partito o di un sindacato, certi diritti sono praticamente intutelabili. Di nuovo la contrapposizione tra antico e moderno è una contrapposizione che la storia cosiddetta generale basa su un assunto formalistico; o meglio, su un assunto giuridico, e peraltro schematico e di difficile verificazione.

Tutela dei diritti. Si pensi a quello che si è detto dell’Inquisizione e a quello che si va dicendo in sede di revisione (più che revisionismo) dei giudizi storici tralatizi. Oggi John Tedeschi e tutto sommato lo stesso Adriano Prosperi ne danno un’immagine ben diversa: Inquisizione come istituzione ben ramificata sì, onnipresente e attentissima fino all’ossessione, ma anche formalmente (e apparentemente) rispettosa dell’inquisito grazie all’infinità di carte necessarie per decidere alcunché (c’è già tutta la nostra cultura processual-penalistica...); segreta nelle procedure[15] proprio per non danneggiare 1’inquisito (e qui abbiamo addirittura fatto passi indietro!), rapida (no comment sull’attualità) e così via. Ad essa viene contrapposto un sistema giudiziario ‘moderno’ che ha realizzato molto di più? La carcerazione preventiva non è peggio di una pena medievale?

Nell’opporre antico e moderno gli storici si servono per lo più di un formalismo che è tipicamente giuridico: va meglio oggi, perché… la legge dice che va meglio, ispirandosi di regola a nobili idealità egualitarie e solidaristiche.

A stare a quel che viene scritto e proclamato nei nostri testi normativi attuali e ad opporlo testualmente, com’avviene in molta storiografia giuridica e non, a testi del passato siamo senz’altro nel mondo delle meraviglie e le discontinuità non si contano. Ma quel culto retorico della ‘forma’, la tendenza ad affermare più che a realizzare, a proclamare diritti più che rispettarli nei fatti, in una parola la tendenza a limitarsi a creare delle belle ‘forme’, era già tutta nel nostro Dna.

Ecco dove l’ipotesi di una prevalenza inespressa della cultura giuridica mi sembra molto plausibile: in questa fiducia per l’affermazione scritta, più meritevole di attenzione del reale; in questa tensione a deliberare riforme più che a realizzarle concretamente; in questo perenne dire più che fare o proporre senza verificare.

Astrattismo, velleitarismo, formalismo sono caratteri profondi della nostra cultura che abbiamo in comune con e dalla cultura giuridica. L’ipotesi è quindi che sia ‘separata’ solo apparentemente. In realtà essa è dentro di noi, forma un tutt’uno con la nostra cultura: perciò bisogna riconoscerla per poterla controllare, dominare, e superare; altrimenti, c’è il rischio di rimaner schiavi inconsapevoli della sua cultura.

Prendiamo un’altra opposizione tipica. Il Medioevo, si dice, è privo di costituzione, e ad esso si contrappone la modernità costituzionale; il periodo dei privilegi è contro il periodo dei diritti[16]. Non è uno schema formalistico in cui, di nuovo, siamo vittime di uno schematismo tipicamente giuridico? La costituzione nel Medioevo c’era eccome, sia negli ordinamenti monarchici che in quelli comunali. Sarà stata più consuetudinaria nei primi e più legislativa nei secondi, e perciò più di tipo moderno dal nostro attuale punto di vista nei secondi; ma ciò vale solo per un continentale, perché un suddito di Sua Maestà britannica naturalmente valuterebbe la modernità in modo opposto. Comunque, non solo c’era la costituzione, ma i poteri dei re si ritenevano addirittura più limitati dei poteri dei governi comunali, che - rilevava Machiavelli“insalvatichivano” i vicini (esempio di Firenze in Discorsi, II 21). I re, di solito, erano tutt’altro che assolutisti, vincolati com’erano dalle istituzioni rappresentative dei ceti.

Lo stesso ‘assolutismo’ moderno di cui si parla risponde a un formalismo giuridico, perché a ben vedere i sovrani cosiddetti ‘assoluti’ furono assai pochi e solo in circostanze eccezionali poterono operare. Fu piuttosto la regola il governo ‘partecipato’ dai ceti o dualistico, diviso con le amministrazioni locali, che ebbero competenze sempre larghissime fino al trionfo dei centralismi ‘nazionali’ e delle burocrazie ottocentesche. C’è chi parla di un vero assolutismo, o per meglio dire di ‘assolutismo legislativo’, solo per l’Ottocento, quando i governi ad esempio ardirono confiscare i beni delle chiese, cosa mai successa in passato, salvo alcuni interventi riformatori settecenteschi. Ma si può opporre: forse che i condizionamenti di ceto (o di classe, meglio) allora non operavano? Non è forse quello il secolo della borghesia e dello Stato ‘monoclasse’?

Certo, il costituzionalismo moderno-contemporaneo va di pari passo con un ‘autoritarismo’ che sembra del tutto nuovo, anche perché ha chiesto come non mai il sacrificio in massa dei sudditi. Ma non mi sembra che le stesse prassi di governo fossero ignote ad esempio ai nostri Comuni-città-Stato medievali.

Ma allora quelle contrapposizioni tra grandi epoche, squarciati i formalismi di tipo giuridico, si dissolvono?

Certo, svolte ce ne sono, ma a volte sono altre, diverse da quelle dichiarate, oppure assai meno pronunciate di quanto il formalismo non ci abbia abituato a pensare. Il fatto che oggi tutti apparentemente abbiano i diritti politici quando sono cittadini di un ordinamento sembra incompatibile con un ordinamento feudale e fa pensare ottimisticamente di essere in una situazione speculare rispetto a quella feudale del Medioevo. Ma è un’ingenuità palese, anche se rassicurante. Solo un ennesimo formalismo storiografico ci può far pensare a incompatibilità assoluta dei due tipi di ordinamenti.

I sistemi presidenziali attuali (ma il discorso può proporsi mutatis mutandis per quelli ‘partitocratici’[17]) a partire da quello stesso americano, ad esempio, che si vuole importare (peraltro senza i suoi ‘pesi e contrappesi’, fortissimi in America e tali da garantire una relativa, come sempre, democraticità del sistema) hanno precisi profili feudali  proprio sotto il piano sostanziale, squarciato il velo del formalismo giuridico-politico. Lo spoil system, che consente al vincente di piazzare tutti i propri uomini nelle posizioni che contano (prontamente imitato naturalmente da noi, ma senza nulla della cornice garantistica presente negli Usa) è anzi, a ben vedere, una forma di feudalesimo puro.

Sono dei ‘fedeli’ in senso proprio quelli piazzati nelle varie lucrosissime poltrone (non è ‘rendita’ e della peggiore quella a spese e in nome dell’interesse pubblico?), persone che hanno di fatto promesso la loro fedeltà in cambio di protezione come nel più puro schema feudale; come nel più puro schema feudale; come nel modello feudale ideale, infatti, essi sono licenziabili ad nutum, cioè a puro arbitrio del Signore concedente il beneficium. Fu l’edictum de beneficiis italiano[18] a dare un’adeguata protezione ai nostri vassi lombardi e a rompere, pertanto, la licenziabilità da parte del concedente; dopo Corrado II, da un punto di vista strutturale il feudo ‘lombardo’ divenne come un posto nell’amministrazione pubblica italiana in base alla nostra legislazione (peraltro in via di destabilizzazione profonda): un posto dotato di protezione e fissità (e spesso anche ereditarietà) secondo lo schema sindacal-corporativo. L’ufficio stabile, acquisito una tantum, intoccabile a vita, aveva nel passato come oggi un rilievo importante, perché dava una libertà inimmaginabile, un’indipendenza che oggi è sempre più in pericolo negli uffici pubblici (vista 1’estrema politicizzazione dominante) una volta introdotta l’instabilità del posto di lavoro.

Si pensi a un altro esempio istruttivo. Quando ci si scandalizza della venalità degli uffici in età moderna - peraltro anticipata da quello ‘Stato moderno’ ante litteram che fu l’apparato pontificio - si dimentica (formalisticamente appunto) che troppo spesso ancor oggi gli uffici vengono comprati, pur se in modo formalmente pulito, ad esempio camuffato da corsi di formazione - e prescindendo ovviamente dalla corruzione, sempre possibile, e certamente non meno diffusa che nel passato. Siamo al punto che dietro adeguato compenso certe agenzie specializzate sono praticamente in grado di garantire l’elezione a deputato. Venalità e simonia, quindi, sono scomparse solo come categorie, non come realtà di fatto. Ma nei testi normativi attuali non se ne parla, per cui si possono creare delle belle opposizioni nette, che fanno scorrere fiumi di moralismo storiografico – inutile dire quanto controproducente sul piano didattico e formativo.  Con le loro discontinuità a volte fittizie, vittime di slogan del concettualismo giuridico, gli storici finiscono per condannare il passato e legittimare il presente. Il moralismo è per lo più a senso unico: funziona meglio quando rivolto contro il passato.

Basterà richiamare all’uso che vien fatto della categoria di ‘oligarchia’. Se ne parla per il passato da condannare con una frequenza esasperante. Come dubitare che il periodo consolare dei Comuni fosse oligarchico, se fu seguito dalle rivolte del ‘popolo’? A ben vedere però anche questo ‘popolo’ era fatto di grassi borghesi, e pertanto anch’esso era non meno oligarchico; poi, quando prevalsero i paradigmi nobiliari come si poteva non essere in un mondo oligarchico? E il notabilitato ottocentesco col voto addirittura censitario?

Insomma, solo il suffragio universale può convincerci e rassicurarci di essere pervenuti alla soluzione, al superamento dell’oligarchia. Non è anche questo formalismo? Nel Dopoguerra democratico, ricco di infiniti aspetti positivi, beninteso, i fili della vita pubblica sono stati retti da un gruppetto di politici autoperpetuantisi attraverso gli schermi dei partiti, con un ‘centralismo democratico’ che è stato il vero trionfo dell’oligarchia come mai in passato (salvo il fascismo, naturalmente, che però è durato assai meno...). I più intelligenti e prudenti, come in ogni seria oligarchia, sono passati indenni attraverso le vicende più incredibili e contraddittorie: fare dei nomi credo sia superfluo – oltreché imbarazzante. Cambiamo scenario e i problemi e certe soluzioni non cambiano.

La Francia moderna con i suoi giudici ‘venali’ dei parlamenti aveva dei funzionari che potevano sfidare il loro re, esattamente come potevano fare i nostri vassi lombardi alleandosi tra loro e costituendo i Comuni, oppure come facevano i dipendenti pubblici fino a pochi anni fa: un segretario comunale, che un tempo poteva-doveva opporsi al suo sindaco, è dubbio che lo possa fare oggi, dipendendo in tutto da lui...

Formalismi ovunque, frutto d’un trionfo attuale (e che si tarda a riconoscere) della mentalità giuridica, che vuol dire impulso a ragionar per schemi, più che per funzioni, per proclami più che in base ai dati di fatto, alle analisi serie, che pure ci sono. Perché il sistema ammette la contraddizione, ma sa come metabolizzarla. Pensiamo ai nobili discorsi dei Procuratori della Repubblica a inizio di anno giudiziario, o a quelli della Corte dei conti sulle malefatte della spesa pubblica sotto qualsiasi governo: ci può essere qualcosa di più realistico e al tempo stesso di più inutile? Non risulta che abbiano mai dato avvio a qualcosa di veramente serio, visto che sono mancati interventi efficaci che precludessero le stesse lagnanze ogni anno. Pensiamo ancora, sempre per essere concreti, alla proclamazione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Nessuno ci aveva mai pensato in passato e invece nella nostra parenetica Costituzione c’è, naturalmente: perché è un valore, importantissimo, ma purtroppo rimane solo tale; perché è un valore contraddetto nella pratica di tutti i giorni, in cui si vedono privilegiati certi filoni di repressione anziché altri, ovviamente (e spesso giustamente, beninteso),  e perché, soprattutto, è un valore impossibile: nessun apparato di polizia potrà mai essere sufficiente a verificare con un pari impegno ogni possibile reato commesso.

Il formalismo quindi (non il rispetto delle forme, del diritto, che è altra cosa) è parte importante della nostra cultura; anzi, lo è oggi più che mai. Ma quanto e come e con quali conseguenze ci condizioni è questione da approfondire, almeno per me. Perciò concluderemo solo provvisoriamente. Con un caveat: a guardarsi dai giudizi storici (a partire dai miei), e non solo da quelli su età lontane, che anziché essere più obiettivi di altri, perché distaccati, ‘scientifici’, nascondono spesso e volentieri il dominio nel mondo delle categorie del formalismo giuridico. Diffidare è buona regola sempre, come ci ha insegnato a fare la mistificante politica del Novecento, ma in campo storiografico è ormai un imperativo categorico.

Lo impone la responsabilità morale per quello che si dice e che si va insegnando. Le categorie storiografiche danno un volto al passato e in un certo senso accreditano il presente. Perciò contribuiscono, più di quanto non si pensi, a costruire il futuro.

 



[1] Nate come contributo a un incontro organizzato dall’Accademia Jaufré Rudel di Gradisca sull’Isonzo e passate in una prima redazione nella sua rivista, “L’Unicorno”, II, 2000, pp. 9-20.

[2] Forse anche perché ho ormai difficoltà a riconoscermi in una disciplina (per non parlare di gruppi accademici), dopo gli sconquassi preesistenti poi aggravati dalla drammatica riforma dei sistemi concorsuali.

[3] Quella stessa che ha portato a privilegiare in modo abnorme la storia del Novecento; sempre per la storia andrà ricordato ai giovani come la Sinistra – come dire, quindi, la quasi totalità del mondo culturale italiano – avesse sempre sostenuto la fecondità di qualunque corso di storia su qualsiasi periodo storico, purché ben fatto, attento a creare problemi e dare chiavi interpretative.

[4] Si veda L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell'Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 13 s.

[5] Il cui rilievo è stato giustamente ribadito da R. Fubini, L’umanesimo itlaiano e i suoi storici. Origini rinascimentali – critica moderna, Franco Angeli, Milano 2001.

[6] Temi sui quali è sempre fondamentale G. Cianferotti, Il pensiero di V. E. Orlando e la giuspubblicistica italiana fra Ottocento e Novecento, Giuffrè, Milano 1980.

[7] Rinvio, per una lettura relativamente semplice, al mio recente I diritti del Medioevo italiano (secoli XI-XV), Carocci, Roma 2000, mentre è più complesso E. Cortese, Le grandi linee della storia giuridica medievale, Il Cigno Galileo Galilei, Roma 2000.

[8] P. Cammarosano, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, La Nuova Italia scientifica, Roma 1993 (ristampe Carocci, ibid.)

[9] Si v. ad esempio A Zorzi, La storia della giustizia. Orientamenti della ricerca internazionale, in “Ricerche storiche” 26 (1996), pp. 97-160, a p. 98, ove si parla del “rinnovato interesse per la storia istituzionale e politica, non  più solo nel tradizionale approccio giuridico-formale ma anche nella prospettiva della sociologia giuridica”; la storiografia giuridica vi appare ‘naturalmente’ infetta dal formalismo.

[10] Che ha lasciato tra le tante opere d'interesse prettamente storico-giuridico una cronaca 'storicissima' del diritto del lavoro: Teorie e ideologie nel diritto sindacale - 1'esperienza italiana dopo la Costituzione, Comunità, Milano 1967. C’è da chiedersi, nella situazione attuale, se si tratti di augurarsi solo un ‘benefico letargo’, come in  S. Cassese, che la storiografia giuricica si conceda un benefico letargo, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, 40, 1990, pp. 1159-1165, un intervento che è tutto da leggersi molto attentamente, ora in contemporanea a R. Ajello, L’illusione ontica, in “L’ape ingegnosa”, 1, 2001, pp. 7-29.

[11] Per cui ad esempio anche in una recente e rassegna di storiografia medievistica, la produzione giuridica è stata praticamente ignorata: il Medioevo sembra quello dei professori di Storia medievale e delle discipline da essa immediatamente dipendenti da un punto di vista concorsual-accademico-ministeriale; v. D. Balestracci, Medioevo italiano e medievistica. Note didattiche sulle attuali tendenze della storiografia, Il Calamo, Roma 1996.

[12] Sul quale esiste come si sa una letteratura enorme. V. ora il contesto ricostruito in C. Vano, Alla ricerca di Gaio, Viella, Roma 2000.

[13] V. ora M. Piccialuti, L’immortalità dei beni. Fedecommessi e primogeniture a Roma nei secoli XVII e XVIII, Viella, Roma 1999.

[14] V. ad esempio M. Fioravanti, Stato e costituzione, Giappichelli, Torino 1997 (ma è solo un esempio entro una casistica amplissima).

[15] Emerge bene dalla documentazione centro-periferia del tribunale, ora studiata da Oscar Di Simplicio.

[16] Si v. la raccolta di saggi di H. Mohnhaupt, Historische Vergleichung im Bereich von Staat und recht, Frankfurt am Main, Klostermann, 2000.

[17] Fu un politico acuto a rilevarlo già tanti anni fa (Pietro Ingrao) sottoponendo ad analisi spietata il sistema delle partecipazioni statali.

[18] Ho cercato di dar rilievo a fatti strutturali come questo nel mio Istituzioni medievali, il Mulino, Bologna 1999, alla cui introduzione rinvio per il formalismo evidente di molte discussioni sullo ‘Stato moderno’.

 

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