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Beato Angelico, Tebaide, Galleria degli Uffizi - Particolare di coltivazioni ed orti Emanuele Conte

     

Cose, persone, obbligazioni, consuetudini. Piccole osservazioni su grandi temi, in Le sol et l'immeuble. Les formes dissociées de propriété immobilière dans les villes de France et d'Italie (XIIe-XIXe siècle), (convegno Lione 1993), Roma 1995 Collection de l' École Française de Rome, 206), 27-39.
 
 

1. Quando s'è occupata delle vicende del diritto privato tra l'evo moderno e il contemporaneo, la storiografia giuridica ha posto in rilievo la connessione intima tra l'esigenza di semplificare il sistema delle proprietà medievali e quella di liberare la volontà individuale nella formazione del contratto e nella creazione delle obbligazioni. S'è quindi spesso ripetuto, con ragione, che il raggiungimento della "proprietà perfetta" ottenuto col famoso articolo 544 del Code Napoléon ebbe l'effetto di sciogliere le ali, per così dire, alla libertà contrattuale1.

Se agli occhi dello storico del diritto privato moderno la dinamica dei rapporti contrattuali appariva palesemente dipendente dall'assetto assunto dalla statica dei diritti reali, non può però dirsi altrettanto per lo storico dell'età medievale, al quale è occorso soltanto in rari casi di trattar congiuntamente le due grandi sfere che la dogmatica moderna usa distinguere nettamente. Sarà forse la perdurante influenza di una concezione sostanzialmente evoluzionistica della storia giuridica2, che al Medioevo ha assegnato per tradizione la funzione di tramite tra diritto classico e diritto odierno: il fatto è che quella separazione netta tra rapporti obbligatorî e diritti reali che s'è precisata lungo l'età moderna e fu sancita dalla Rivoluzione ha finito per orientare anche tanti autorevoli studi di diritto privato medievale. Il che non ha impedito, per la verità, di porre in rilievo esempi assai rilevanti di contatti tra diritti reali e obbligazioni. Basti pensare al caso della locazione-conduzione: ancora l'Astuti poteva indicarla come il tipico contratto con efficacia soltanto obbligatoria3, ma al Grossi essa svelò poi una forte propensione ad assumere efficacia reale quando il rapporto fosse vivo per un tempo sufficientemente lungo4.

 

2. Il fatto è, insomma, che la cultura giuridica medievale non delineò confini ben visibili tra i due territorî che il diritto borghese volle separar chiaramente. A dividerli v'era piuttosto una vasta "zona franca" presidiata da un lato da forme molteplici di servitù, che tendevano a vestire rapporti personali anche privi di oggetto reale; dall'altro da obbligazioni aventi ad oggetto prestazioni periodiche, cui la sensibilità medievale attribuiva caratteristiche tipiche dei diritti reali. A questa nebulosa di situazioni giuridiche che la nostra mentalità sistematica fatica a inquadrare si può dedicare qui qualche osservazione.

E occorrerà partire da un testo di Baldo ch'è stato definito la prima lista dei diritti reali5, compilata dalla dottrina con un ritardo che, due secoli e mezzo dopo Irnerio, può sorprendere; e si spiega con la scarsa preoccupazione che destava l'ordinata descrizione dei diritti nel Medioevo, quando la scuola era attenta piuttosto a elaborare argomenti e rationes da mettere in campo nel gioco dialettico che costituiva la scientia. Del resto anche Baldo, che pure anticipò taluni atteggiamenti umanistici, concepì la sua lista nel quadro di una discussione che risaliva al tempo dei glossatori, svolta dai civilisti in margine a una norma del Codice che stabilisce il principio, all'apparenza indiscutibile, tempus non vestit pactum: il fatto che per un certo tempo sia stata effettuata una prestazione periodica convenuta per mezzo di un nudo patto non può concorrere a formare la causa legittima di una obbligazione6.

Fa riflettere dunque che Baldo voglia descrivere i diritti reali commentando una norma che dovrebbe suscitare approfondimenti in tema di patti e, per estensione, di contratti e obbligazioni. E tuttavia la menzione dell'elemento tempo nel testo legislativo evocava nell'interprete medievale da una parte quei rapporti contrattuali che alla lunga durata dovevano la loro efficacia reale, dall'altra la prescrizione di diritti reali. Sicché era ormai costume fra i civilisti trarre da quella norma un insegnamento fondamentale che tracciava in astratto una differenza tra diritti reali e "diritti personali" (cioè i diritti soggettivi sorti da obbligazioni): che i primi non possono costituirsi ex tempore, mentre i secondi si acquisiscono per effetto di una longi temporis possessione confortata da un legittimo titolo7.

Di qui, dunque, l'esigenza sentita da Baldo di identificare un criterio per distinguere i diritti reali dai personali, e la proposta di due dottrine: l'una "per nomina", puramente definitoria; l'altra "per quandam theoricam", più elaborata ma forse meno soddisfacente. Ogni diritto soggettivo che esiste senza riferirsi ad una obbligazione è un diritto reale, mentre il diritto che non sussiste se non nell'obbligazione è un diritto personale8: ed ecco così identificati come diritti reali la proprietà, le servitù e le quasi servitù. Che è come tornare al punto di partenza, giacché i rapporti fra persone che potevano essere annoverati fra le servitù pur non avendo un oggetto reale erano molti. Lo ammette Baldo stesso solo qualche riga più su, esponendo la sua dottrina "nominalistica", che proprio alle servitù deve dedicare un approfondimento: oltre alle servitù reali, dovute da una cosa verso un'altra cosa, esistono infatti servitù personali che sono, a dispetto del bisticcio di parole, diritti reali9. E se pochi problemi pongono alla nostra sensibilità l'uso e l'usufrutto inseriti in questa categoria, colpisce invece il riferimento al rapporto tra superior e vassallo descritto come una servitù, un diritto reale.

Una vecchia e diffusa tradizione storiografica insegnava infatti che sul piano tecnico giuridico il feudo deve considerarsi costituito di tre diversi istituti: il beneficio, il vassallaggio e l'immunità10. Si separa in tal modo nella teoria l'elemento reale dal rapporto personale e dalla delega di poteri pubblicistici, riconducendo così alle nostre categorie mentali quell'inafferrabile miscuglio che fu il feudo. E il vassallaggio, si insegnava e si ripete ancora, era un rapporto personale, generatore di diritti e doveri ma estraneo alla sfera dei diritti reali, cui sarebbe appartenuto il beneficio.

Per Baldo, invece, quel rapporto è un esempio di servitù personale e dunque proprio un diritto reale: "Item servitutes hominum sunt iura realia: unde in vasallo habemus ius reale et petitur per quasi confessoriam; idem in ascripticio et censito". Il che porta con sé almeno due conseguenze di assoluto rilievo nella pratica: che cioè una soggezione personale potesse essere acquisita per prescrizione, attribuendo così valore de iure a una situazione di fatto protratta per molti anni; e che sul piano processuale fosse ammesso il ricorso alle procedure possessorie romane e canoniche, cioè gli interdetti e l'actio spolii. Si tutelava insomma come possesso un rapporto di fatto fra uomo e uomo.

 

3. La conclusione di Baldo era però tutt'altro che pacifica. La possibilità di rivolgersi al giudice per ottenere la restituzione nel possesso non di cose materiali, ma di diritti, aveva costituito l'oggetto di lunghe discussioni che avevano finito per opporre i civilisti ai canonisti. La vicenda è in gran parte nota, grazie alle indagini ormai più che centenarie di Bruns e di Ruffini11, e affonda le sue radici in un episodio emblematico che pose di fronte, nell'aula del tribunale, i due massimi esponenti della glossa civilistica e di quella canonistica. Davanti a Uguccio da Pisa che, lasciata la cattedra scolastica per quella vescovile di Ferrara, presiedeva l'udienza in veste di giudice, Azzone difese le ragioni del monastero di S. Stefano contro le pretese dei canonici bolognesi, i quali chiedevano che fosse proseguita la prestazione di derrate che affermavano di "possedere" da lungo tempo. Trasferita in una quaestio scolastica che ebbe due redazioni differenti12, l'arringa di difesa del maestro civilista si basò proprio sul carattere obbligatorio del preteso rapporto tra i due enti ecclesiastici, per affermare l'inapplicabilità al caso della procedura possessoria. La richiesta dei canonici, diceva Azzone, può essere basata soltanto su una obbligazione, e perciò può esser fatta valere in giudizio soltanto da chi è in grado di provare l'esistenza di un contratto valido che creò quell'obbligazione13. Se si potesse chiarire la posizione del glossatore ricorrendo alla dottrina di Baldo, si direbbe che l'omaggio annuale prestato dai monaci non poteva rientrare fra gli iura realia: per esser considerato la risposta a un diritto soggettivo dei canonici esso doveva configurarsi come l'adempimento di una obbligazione.

A Uguccio la tradizione attribuì la difesa dell'ottica tipicamente canonistica, che fu del resto sancita soltanto pochi anni dopo il processo14 dalla decretale Querelam di Innocenzo III, del 1205. Confluita nella raccolta dello stesso papa (la Compilatio tertia) e poi nel Liber Extra (X. 1.6.24), la sentenza di Innocenzo, che stabiliva la restituzione di una chiesa nello "status percipiendi pensionem" in attesa di definire la "quaestio proprietatis", apriva le porte all'irruzione dell'ottica possessoria per la difesa di qualunque diritto, e finiva così per provocare nelle opere dei canonisti uno smisurato ampliamento di quella categoria delle servitù personali che ci è apparsa come l'avanguardia dell'espansione incontrollata dei diritti reali.

Sicché nel corso del Duecento i civilisti arrivarono a criticare apertamente non tanto i ragionamenti dei colleghi canonisti, quanto piuttosto lo stesso contenuto della decretale di Innocenzo. E a Jacques de Révigny fu attribuita da Cino una espressione significativa: "adversus Querelam opus est querela15". La soluzione canonica è troppo sbrigativa, aggiunge Cino: mescola arbitrariamente le actiones in rem e quelle in personam e provoca insomma lo scompiglio nel sistema delineato dalle Istituzioni. Assai male fanno perciò quei legisti che si rivolgono alla norma canonica per agire anche nel foro civile pretendendo di difendere quello che deve considerarsi un possesso "impropriissimo": pur avendo tra le mani l'inestimabile tesoro delle leggi giustinianee essi si rivolgono all'erronea scienza canonistica, come chi si riduce a chieder l'elemosina ai mendicanti stessi16.

 

4. Non è qui il caso di menzionar tutti i civilisti che intervennero sul tema del possesso di diritti nei cent'anni intercorsi tra le due marcate prese di posizione di Azzone e di Cino; esse stanno ai due estremi di una linea di pensiero, unitaria salvo qualche eccezione, che percorre tutto il Duecento e rappresenta uno dei punti di attrito tra le due grandi scienze che andavano costruendo il fulcro teorico del sistema del diritto comune.

Per trovare una valida proposta di conciliazione tra i due orientamenti contrapposti occorre tornare ancora a Baldo, che si affida a una distinzione sottile. Una prestazione periodica — dice — può esser fatta principalmente per adempiere a un'obbligazione, e allora non può esser richiesta con procedimento possessorio: non costituisce una cosa e non può essere oggetto di diritto reale. Oppure quella prestazione può aver relazione con una certa servitù o una soggezione personale: "puta iste rusticus praestit omni anno aliquid tamquam vasallus vel tamquam vasalli filius". E in questo caso essa è l'effetto di un diritto reale, e dunque può essere oggetto di procedimenti possessori e petitori17.

Ripete dunque Baldo, coerentemente a quanto aveva esposto qualche riga più su, che il diritto del superior feudale è appunto un diritto reale. E la cosa appare con evidenza ancor maggiore in una delle additiones di Baldo allo Speculum iudiciale di Guglielmo Durante, che aprofondisce aspetti dell'istituto processuale tipicamente canonistico dell'actio spolii. Il Durante aveva per la verità affrontato l'argomento attingendo ampiamente alle opere processualistiche di Roffredo Beneventano: e non solo ai libelli iuris canonici, ma anche alla precedente opera civilistica, che al tema della reintegra nel possesso dedicava lunghi capitoli centrati sul procedimento interdittale. Sicché l'additio di Baldo si appoggia su un testo di vero utrumque ius, un mosaico che ai brani del civilista risalenti ai primi decenni del XIII secolo accosta le riflessioni del più tardo Guglielmo e poi il primo strato di additiones composte da Giovanni d'Andrea verso gli anni 1340 e divenute immediatamente corredo usuale dello Speculum. Sicché la sede sembrò opportuna al Baldo doctor in utroque per proporre la sua conciliazione tra le due opposte dottrine. Con termini più raffinati ripete la distinzione enunciata nel Commentario al Codice: le obbligazioni possono esser "simplices absolutae" oppure "respectivae seu connotativae"; le prime son contratte tra uomini liberi e non possono dar luogo ad alcun tipo di possesso; le seconde dipendono invece da una situazione di quasi servitù, di soggezione o di dominio, e creano nel "creditore" un quasi possesso18. E' esplicito qui il ricorso di Baldo alla figura della servitù: "Nam omnis servitus aut debetur a re rei, aut a re personae, ut ususfructus, aut a persona non omnino libera, sed quasi subiecta alterius personae, ut vasallus domino, vel a colono glebae annexo: C. de agricol. et censi., l. Litibus (C. 11.48.20)".

Ed ecco dunque non solo la servitù della gleba, ma tutti i rapporti di subordinazione personale trascinati fuori dall'àmbito del diritto delle persone e fatti confluire tra i diritti reali per la porta ancora ben aperta ch'è rappresentata dal concetto assai vago di servitù innominata. Concetto che appare ancora lontano dalla precisazione raggiunta poi nel Cinquecento con l'opera sistematica di Hugues Doneau, nella quale la servitù è definita per la prima volta "diritto su cosa altrui"19. Solo allora la sfuggente figura della servitù venne finalmente costretta a vivere soltanto in relazione alle cose e ad abbandonare le incursioni fra le persone e le obbligazioni.

 

5. Nell'ottica medievale che abbiamo visto distillata in Baldo lo status personale può invece vivere all'interno della categoria dei diritti reali, poiché dà vita a diritti soggettivi che esistono anche senza esser riferiti a obbligazioni. Non parlava la discussa decretale Querelam della reintegra di colui che aveva sempre percepito prestazioni periodiche in uno "status percipiendi"? Allo stato personale di chi era sottoposto alla superiorità altrui faceva quindi riscontro uno stato personale del senior; uno status che giustificava da solo un diritto soggettivo a ricevere le cose o i servizi, che costituivano la sostanza del rapporto di subordinazione.

Il ricorso alla categoria dello status permetteva così ad Antonio da Butrio di tornare con un argomento singolare sul vecchio tema dell'acquisizione del diritto di riscuotere prestazioni periodiche per il solo effetto del tempo. Non è necessario, in definitiva, deformare l'idea del possesso per tutelare la posizione del creditore di fatto che non è in grado di esibire prove della creazione di un'obbligazione. Conviene invece rilevare che il ripetersi delle prestazioni da lunghissimo tempo "imprime una sorta di status" nel creditore, il quale ne ricava un diritto a esser difeso se spogliato del suo status20.

Il canonista contemporaneo di Baldo delinea così una situazione giuridica che finisce per sfuggire sia alla disciplina delle obbligazioni che a quella dei diritti reali. Accenna invece a una sorta di "statuto della persona" che definisce in ciascuno diritti e doveri, debiti e crediti. L'idea prospetta insomma un pluralismo dei soggetti dell'ordinamento enormemente più ampio di quello che si usa descrivere nell'Europa prerivoluzionaria: gli status personali non sarebbero un limitato numero di condizioni personali definite a priori, ma le infinite situazioni socioeconomiche in cui si trovano le persone. Tanti status quanti sono i soggetti di un ordinamento; che si rivelerebbe così completamente estraneo a quelle esigenze di disponibilità di beni, di risorse finanziarie, di forza lavoro che la società borghese cominciava a perseguire con maggiore energia proprio tra Trecento e Quattrocento. L'esistenza di un numero illimitato di status personali, riconosciuti e tutelati, ingabbiava invece la libertà contrattuale almeno quanto il regime della proprietà era bloccato da quella molteplicità di modelli che la riflessione prima civilistica e poi storiografica ha tentato di rendere volgendo al plurale il sostantivo indeclinabile "proprietà"21.

 

6. Quell'imbarazzo dello storico giurista nell'accostarsi alle manifestazioni medievali della proprietà è stato anzi disegnato dal Grossi ricorrendo proprio all'immagine dello "statuto della cosa"22: il dominio utile, insegna Grossi, è concetto quasi inafferrabile per il dogmatico odierno che costruisce il ragionamento partendo comunque dal soggetto; mentre può esser colto soltanto ricostruendo l'atteggiamento medievale che disegna il diritto partendo dalle cose23.

Sicché il discorso che, cogliendo qualche aspetto di quella "zona grigia" che sta all'intersezione di diritti reali e rapporti obbligatori, sembrava averci condotto troppo lontani dal tema della proprietà, torna per vie inattese al mondo delle cose. Perché lo status personale di Antonio da Butrio delinea giuridicamente i rapporti economici senza chiamare in causa affatto i soggetti e la loro volontà: si limita a registrare un equilibrio di forze, naturale o consolidato dal tempo, e lo riveste di giuridicità. Proprio come avviene per il fondo rustico che fornisce i suoi frutti diversamente a soggetti diversi: al proprietario e all'enfiteuta, alla collettività che ne sfrutta i boschi e al feudatario che vi riscuote il censo.

Nell'alto Medioevo la distribuzione di queste utilitates del fondo era talvolta regolata da quella consuetudo o lex fundi24 che attribuiva a ciascuno il suo senza tirare in ballo i soggetti, i loro diritti e la loro volontà. Sicché la consuetudine, ristretta nei confini di una curtis sola, impiegava la sua forza normativa non per regolare i rapporti tra i privati, ma per definire il loro contenuto economico: risucchiando così con la sua autorità tutta l'autonomia dei privati. Si trattò, evidentemente, di una situazione particolare, alla quale i giuristi bolognesi opposero presto la figura di una consuetudine correttamente ricondotta nel solco del diritto pubblico, espressione di quel consensus populi che produceva sotto i loro occhi il fenomeno grandioso della legislazione statutaria. Eppure i canonisti, per tanti versi più conservatori dei legisti, si tramandarono per secoli25 una teoria di Bernardo Compostellano26 che alla consuetudine si richiamava per giustificare lo stabilirsi di vincoli di tipo obbligatorio tra privati. Basta che un certo comportamento si sia ripetuto per un tempo sufficientemente lungo perché esso possa esser considerato come una consuetudo legitime praescripta anche se coinvolga soltando due persone. La consuetudine stabiliva così un ius conservando alla parola latina tutta la sua ambiguità: costituiva a un tempo un diritto soggettivo e il Diritto, law e right coincidevano. E l'iniziativa privata scompariva, stritolata dallo strapotere della norma.

La teoria di Bernardo era basata sul connubio tra consuetudo e praescriptio27, introdotto dai canonisti e teso a separare il contenuto della norma consuetudinaria dalla sua forza disponente28. Incontrò perciò resistenze da parte dei civilisti, che tendevano invece a ricondurre la consuetudine nella sfera delle fonti del diritto per applicare la prescrizione ai rapporti privati29; sicché anche qui si creò una dissonanza tra i due diritti30.

La dissonanza era del resto un suono consueto per l'orecchio dell'interprete del diritto comune31, costretto prima a cercar la conciliazione delle sue contraddittorie fonti, e avvezzo poi a procedere per contraria nel ragionamento esegetico. Occorre dunque tener presente che gli spunti teorici offerti da quei maestri, compresi i pochi che si son sottolineati qui, furono parte di uno sconfinato organismo concettuale sorretto dalla dinamica dei rapporti razionali tra i suoi membri assai più che dalla statica del sistema. Relitti di una mentalità giuridica destinata a scomparire vivevano insieme ai germi del diritto nuovo, e con essi contribuivano a creare la tensione dinamica che faceva vivere quell'organismo.

 

Note

1 Si tratta di una posizione comune alla storiografia e accolta generalmente anche nei manuali di diritto privato: basti menzionare il saggio di G. Tarello, Ideologie settecentesche della codificazione e struttura dei codici (1978), ora in Id., Cultura giuridica e politica del diritto, Bologna 1988, pp. 41-60. Sull'area anglosassone cfr. P.S. Atiyah, The Rise and Fall of Freedom of Contract, Oxford 1979, 85-90.

2 Cfr. sul tema l'equilibrato volume di P. Stein, Legal Evolution. The Story of an Idea, Cambridge 1980. La teoria evoluzionistica fu suscettibile in Italia di applicazioni curiose: se ne veda un esempio nell'opuscolo di P. Cogliolo, La teoria dell'evoluzione darwinistica nel diritto privato, Camerino 1882.

3 G. Astuti, I contratti obbligatori nella storia del diritto italiano, Milano 1952, 309-310: "Si tratta di definire non solo la struttura di questi contratti (sc. agrari), e il fondamento giuridico della loro efficacia, ma soprattutto la loro funzione, cioè il contenuto di questa efficacia, che in alcune figure è puramente obbligatoria, in altre obbligatoria e reale, in quanto il contratto è al tempo stesso atto traslativo o costitutivo di un diritto reale, e fonte di obbligazioni corrispettive.

Esempio tipico della prima categoria nel diritto romano è il contratto di locazione, della seconda il contratto di enfiteusi".

4 Paolo Grossi, Locatio ad longum tempus. Locazione e rapporti reali di godimento nella problematica del diritto comune, Napoli 1963.

5 Da R. Feenstra, Ius in re. Het begrip zakelijk recht in historisch perspectief (voordracht gehouden aan de Rijkuniversiteit te Gent op 10 Maart 1978), (Thorbecke - Colleges, 4), Zwolle 1979, 13.

6 Si tratta di una costituzione di Diocleziano e Massimiano del 294 (C. 2.3.28): "Si certis annis quod nudo pacto convenerat datum fuit, ad praestandum in posterum indebitum solutum obligare non potuit eum qui pactum fecit, nisi placitis stipulatio intercessit".

7 Nella formulazione di Baldo (commentario a C. 2.3.28, num. 18): "Ex praedictis apparet quod iura personalia non inducuntur ex tempore, sed eorum probatio inducitur ex tempore cum longa possessione coniuncto. Iura vero realia acquiruntur ex longi temporis possessione vel quasi, iuris adminiculo concurrente". L'accenno alla presunzione, discusso da Baldo in precedenza, è anch'esso un vecchio motivo della civilistica, indotto dal confronto tra la menzionata l. Si certis annis (C. 2.3.28) e un frammento del Digesto che disponeva che le usure prestate per lungo tempo dovessero considerarsi legittimamente dovute (D. 22.1.6 Cum de in rem verso). La soluzione offerta da Baldo risale addirittura a Giovanni Bassiano, che propose di considerare il lungo tempo non elemento costitutivo dell'obbligazione, ma requisito per presumere che la prestazione periodica abbia avuto una causa costitutiva valida anche se non più attestata.

8 Baldo, loc. cit., num. 19 in fine: "...ubicumque reperitur ius sine ulla obligatione, istud est ius reale, ita dicit tex. in d. § Omnium (Inst. 4.6.1). Ius vero quod non reperitur nisi in ipsa obligatione est ius personale, ut ff. de ser. l. Ut pomum (D. 8.1.8), ff. de ser. urb. (!) praed. l. Pecoris (D. 8.3.4), ff. de usufr. leg. l. Fundi Trebatiani (D. 33.2.38), et not. ff. de usuf. l. Si quis ita (D. 7.1.20). Unde dominium et servitutes et quasi servitutes, quae ad essentiam sui non indigent obligatione, sunt iura realia". Il ragionamento è abbastanza chiaramente ispirato all'esordio del titolo de actionibus delle Istituzioni giustinianee; il che potrebbe suggerire, se non si rischiasse di allontanarsi troppo dal nostro tema, riflessioni su quel rapporto tra diritto soggettivo e diritto ad agire in giudizio che ha costituito l'oggetto di una erudita disputa tra M. Villey, G. Pugliese e Wubbe. Sul tema si veda ora R. Feenstra, Ius in re, cit., 3-12.

9 Sulla distinzione tra servitù personali e reali si veda per tutti la recente voce Servitù (dir. intermedio) di I. Birocchi e M.C. Lampis in Enciclopedia del Diritto, 42, Milano 1990, 262-274, p. 265.

10 Assai diffusa fin dal secolo scorso, la teoria della scomposizione del feudo in tre istituti diversi ha ricevuto in Italia ampia divulgazione perché accolta dal più diffuso manuale di storia del diritto medievale italiano, il Medio evo del diritto di Francesco Calasso, Milano 1956, 188-192.

11 Resta fondamentale per gli ampi orizzonti l'opera di Carl Georg Bruns, Das Recht des Besitzes im Mittelalter und in der Gegenwart, Tübingen 1848, alla quale si ispirò ampiamente l'indagine di Ruffini, L'actio spolii, Torino 1889. Più recenti i lavori di G. Wesener, Zur Dogmengeschichte des Rechtsbesitzes, in Festschrift Walter Wilburg, Graz 1975, 453-476 e L. Capogrossi Colognesi, Appunti sulla "quasi possessio iuris" nell'opera dei giuristi medievali, in "Bullettino dell'Istituto di diritto romano", s. 3, 19 (1977), 99-127, e le pagine dedicate alla quasi possessio da H. Coing, Europäisches Privatrecht, I, München 1985, 343-344.

12 Edita nella sua versione più diffusa da E. Landsberg, Die quaestiones des Azo, Freiburg i. B. 1888 col num. XI, p. 75-82, la quaestio si presenta in vesti alquanto diverse nella collezione azzoniana scoperta ed edita da A. Belloni, Le questioni civilistiche del secolo XII. Da Bulgaro a Pillio da Medicina e Azzone, Frankfurt am Main 1989 (Ius Commune Sonderhefte, 43), 168-170.

13 Così per larghe linee. Le fonti sull'episodio creano in realtà alcuni problemi: in particolare la versione Azo C. edita di recente dalla Belloni propone un quadro alquanto diverso delle posizioni, allineando nella solutio Azzone a Uguccio. Pur senza conoscere questo diverso testo della quaesto, il Capogrossi, Appunti sulla quasi possessio iuris... cit., ha colto talune sfumature presenti nella posizione di Azzone. E' tuttavia da rilevare che quell'intransigenza che aveva colpito la più vecchia letteratura, che in Azzone aveva riconosciuto il paladino del rigore romanistico opposto alla predominante impostazione canonistica, era stata colta anche da Baldo, la cui interpretazione dell'episodio è rimasta fin'ora inosservata. In una additio allo Speculum iudiciale di Guglielmo Durante il commentatore sintetizza la vicenda proprio in termini di opposizione netta tra il civilista e il canonista: "Pone ergo quod rusticus per 10. annos quolibet anno soluit cuidam nobili uel cuidam ecclesie unum corbem grani. Non uult amplius soluere: quaeritur utrum poterit conueniri quasi possessorio recuperandae?

Azo dicit quod non, per l. fin. ff. quorum bonorum (D. 42.2.2); Hug. iudicauit contrarium, et probatur ext. de election. Querelam (X. 1.6.24)" (Additio al tit. De restitutione spoliatorum, pars II dello Speculum).

14 La controversia tra i due enti ecclesiastici può esser datata con una certa approssimazione: deve esser posteriore all'elezione di Uguccio all'episcopato avvenuta nel 1190, ma anteriore all'arbitrato del 1204 che concluse la vertenza menzionando l'istruzione della causa ad opera dello stesso Uguccio [documento edito in Chartularium Studii Bononiensis, III, Bologna 1916, 162-163, num. cxlii (790)].

15 Così La Lectura di Cino a C. 2.3.28 Si certis annis, num. 17 (ed. Francoforti ad Moennum 1578 rist. Torino 1964, fol. 59ra): "Ultimo quaero: nunquid in personalibus praestationibus sit reperire iudicium possessorium? Verbi gratia volo dicere in libello sic: "Dico contra talem quod eram in possessione percipiendi ab eo annua 10., quae mihi praestitit pluribus annis; modo denegat praestare, quare peto mihi restitui etc.". Nunquid procedit iudicium? Decretalistae dicunt quod sic, per decreta. extra de elect. c. Querelam (X. 1.6.24). Dicit Iacob. de Rauen: hic adversus querelam opus est querela, nam quod in personalibus actionibus locum habeat possessorium nusquam auditum, nusquam relatum praeterquam a Saturnino". Non ho però trovato il riferimento al canone Querelam né nella lectura Codicis del Révigny stampata sotto il nome di Pierre de Belleperche (Parisii 1519, rist. Bologna, Forni, 1967), né nella repetitio alla l. Si certis annis manoscritta segnalata da Bezemer, Les répétitions de J. de R., Leiden 1987, 200-201 nel ms. Seo de Urgel 2036 (cfr. la descr. del ms. in G. Fransen, Textes de l'école d'Orléans dans le manuscrit Urgel 2036, in "Studi Senesi", 81 (1969), 7-26, 15). La diffusione dell'opera di Cino ha però fatto sì che la critica al canone fosse generalmente riportata al giurista orleanese.

16 La colorita espressione di Cino si legge in fondo alla colonna citata: "Quid plura? quod contra debitorem personaliter obligatum non habeat locum possessorium probatur per l. expressam. Interdictum quorum bonorum est possessorium, ut ff. quo. bo. l. i. (D. 43.2.1), tamen non potest intentari contra debitorem personaliter obligatum, ut eo. titu. l. ult (D. 43.2.2). Et istud est verum secundum Pet. ad decretalem Querelam (X. 1.6.24). Respon. quod ibi non loquitur de personali obligatione, sed de reali praestatione, ut de praestatione census, et ista est veritas, licet et in foro civili Canonistarum servetur erroneus intellectus etiam per illos legistas qui manus habentes extra gazophilatium Iustiniani thesauri apud mendicantes vadunt merito mendicatum".

17 Così Baldo nello stesso luogo del Commentario al Codice, num. 21: "Remanet ergo quaestio an aliquod possessorium habeat locum. Dicit Iac. de Raven. quod non, quia ubi non reperitur petitorium sed sola actio personalis, ibi non reperitur possessorium. Text. est in l. ult. ff. quo. bo. (D. 43.2.2). Sed ex ista praestatione non oritur nec probatur petitorium, ergo non est reperire possessorium. Nec obstat c. Quaerelam, de electio. (X. 1.6.24), quia adversus quaerelam opus est quaerela, secundum Iaco. de Ra.: vult dicere quod istud c. male loquitur.

Tu autem dic quod aut ista praestatio est facta principaliter propter se, vel respectu alterius obligationis personalis, quo casu habet locum l. Cum de in rem verso (D. 22.1.6), et tunc non reperitur iudicium reale nec aliquod possessorum iudicium vel interdictum. Aut ista praestatio habet relationem ad aliquam servitutem vel subiectionem, puta iste rusticus praestit omni anno aliquid tamquam vasallus vel tamquam vasalli filius, sicut libertus praestat operas tamquam libertus. In isto casu, quia praestatio correspondet iuri reali, est reperire petitorium et possessorium".

18 "Quomodo ergo ius reddituum quasi possidetur? Resp.: quaedam sunt obligationes simplices absolute, quaedam respective seu connotative: in simplici obligatione non cadit quasi possessio, sed in obligatione relatiua ad quasi seruitutem vel subiectionem vel dominium sic".

19 E' stato il Feenstra a indicare in Doneau (Donellus) l'inventore della espressione ius in re aliena: cfr. Dominium and ius in re aliena: The Origins of a Civil Law Distinction, in New Perspectives in the Roman Law of Property. Essays for Barry Nicholas, ed. P. Birks, Oxford 1989, 111-122. Rilevanti anche le osservazioni proposte da I. Birocchi e C. Lampis, voce Servitù, cit., 265-272.

20 Il punto di vista di Antonio da Butrio era stato a suo tempo rilevato dal Bruns, op. cit., 243, che ne sottolineò tra l'altro la buona accoglienza tra i giuristi posteriori: "Et ex hoc concluditur quod in iure debiti etiam personali est dare quasi possessione, quamquam impropria, quando habet multiplices annuas prestationes. Sed proprie loquendo non est possessio vel quasi, quia in illo non cadit possessio vel quasi, ut plene dixi in dicto c. In litteris (X. 2.13.5), sed bene imprimitur status quidam, cuius respectu eo quod innovatur potest agi possessorio ut status integretur, et hoc aperte voluit hec decretalis (X. 1.6.24)" (così l'incunabolo Romae 1473, Hain 4174, fol. non num., seconda colonna del c. Querelam, con varianti rispetto al testo riportato da Bruns).

21 Il titolo di uno studio di Pugliatti, La proprietà e le proprietà, è diventato poi quasi il simbolo della pluralità con cui si presenta nella storia l'istituto che dovrebbe incarnare l'esclusiva singolarità del rapporto tra l'uomo e i beni. La consuetudine si è manifestata di recente in un congresso che ha riproposto il titolo pugliattiano: cfr. La proprietà e le proprietà (Pontignano 1985), a c. di Ennio Cortese, Milano 1988.

22 In una pagina di Le situazioni reali nell'esperienza giuridica medievale. Corso di storia del diritto, Padova 1968, 204; opera che a dispetto della dimessa veste di corso di lezioni contiene molti degli spunti sviluppati poi nei lavori ora riuniti in P. Grossi, Il dominio e le cose. Percezioni medievali e moderne dei diritti reali, Milano 1992 (Per la storia del pensiero giuridico moderno, 41), raccolta aperta proprio dalla prolusione a quel corso di lezioni.

23 Di qui il ricorso allo "statuto della cosa". Un'espressione che era apparsa, ma con riferimento al diritto romano classico, anche in un saggio di M. Villey, L'idée du droit subjectif et les systèmes juridiques romains, in RHDFE 24-25 (1946-47), 201-227, 225, che suscitò poi alcune critiche di E. Betti, Falsa impostazione della questione storica, dipendente da erronea diagnosi giuridica (1952), ora in Id., Diritto metodo ermeneutica. Scritti scelti, a c. di Giuliano Crifò, Milano 1991, 393-449, 397-403. Nel pensiero del Grossi lo "statuto della cosa" interpreta però "la certezza medievale che il dominium non piove dal soggetto sulla cosa ma nasce dalla cosa" (voce Proprietà, diritto intermedio in Enciclopedia del diritto, 37, Milano 1988, 226-254, 243). E in questo senso è ricomparsa recentissimamente in un intervento dello stesso Grossi (Il problema storico-giuridico della proprietà collettiva in Italia) al convegno Demani civici e risorse ambientali, i cui atti sono apparsi a cura di F. Carletti, Napoli 1993, p. 23.

24 Anche sulla consuetudo fundi il Grossi, Le situazioni reali, cit., 67-75, ha sviluppato e illuminato gli accenni contenuti nelle opere della storiografia economica e giuridica della prima metà del Novecento.

25 Colpisce trovar la teoria rievocata da Guido da Baisio (cfr. nt. 28), Guglielmo Durante (nello Speculum, lib. 4 partic. 2a de praescriptionibus, n. 21), Giovanni d'Andrea (Novella in Decretales in X. 1.4.11, num. 36), Antonio da Butrio, (Commentaria cit. a X. 1.4.11), n. 49.

26 In realtà non è agevole dir con sicurezza a quale dei due Bernardi di Compostela debba esser ricondotta la teoria. Guido da Baisio (cfr. nt. 29) accenna al fatto che essa sarebbe stata esposta a chiarimento di un canone del Decreto (C.18 q.2 c.31), il che escluderebbe il Bernardo iunior che non commentò, a quel che se ne sa, l'opera di Graziano. Tuttavia l'incompiuto commento al Liber Extra del Bernardo giovane (ed. nei Perillustrium doctorum tam veterum quam recentiorum in lib. Decretalium aurei commentarii... Venetiis apud Iuntas MDLXXXVIII, tom. I, 179) contiene una stringata ma completa esposizione della teoria in X. 1.11.4. Nelle opere del Bernardo antiquus si trovano invece accenni meno puntuali, anche se una sua quaestio rivela che egli considerava sufficiente allegare il solo tempo per ottenere tutela del diritto esercitato per lungo tempo (q. 22 della collezione identificata da Fransen in Traditio 21 (1965), 493-510, 499). E un richiamo alla forza della consuetudine era anche nella Summa Palatina, di alcuni decenni precedente alla redazione del commento del Bernardo iunior. C'è da sperare qualche chiarimento della questione da un controllo sull'unico manoscritto nel quale siano state segnalate glosse al Decreto di Bernardo antiquus, Gniezno 28, che non ho potuto vedere.

27 Il tema è in realtà assai vasto e ha suscitato parecchi interventi nella storiografia a partire da quelli di Brie, Die Lehre vom Gewohnheitsrecht. Eine historisch-dogmatische Untersuchung, I, Geschichtliche Grundlegung (bis zum Ausgang des Mittelalters) , Breslau 1899 (rist. an. Frankfurt 1968), 78 ss. e 194 s. fino a quello recente di C. Danusso, Ricerche sulla Lectura feudorum di Baldo degli Ubaldi, Milano 1991, 134-135 e nt. 200, con menzione della letteratura precedente, cui bisogna aggiungere però A. Van Hove, De privilegiis. De dispensationibus, Mechliniae-Romae 1939 (Commentarium Lovaniense in codicem iuris canonici vol. I tom. V-VI), 69 ss.

28 La dottrina di Bernardo è rammentata da Guido da Baisio in Decr., C.18 q.2 c.31 Servitium, num. 6 (ed. Venetiis apud Iuntas, 1577, 286r e v): "Scripsit B. Comp. ad huius declarationem quod consuetudo est actus eiusdem repetitio, C. de episc. au. l. 3 in fi. (C. 1.4.3.4); 25 q. 2 Ita nos (C.25 q.2 c.25). Sed praescriptio est continuatio possessionis diffinitae, ff. de usucap. l. 3 (D. 41.3.3), unde si bene attendis praescriptio se habet ad consuetudinem sicut disponens ad dispositum. Actum enim repetitum, quem consuetudinem dicimus, continuatio temporis lege diffiniti, quam praescriptionem vocamus, disponit secundum B. Com.". Il fulcro del ragionamento è l'equivalenza consuetudo - praescriptio e dispositum - disponens: la continuazione per un tempo definito dalla legge, cioè la prescrizione, dispone la legittimità di un atto che si ripete per consuetudine: il tempo assume i connotati di autorità normativa in grado di disporre la giuridicità di certi comportamenti. Sicché il factum - consuetudo costituito dalla prestazione non ha bisogno di una causa remota costitutiva, ma solo della forza "disponente" della prescrizione.

29 La critica è esplicita ancora una volta in Cino, che accusa anche qui i canonisti di non sapere quel che dicono: cfr. la Lectura super Codice, cit., in C. 8.53.2, num. 8 (rist. cit. fol. 521va-b): "Consuetudo est ius disponens. Nam est ius non scriptum. Praescriptio est illud quo acquiritur ius dispositum, ut dominium et huiusmodi".

30 Puntualmente registrato dalle Differentiae inter ius canonicum et civile usualmente attribuite a Bartolo e stampate sotto il suo nome, al num. 179: "Illud tamen non omitto, quia leges sumunt consuetudinem quae attenditur circa factum et processum iudicii, et etiam quae attenditur circa gesta communiter hominum alicuius civitatis, castri vel terrae. Sed canonistae sumunt consuetudinem quae attenditur circa privatum ius aliquorum, et ita loquitur dicta decretalis de causa poss. et propr. c. Cum ecclesia. Quae quidem consuetudo de iure civili appellatur praescriptio".

31 L'immagine è di S. Kuttner, Harmony from Dissonance: an Interpretation of Medieval Canon Law (1956), ora in Id., The History of Ideas and Doctrines of Canon Law in the Middle Ages, London (Variorum) 1980, 1992, I.

 

 
 
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