CAPITOLO
I
I.1. Il quadro storico-istituzionale.
Negli anni
immediatamente antecedenti all’unità d’Italia la scena politico-istituzionale
del Granducato di Toscana fu caratterizzata dall’assolutismo “bonario,
temperato e accomodante”[1] di Leopoldo II, nobile
figura di uomo e di regnante, continuatore della tradizione riformistica di
“paternalismo illuminato” degli Asburgo-Lorena ed ultimo Granduca di questa
dinastia che regnò sulla Toscana per centoventidue anni - con qualche
interruzione - “non senza sapersi acquisire molti meriti”[2].
Sin da ora
è opportuno evidenziare come questa condotta politica di tolleranza distinguesse
la Toscana dagli altri ordinamenti giuridici coevi, rendendola un’ ‘isola
felice’ in mezzo a questi: stridente è il contrasto ad esempio con il vicino
Ducato di Modena - non a caso considerato da uno studioso il “centro motore
della controrivoluzione italiana”[3] - dove il sovrano
Francesco IV d’Este combatté a fondo il liberalismo che egli stesso definiva
“quell’immensa fogna, il cui alito non giunse perciò mai a corrompere neanche
menomamente” il suo “buon senso politico”[4], finanziando alcuni fogli
reazionari e reclutando villici, nei quali massima era la fedeltà alla politica
del “trono e dell’altare”, per la formazione della milizia dei Volontari estensi.
Analoga
situazione si presentava in un altro degli stati finitimi, lo Stato Pontificio,
in cui il potere temporale dei papi, autentici campioni della
controrivoluzione, soffocava qualsiasi conato di democrazia e di laicizzazione
della società imponendo un’anacronistica ed assolutizzante teocrazia, grazie
anche qui all’aiuto di sette reazionarie come i famigerati Centurioni [5].
La Toscana
sin dai primi anni della restaurazione, invece, era solita accogliere con
grande magnanimità gli esuli politici provenienti da ogni parte d’Italia, tra
cui l’intraprendente ma sfortunato principe di Carignano e futuro Re di
Sardegna Carlo Alberto e permettere a molti scrittori ‘rivoluzionari’ di
pubblicare opere che sarebbero state osteggiate dai propri governi.
Si creò
così un regime di “convivenza patriarcale”[6] che solo
occasionalmente fu messo in crisi e, tutto sommato, resistette fino - per usare
una espressione cara a Paolo Grossi - agli estremi del regime granducale.
Infatti,
nonostante che il Granduca Leopoldo avesse preso alcune decisioni che gli
alienarono la simpatia di alcuni dei maggiori rappresentanti della cultura
toscana il savio paternalismo e la moderazione non vennero mai meno.
Egli,
pressato dalle reiterate proteste austriache motivate dalla paura di
un’eccessiva divulgazione dei principî liberali, nel 1833 decise di sopprimere
la prestigiosa rivista l’“Antologia”[7] creando così una
pericolosa frattura con l’avanguardia intellettuale del paese da allora in poi
sempre più diffidente verso l’autorità lorenese, sfiducia che si accentuò a
dismisura dopo la restaurazione conseguente ai tumulti del 1848, soprattutto a
causa dell’occupazione militare austriaca durata fino al 1855, considerata una
umiliante ed inutile precauzione e dell’emanazione di leggi ultraconservatrici
tra cui vanno menzionate quella del 13 febbraio 1852 che abolì la libertà di stampa,
quella che abolì la carta costituzionale (6 maggio 1852) e le altre che
ripristinarono la pena di morte, e concessero alle autorità di polizia poteri
eccezionali ( due decreti del 16 novembre 1852).
I.2. Breve storia della pena di morte in
Toscana: da Pietro Leopoldo all’unità d’Italia.
Dato che
il provvedimento del 16 novembre 1852 sulla polizia sarà oggetto di uno studio
più approfondito nei seguenti capitoli, conviene accennare brevemente all’altro
riguardante la pena capitale, in quanto testimonianza significativa del grado
di civiltà giuridica maturato ed al contempo valida introduzione agli aspetti
più specifici che saranno presi in esame.
La pena di
morte[8], come è noto, fu
formalmente abolita in Toscana per la prima volta da Pietro Leopoldo nel 1786
con la “Leopoldina”, per poi essere reintrodotta dallo stesso Granduca nel 1790
per fare fronte a gravi disordini popolari; questa misura penale estrema fu confermata
da Ferdinando III con l’estensione a più riprese a vari titoli di reato come la
lesa maestà umana e divina, gli omicidi premeditati e i furti violenti.
Ma, anche
a causa dell’interpretazione restrittiva della magistratura toscana, di fatto,
prima del regno di Leopoldo II, il boia fu raramente chiamato all’opera[9].
Poi, a
partire dal 1831, le esecuzioni furono sospese e lo stesso Granduca propose un
aggravamento delle condizioni per pronunciare la pena capitale: si doveva,
cioè, raggiungere l’unanimità dei voti del collegio giudicante.
E così la
pena di morte continuò a rimanere in vigore solo formalmente mentre i vari
progetti per la compilazione di un codice penale sposavano la linea
abolizionista, la quale portava come necessaria conseguenza una nuova
gradazione della scala penale.
La formale
abolizione si ebbe con un decreto del governo provvisorio
Guerrazzi-Montanelli-Mazzoni del 4 marzo 1849, provvedimento che la restaurata
autorità granducale mantenne in vigore fino all’emanazione dei sopra citati
decreti del 16 novembre 1852, i quali “furono in sostanza due di quelle leggi
eccezionali che è tanto più facile il criticare di quello che sia ai Governi
possibile di esimersene, quando nel concorso di gravissime circostanze, debbono
soddisfare efficacemente al debito della pubblica difesa”[10].
La pena di
morte fu anche introdotta nel codice penale del 1853[11] , ma negli anni che
seguirono fu pronunziata una sola volta e mai eseguita fino a che non venne
definitivamente abrogata nel 1859 con uno dei primi demagogici atti del Governo
provvisorio.
Per cui
nel 1864 Baldassarre Paoli poté orgogliosamente sostenere che:
in Toscana ebbero sempre
apertissima ripugnanza per la pena di morte, e con mirabile accordo, la
scienza, la legislazione, e la giurisprudenza: sicché non è da meravigliare,
se, nonostante l’avvicendarsi e la tanta diversità di tempi, di eventi, e di
politici ordinamenti, siano già decorsi più di trenta anni senza che in queste
provincie sia mai stato alzato il patibolo.[12]
I.3. Pregi e difetti della condotta politica di
Leopoldo II.
Dunque,
per gli aspetti sopra menzionati, è possibile rilevare un continuum che parte da Pietro Leopoldo, - la cui opera di riforme,
sebbene inizialmente osteggiata dai ceti popolari e da quelli portatori di
interessi e valori tradizionali, era in pieno Ottocento circondata da un’aura
mitologica, così come la figura stessa dell’illuminato principe, considerato
come colui che aveva dischiuso le porte del progresso al Granducato, per molto
tempo stato modello per i regnanti europei e a sua volta generatore di ‘miti’
collegati come quello di Firenze ‘novella Atene’ - prosegue con Ferdinando III
e si conclude con il mite Leopoldo II il quale, non a caso, aveva promesso al
padre morente di preservare lo statu quo.
Alla luce
di ciò, non è inopportuno qui riportare una bella pagina di A. Baretta che ha
studiato la Toscana nel decennio 1814 - 1824 e tramite una ‘interpretazione
estensiva’ riferirla anche al regno di Leopoldo II.
Queste
asserzioni troveranno riscontro nei capitoli seguenti grazie alla
documentazione archivistica.
Il popolo toscano - scrive
Baretta - tranquillo e fidente nel principe e nel governo dormiva,
apparentemente almeno, sonni tranquilli. Dicono che il Governo e il
Fossombroni, - il primo ministro di Ferdinando III, celebre per il motto “il
mondo va da sé” - in ispecie, usassero di qualche narcotico per fargli dormire
quel sonno... Lo Stendhal chiamava il toscano un governo assoupissant. L’ideale a cui si aspirava era che nessuno parlasse;
le persone sospette in politica erano designate come opinionisti, e i processi
economici del Buongoverno, fatti senza testimoni, dimostravano che la consegna
era di non parlare e di mai occuparsi dei fatti presenti. Le popolazioni
venivano così intimidite e non urtate con dei soprusi; il sistema generale del
governo era che gli eventi come le persone facessero il minor chiasso
possibile: si preferiva lasciare un colpevole impunito piuttosto che punirlo
chiassosamente, o danneggiare colla punizione gli interessi commerciali della
città. Qualche giornale francese letto nei caffè e nei gabinetti letterari dai
dilettanti di novità, qualche esule politico di più o di meno non parevano al
governo toscano cose da mettere in pericolo la quiete pubblica: sapeva
benissimo che al bisogno uno sfratto, qualche settimana di carcere, o anche
solo una forte reprimenda fatta dal governatore e nei casi più gravi dal
presidente del Buongoverno sarebbero bastate a guarire le teste esaltate della
smania di occuparsi di politica.[13]
Rimane pur
tuttavia, l’immagine di un Leopoldo II che nei suoi primi anni di regno non
seppe adeguatamente sfruttare la possibilità di rinnovare la classe dirigente e
di operare riforme istituzionali che avrebbero potuto segnare un punto di
svolta nella politica e nella storia del Granducato: così quando nei primi anni
trenta scoppiarono i moti rivoluzionari in mezza Europa, confermando
ulteriormente (già nel venti diversi moti erano stati soppressi a fatica)
l’intrinseca fragilità dei governi restaurati dalle autorità ciecamente
reazionarie, Leopoldo avrebbe commesso un grave errore nel non concedere la
costituzione ai pacifici toscani.
Questo
gesto, non provocato dalle ricattatorie violenze di piazza - che purtroppo
hanno in ogni tempo accompagnato le ‘grandi conquiste’ delle masse - ma
semplicemente ‘sussurrato’ dagli uomini politici e di cultura più aperti alle
nuove idee democratiche, avrebbe permesso al Granduca di consolidare il proprio
potere all’interno e “all’esterno la mitizzazione della Toscana concorde”[14].
E quanto
tale scelta sarebbe stata lungimirante lo si sarebbe potuto apprezzare nel 1849
quando Leopoldo fu obbligato a concedere una costituzione modellata su quella
francese del 1830, emanata in tutta fretta e subito etichettata dal Montanelli
come “un vestito bell’e fatto” poiché non era derivata “dallo svolgimento,
adattato ai nuovi tempi, della libertà dei nostri antichi comuni”[15] .
Al
contrario, il giovane sovrano - quando egli salì al trono aveva appena 27 anni
- poco esperto di affari di governo e timoroso di disattendere le ultime
volontà paterne, con un eccesso di zelo conservatore confermò in toto i funzionari pubblici e i
consiglieri di Stato del padre e, come si è visto, isolò sempre più il potere
dalle aspettative degli intellettuali ‘progressisti’, tanto da creare una
frattura insanabile ed un’incapacità di dialogare positivamente per tutta la
durata del suo regno.
Un’occasione
mancata, dunque.
Inoltre,
certa pubblicistica rimprovera a Leopoldo II l’avere governato dopo il 1848 più
come Arciduca d’Austria che come Granduca di Toscana e di avere trasformato il
Granducato, in quel decennio, in “un satellite dell’impero”[16].
Ed ancora,
i detrattori dell’ultimo Lorena lo hanno accusato di ‘gattopardismo’ nella
stessa vicenda dei moti del quarantotto, per non tacere poi delle modalità
della tranquilla ‘rivoluzione’ toscana del 1859 che starebbero ulteriormente a
dimostrare l’inettitudine e la mancanza di autorità del personaggio, ormai
incapace di gestire una situazione critica senza ricorrere all’aiuto militare
austriaco, nonché l’indifferenza e la disaffezione dei sudditi verso l’antico
principe in fuga.
Ma
quest’uomo ebbe indubbiamente moltissimi meriti: sotto il suo regno furono
intraprese numerose opere pubbliche destinate a consolidare la fama di stato
modello (e moderno), - nuove ed importanti strade, una delle prime e
maggiormente articolate ferrovie italiane, il miglioramento e l’ingrandimento
del porto di Livorno tanto da essere considerato il “secondo fondatore” della
città labronica, ingenti opere di bonifica, impiego del telegrafo elettrico
(primo stato in Italia), solo per ricordare le più importanti - diede impulso
per la compilazione di un codice penale atteso da decenni che rinnovò i fasti
della tradizione penale toscana, iniziata con la riforma criminale dell’avo
Pietro Leopoldo, grazie al quale nacque il “primo codice penale moderno”[17].
Il codice
del 1853, vero monumento di sapienza giuridica e pietra miliare del diritto
penale garantista, accolse il principio di legalità nella sua tripartizione
della riserva di legge, della tassatività e della retroattività, il principio
di materialità (nullum crimen sine
actione ), il principio di offensività e il principio di
imputabilità-colpevolezza, richiedendosi il dolo come regola e la colpa come
eccezione[18] e rimase in vigore (per
la Toscana) pressoché invariato anche dopo l’unità d’Italia quando “tre diversi
codici penali si contendevano l’impero dell’alta, della media e della bassa
Italia”[19] fino a che il 30 giugno
1889 fu definitivamente approvato il primo codice penale unico del Regno
d’Italia: il codice detto di Zanardelli[20].
Il codice
toscano fu accompagnato da due altri importanti provvedimenti: il Regolamento di polizia punitiva e il Regolamento fondamentale degli stabilimenti
penali.
Inoltre,
un motuproprio del 2 agosto 1838 riformò la giustizia civile e penale
portandola ad un tale livello di modernità che anche gli uomini del governo
provvisorio del 1859-60 ritennero di non dovere mettere mano in questo settore:
l’unica grossa novità introdotta in quel periodo, come detto, fu l’abolizione
della pena di morte, praticamente già abrogata per desuetudine.
A
proposito dell’intervento normativo del 1838 il Baldasseroni ha scritto:
La riforma fu radicale. Rovesciò dalle fondamenta
l’antica istituzione dei vicari regi foranei... distrusse le diverse rote o
tribunali di appello che esistevano nelle provincie; abolì il consiglio supremo
di giustizia e con esso la terza istanza; soppresse la rota criminale composta
di uomini speciali per giudicare di quelle materie. Con una stessa
denominazione e con eguali competenze si istituì un numero di tribunali
collegiali con attribuzioni civili e criminali. Una sola regia corte civile e
criminale veniva stabilita in Firenze, ove da tutte le parti dello Stato
potessero portarsi in seconda istanza le cause civili, e dalle sentenze della
quale non rimaneva più altro rimedio che il ricorso in Cassazione... venne
istituito il ministero pubblico tanto presso le Corti regie, come presso i
tribunali di prima istanza, così riproducendo presso a poco in Toscana una copia
dell’ordinamento giudiciario vigente in Francia.[21]
Altre
importanti novità furono rappresentate dalla pubblicità ed oralità dei giudizi
criminali, dalla abolizione delle condanne a pene straordinarie e da un uso
temperato dell’ istituto della carcerazione preventiva.
Cosicché,
il Baldasseroni poteva affermare trionfante che:
in quella parte
specialmente che referivasi... all’amministrazione della giustizia criminale la
riforma splendé così per la massima temperanza, come per l’applicazione dei
principj i più miti e conformi alla dottrina umanitaria: splendé anco
maggiormente pel confronto con la legislazione di altri Stati italiani,
compreso il Regno Sardo[22].
Un
ulteriore passo verso la modernizzazione dell’apparato giuridico-amministrativo
fu compiuto, come si vedrà più approfonditamente nel prossimo capitolo, negli
anni ‘50, ampliando quelle novità che erano state apportate dalla riforma del
1838.
I.4. Considerazioni conclusive riguardo Leopoldo
II e il governo della Toscana da parte dei Lorena.
Pertanto,
la figura del Granduca Leopoldo rischia di essere essere ingiustamente
sacrificata sull’altare dell’unitarismo ad opera di qualche storico
ipocritamente manicheo specializzato in agiografie del risorgimento e dei suoi
retorici protagonisti.
Invece
pare corretto accomunare l’esperienza di governo di questo saggio monarca a
quelle dei suoi avi a partire da Francesco Stefano, primo Lorena a regnare in
Toscana seppure in maniera indiretta, cioè tramite la reggenza del Richecourt
prima e del Botta Adorno poi[23].
Difatti il
primo Granduca non mediceo operò una politica di riforme i cui tratti
caratterizzanti si rifletteranno sui suoi discendenti che avrebbero consolidato
quella tradizione di “paternalismo illuminato” che è menzionata all’inizio di
questo capitolo.
Innanzi
tutto, egli ebbe il merito di tenere lontano il Granducato dalla guerra di
successione austriaca, dichiarandolo neutrale e potersi così dedicare più
alacremente alla sua riorganizzazione.
La
neutralità, accompagnata dalla scelta di non formare un efficiente esercito,
sarebbe stata una costante della condotta politica anche dei futuri Lorena; ciò
avrebbe portato anche a conseguenze spiacevoli come la fuga di Ferdinando III
di fronte all’invasione dei francesi o l’inevitabile soccorso delle truppe
austriache a Leopoldo II dopo i moti del 1848, ma avrebbe evitato inutili
carneficine e un notevole dispendio di danaro pubblico.
Scelta
dettata sicuramente anche da motivazioni opportunistiche perché, in primo
luogo, l’esercito toscano durante la guerra dei 7 anni, in una delle rare
occasioni in cui fu chiamato all’opera, non aveva dato una gran prova di sé e
si era generato il malcontento tra uomini mandati a combattere lontano dalla
Toscana per una patria ed una causa non a loro appartenenti; secondariamente
perché nulla avrebbe potuto il piccolo contingente militare di fronte ad eventi
‘incontrollabili’: per quanto risoluto e ben addestrato, non avrebbe certo
avuto la forza di opporsi in maniera efficace all’avanzata delle armate napoleoniche.
Ma scelta
soprattutto coraggiosa: non doveva essere facile in quei secoli gestire le
relazioni internazionali con il buon senso e la tolleranza piuttosto che con la
minaccia delle armi.
A questa
politica antimilitarista, che sul piano interno fu ribadita da alcune leggi che
decretavano il divieto di portare armi, si accompagnò un cauto
giurisdizionalismo, - che sfociò in aperto conflitto con la curia romana al
tempo delle ‘tentazioni giansenistiche’ di Pietro Leopoldo - ed una crescente
attenzione per la proprietà la finanza ed il commercio che generò la legge
sulle manimorte del 1751, la soppressione delle Arti da parte di Pietro
Leopoldo nel 1770, la fondazione della Banca di Sconto di Firenze nel 1826,
solo per citare i provvedimenti più noti.
Poi, come
già messo in luce, tutti i Lorena si distinsero per avere fatto intraprendere e
completare grandi opere pubbliche (come le numerose bonifiche).
Ancora una
volta rilevanti sono le differenze con gli altri ordinamenti giuridici
dell’epoca; basti pensare ai Borboni, i quali si compiacevano di adottare le
tre effe per governare: farina, feste e forca.
Nello
Stato Pontificio gli indegni successori di Pietro punivano con inaudita
crudeltà il minimo tentativo sedizioso ed anche la dinastia dei futuri Re
d’Italia manteneva ancora nella prima metà del secolo scorso una legislazione
che prevedeva molti privilegi e residui feudali come i tribunali speciali per i
membri della aristocrazia e del clero, una rigida censura e, insensibile alla
ideologia penalistica dell’“umanità” della pena, un buon numero di pene
corporali.
Per
completare questo quadro di politica decisamente oscurantista bisogna ricordare
che nello Stato Sabaudo non erano infrequenti le pratiche dell’epurazione degli
oppositori politici e delle persecuzioni delle minoranze religiose degli ebrei
e dei valdesi.
Questa
breve analisi comparata permette una volta di più di rilevare la singolarità
dell’esperienza giuridica[24] relativa al Granducato
di Toscana, considerata nel periodo che corre dal congresso di Vienna all’unità
d’Italia: se un ordinamento giuridico ha la funzione strumentale di affermare i
valori tipici di un’istituzione ordinata,[25] - sia in modo positivo,
proponendo cioè modelli di comportamento, ma anche tramite tassativi divieti in
modo da non permettere a soggetti portatori di valori diversi e antitetici a
quelli dominanti di infrangere l’ordine costituito fino ad arrivare al sovvertimento,
pacifico o armato che sia, dell’intera società - allora questo scopo non fu
interamente perseguito dai granduchi lorenesi a causa della loro politica
eccessivamente tollerante.
In
quest’ottica, i Lorena commisero un grave errore nel consentire agli esuli
liberali e democratici la pubblicazione di numerose opere contenenti principi
la cui divulgazione avrebbe nociuto gravemente anche alla Toscana, oltre agli
stati da cui questi individui provenivano; poi, la repressione degli ideali
mazziniani, giobertiani[26] e unitari avrebbe
dovuto essere più rigorosa ed esemplari le pene nei confronti dei ‘quarantottini’,
a partire dai leaders del movimento,
Montanelli e Guerrazzi[27].
Si deve di
nuovo constatare l’eccezionalità di questa situazione, specialmente in
riferimento ad uno stato monarchico ottocentesco inquadrabile in una forma di
governo ‘intermedia’ tra la monarchia assoluta e quella limitata, quando anche
le moderne democrazie temono ed osteggiano gli integralismi e non ammettono
l’esistenza di certe ideologie dichiarandole fuorilegge, limitando e
contraddicendo il concetto stesso di democrazia.
Per
concludere questo quadro introduttivo sarà utile evidenziare due episodi legati
ai due momenti di rottura istituzionale verificatisi durante il regno di
Leopoldo II: quello provvisorio relativo ai mesi a cavallo tra il 1848 e il
1849, e quello definitivo della ‘rivoluzione silenziosa’ del 27 aprile 1859.
L’ ex
ministro dell’interno Giovanni Baldasseroni, nelle sue memorie ricordò che nel
1849, quando il Granduca dovette affrontare la restaurazione non cercò inutili
vendette: i suoi primi atti furono di clemenza in ossequio alla “ragione
politica, la quale esigeva imperiosamente tutelata la pubblica tranquillità
tanto nell’interesse della Toscana, quanto in quello degli Stati limitrofi che
risentivano una diretta influenza delle condizioni politiche della Toscana”[28] .
Per cui
egli, in un decreto emanato all’indomani del ritorno in patria, considerava
che:
la ragione pubblica non
sarebbe per ricevere offesa dall’oblio, al quale, seguendo i naturali impulsi
dell’animo suo, voleva abbandonato tutto ciò che nelle passate agitazioni fosse
stato detto e scritto ad ingiuria personale sua, e dei suoi, bastandogli la
soddisfazione che ne dà la testimonianza di una pura coscienza... quindi voleva
abbandonata all’oblio ogni ingiuria verbale o scritta contro la persona del
Principe... amnistiando pure completamente quanti si fossero fino a quel giorno
resi colpevoli di delitti e trasgressioni... con lo scopo di pacificare e
tranquillizzare il paese.[29]
Anche in
quell’occasione Leopoldo dimostrò nobiltà d’animo e rigore etico, i medesimi
appartenuti al padre Ferdinando il quale, al momento del proprio rientro in
patria si guardò bene dall’adottare misure repressive e dall’intraprendere
rappresaglie superflue e, contrariamente ad altri sovrani - i quali vollero esplicitamente
il “ritorno al ‘98”[30] - non fece emanare uno
specifico provvedimento che togliesse valore agli atti legislativi emessi negli
‘anni francesi’; anzi, mantenne il codice di commercio pur sopprimendo il
codice civile napoleonico di cui però rimasero in vigore le fondamentali norme
abrogatrici dei feudi e delle sostituzioni fidecommissarie, quelle sul sistema
ipotecario ed altre in materia di vincoli immobiliari; fu poi confermata la
legislazione ecclesiastica di matrice giurisdizionalista, e l’espulsione dei gesuiti
dal territorio toscano.
Non
cedendo alle tendenze reazionarie (specie degli ambienti cattolici),
Ferdinando, giova ancora ricordarlo, coadiuvato dai preziosi consigli di
Vittorio Fossombroni, fece in modo che venissero “confermate le condizioni per
quella libera circolazione dei beni, che era stato appunto uno dei maggiori
pregi del sistema giuridico francese e di cui il paese aveva goduto, e doveva
ancora godere, i benefici economici”[31].
Il secondo
episodio di cui sopra riguarda la definitiva fuga dei Lorena ed è stato ben
descritto da Franz Pesendorfer:
La famiglia granducale
partì da Palazzo Pitti in una piccola colonna di carrozze scortata dal nunzio
pontificio e da componenti delle legazioni di Francia, Inghilterra e Sardegna.
Il convoglio granducale non venne, comunque, importunato da nessuno: “non una
minaccia, non un insulto” venne udito dal diplomatico francese che viaggiava al
seguito. Altri osservatori francesi si dissero sorpresi di non aver incontrato
a Firenze nemmeno una carrozza rovesciata: la dissero una rivoluzione condotta avec courtoisie.[32]
Le
modalità di questa mesta ma dignitosa uscita di scena si sarebbero ripetute
quasi un secolo più tardi quando l’ultimo Re d’Italia, uomo di profondo
spessore morale (ben al di sopra dei suoi consanguinei passati e futuri), fu
costretto ad abbandonare la patria per prendere la dolorosa via dell’esilio.
E ciò fece
in maniera rapida evitando polemiche e, forse, una nuova guerra civile
garantendo un dolce trapasso istituzionale proprio come accadde quel 27 aprile
1859.
Così anche
gli ‘usurpatori’ del potere degli Asburgo-Lorena a sua volta sarebbero stati
‘usurpati’ da un dubbio referendum e il cerchio si sarebbe chiuso.
I.5. Un restringimento di prospettiva: le
ragioni.
A questo
punto, l’indagine deve iniziare a rivolgersi più specificamente all’oggetto
prescelto, cioè alla descrizione del funzionamento di un ufficio di polizia
negli anni ‘caldi’ dal passaggio dal Granducato di Toscana al regno d’Italia.
Bisogna
allora coniugare “i grandi temi della riflessione giuridica”[33] e della storiografia al
diritto pratico e alla storia locale, ricostruendo “le strategie e le tecniche
giuridiche”[34] secondo le quali fu
concretamente esercitato il potere di polizia in quel borgo del contado pisano.
Questa
analisi sarà condotta ‘da vicino’, cercando di penetrare nell’atmosfera di quel
periodo e di capire meglio le decisioni che venivano prese dai funzionari
locali, verificando la reale rispondenza alle prescrizioni normative del
legislatore; a questo scopo, pur senza eccedere i limiti ‘naturali’ della
storia del diritto, bisognerà riservare anche il dovuto spazio a fenomeni
metagiuridici come i fatti di costume.
Quindi, il metodo sarà
quello consueto, a partire dall’analisi delle fonti del diritto, ma, è bene
ripeterlo, affinché queste non rimangano delle vuote espressioni normative,
totalmente indifferenti al lettore moderno, si dovranno ‘colorare’ con altri
elementi che per la loro peculiarità appartengono ad altre discipline (ad esempio
la sociologia).
I
risultati raggiunti non presenteranno interesse solo da un punto di vista della
storia locale giacché, come ha insegnato G. Salvemini:
quando si descrive la
costituzione politica di un paese, non basta fermarsi generalmente agli organi
centrali dell’amministrazione, ignorando i governo locali. Questo è un errore:
i gruppi sociali dominanti si definiscono assai meglio attraverso l’analisi dei
governi locali[35] .
Dapprima
però, si dovranno fornire le coordinate fondamentali (iniziando da quelle
giuridiche) per potere ‘leggere’ la storia istituzionale di Pontedera alla metà
del secolo scorso.
I.6. Le vicende storiche relative
all’organizzazione giurisdizionale di Pontedera alle soglie dell’età
contemporanea.
La riforma
comunitativa di Pietro Leopoldo[36] rappresentò un momento
chiave nella storia istituzionale di Pontedera per un duplice ordine di motivi;
dapprima perché trasformò radicalmente le antiche organizzazioni
giurisdizionali medicee (così come nel resto dello stato) in modo tale da
passare da un “sistema di dignità territoriali a una compagine di funzioni
statali”[37].
In secondo
luogo perché con la legge del 30 settembre 1772, Pontedera divenne sede di una
Podesteria maggiore e quindi dotata di una autonoma giurisdizione civile,
mentre in precedenza (dal 1532) la Podesteria era stata unita con quella di
Cascina di modo che il podestà risiedeva per sei mesi in un luogo e per sei
mesi nell’altro.
Il Podestà
era titolare di un mandato triennale ed era affiancato da due notari civili,
uno con l’obbligo di risiedere a Pontedera e l’altro a Cascina.
Per ciò
che riguarda la giurisdizione criminale e di polizia, la Podesteria rimaneva
sottoposta all’autorità del Vicario di Vicopisano.
Ma
successivamente, un motuproprio del 6 settembre 1783 provvide ad eleggere
Pontedera come sede di Vicariato maggiore con giurisdizione civile e criminale
nel proprio territorio (compresa Cascina) e in quello della Podesteria di
Palaia; il nuovo Vicariato nel 1790 si espanse in seguito alla rinuncia del
marchese Niccolini al Vicariato feudale di Ponsacco e Camugliano.
Se, come
sottolineato, la riforma comunitativa di Pietro Leopoldo coinvolse (e
sconvolse) l’intero apparato delle amministrazioni locali, l’importante
provvedimento del 1783 rappresentò un privilegium
[38] adottato
a causa dell’eccezionalità della situazione relativa alle trasformazioni
sociali e territoriali (in primis l’espansione
urbanistica) in atto nel pontederese accompagnata all’indole particolarmente
turbolenta ed insubordinata dei suoi abitanti[39].
La
crescita della popolazione costituì un fattore decisivo: infatti le variazioni
demografiche nella comunità di Pontedera mostrano come il numero degli abitanti
fosse quasi raddoppiato in poco più di mezzo secolo[40]; in particolare, quel
periodo storico fu caratterizzato dall’elevato afflusso nei centri urbani di
masse di disperati in cerca di un’occupazione, uomini non più tutelati dalla
organizzazione delle arti e dei mestieri, avendo le riforme leopoldine rotto
questa tipica espressione giuridica delle società di Ancien Regime.
Da qui la
nascita di frequenti problemi di controllo, aspetto fondamentale dell’occhiuta
politica leopoldina, e di sicurezza dell’ordine pubblico: Luigi Comparini,
secondo vicario di Pontedera, commentando la decisione del sovrano in una
relazione sul Vicariato, datata 1794, affermò che:
Nei passati tempi essendo
il popolo di Pontedera in disistima del Governo per la sua indocilità e
frequenza alle risse, e non bastando conseguentemente a raffrenarlo l’autorità
sola del Potestà che vi presiedeva, piacque a... S.M.... permutare tale Potesteria
in Vicariato Maggiore, onde la fissa permanenza d’un Vicario con due Notari, e
un terzo residente a Cascina, provvedesse agl’inconvenienti, e riducesse il
popolo alla dovuta subordinazione alle leggi.[41]
Se, a
completamento del quadro di questa dinamica realtà sociale si aggiungono lo
sviluppo di un fiorente commercio, il sorgere della industria manifatturiera e
il “rapido arricchimento di alcune grandi famiglie contadine di Cascina a
seguito delle riforme livellari leopoldine”[42], ecco che la legittima
preoccupazione di Pietro Leopoldo nel costituire il nuovo Vicariato divenne
quella di affidare all’autorità preposta “poteri non solo giurisdizionali, ma
anche politici ed amministrativi in senso stretto, i quali gli consentissero
con maggiore efficacia e sicurezza il governo del territorio”[43].
Durante
l’occupazione francese Pontedera mantenne giurisdizione su Ponsacco ma fu
separata sia da Cascina, dipendente dalla sottoprefettura di Pisa, che da
Palaia inclusa nella prefettura di Livorno; in seguito la struttura originaria
del Vicariato pontederese fu ripristinata sotto Ferdinando III, durante l’età
della restaurazione.
In questi
anni, complice una recessione economica e demografica, andava attenuandosi il
tradizionale giudizio negativo sulla popolazione locale, tanto che una
relazione del Vicario Branchi compilata nel 1822 ci informa che:
gli abitanti di questa
giurisdizione non sono di un’indole differente a quei di tutto il rimanente del
Gran - Ducato; hanno una certa vivacità, docilità e ospitalità, e sono in fine
sufficientemente istruiti e laboriosi. Pochi sono i delitti che sono commessi
in questa giurisdizione...[44]
Queste
valutazioni saranno confermate nel 1834 da una relazione del Vicario Gherardi:
... è par mirabile che in
un popolo così numeroso siano presso che sconosciuti i delitti, se si prescinda
da qualche alterazione che talvolta insorge fra le persone volgari, e da
qualche furto di poco momento.
Pochi anni
più tardi, il Vicariato fu riconosciuto essere di seconda classe con
giurisdizione sulle comunità di Pontedera, Palaia, Cascina, Ponsacco e
Capannoli e alle dipendenze del governo di Pisa (motuproprio del 2 agosto
1838).
In quel
tempo risiedevano a Pontedera in qualità di titolari dei rispettivi uffici
pubblici un ingegnere di circondario, un cancelliere di comunità con un
coadiutore e un ricevitore dell’ufficio del registro.
I.7.Pontedera: il territorio e il suo
sfruttamento; le risorse agricole, commerciali ed industriali.
I pareri
su Pontedera espressi dagli scrittori e dagli osservatori sette-ottocenteschi
furono dei più lusinghieri: scrisse il Targioni-Tozzetti:
Nonostante la mancanza
delle mura, Pontedera è oggi giorno una terra delle migliori della Toscana, che
ha più l’aspetto di città[45] che di terra.[46]
Similmente
il Repetti:
Una delle principali Terre
della Toscana, ben fabbricata e regolare, capoluogo di Comunità...[47]
E così il
Vicario Comparini in una relazione del 1795:
La terra di Pontedera, ed i
suoi annessi componenti questa mia giurisdizione, hanno la sorte di godere
abbondantemente gl’indicati vantaggj. Felicemente situata dalla natura in
vicinanza del fiume Arno, poche leghe discosta dal mare, traversata dalla
Strada Regia, che dalla capitale conduce a Pisa e al porto di Livorno,
circondata da un pingue e fertilissimo terreno, capace delle più utili
produzioni...[48]
Il motivo
(rimarcato anche dalla relazione del Vicario Comparini) di così tanta
benevolenza nei giudizi esternati dagli uomini di cultura del tempo è da
ricercare soprattutto nella particolare ubicazione del borgo.
Infatti
questa comunità “riceve un gran soccorso dalla sua posizione sullo sbocco di
tre valli, della Nievole, cioè, del Val-d’Arno superiore e dell’Era”[49] ed il suo territorio è
lambito dalla “fiumana Era che all’Arno si marita poco lungi dalla Terra e al
di sotto del ponte che le diede il nome”[50]; poiché questi due
corsi d’acqua furono navigabili per lungo tempo (ma l’Era non più nel periodo
considerato), le attività economiche ad essi legate, come il trasporto delle
merci o le fornaci - queste ultime, che erano dislocate in gran numero nella frazione
di La Rotta, sfruttavano per la lavorazione “le sabbie argillose calcaree”[51] depositate dall’Arno -
conobbero un consistente sviluppo.
Naturalmente
anche le opere dell’uomo, accogliendo e valorizzando i doni di una natura così
munifica, avevano concorso al miglioramento della prosperità di Pontedera:
innanzi tutto le strade[52] che qui si incrociavano
mettevano in comunicazione Pisa con Livorno e quest’ultima con Firenze e poi
ancora Livorno con Lucca.
Ovviamente
il trovarsi sull’asse viaria Firenze-Livorno era un privilegio non indifferente
in quanto essa costituiva il tramite tra il porto regionale dove risiedevano i
ceti commerciali più dinamici e la capitale del Granducato dove, nella prima
metà dell’Ottocento, l’alta borghesia e gli aristocratici con rilevanti
capitali a disposizione iniziavano a dimostrare una certa intraprendenza in
campo finanziario.
Questo
legame si sarebbe rafforzato alla fine degli anni quaranta con la costruzione
della ‘gloriosa’ Strada Ferrata Leopolda, che avrebbe avuto in Pontedera una
delle sue stazioni principali e uno dei primissimi centri collegati.[53]
La
posizione di primo piano negli scambi commerciali e nelle vie di comunicazione
portò ad un notevole sviluppo nel settore dei trasporti - con il proliferare di
vetturini, barrocciai e navicellai: tutti costoro avversarono proprio il
progetto della Leopolda in quanto ne temevano la concorrenza - e in quello
alberghiero.
Le
manifatture tessili costituirono un settore trainante dell’economia locale: le
lavorazioni del lino, della lana, della stoppa, della canapa e del cotone
avevano avuto un primo lungo e favorevole periodo nel secolo precedente; poi ai
primi dell’Ottocento iniziarono a manifestarsi i segnali di una grave crisi
che, accompagnata da un calo demografico e da un impoverimento generale[54] si sarebbe protratta
fino all’inizio degli anni quaranta quando le manifatture cotoniere ripresero
il loro trend positivo - mentre la
fabbricazione dei tessuti di lana e di lana scomparvero quasi completamente - grazie
anche al diffondersi della lavorazione a domicilio, pratica che persistette
fino dopo l’Unità d’Italia, giacché raggiunse la sua massima diffusione intorno
al 1870.
Nonostante
questa ripresa produttiva delle lavorazioni tessili causasse una nuova vitalità
sociale con un maggiore benessere generale ed un incremento di popolazione, è
stato sottolineato come i “numerosi commercianti ed artigiani che operavano in
questo settore non avevano né i capitali né la cultura necessari per
trasformarsi da mercanti-imprenditori in moderni industriali”[55].
Perciò
questo settore al pari della lavorazione dei laterizi, della fabbricazione dei
cordami e della produzione di pasta, pur impiegando una numerosa manodopera, -
ma talvolta si trattava solo di lavoratori stagionali come nel caso della
massima parte delle fornaci le quali erano solite sospendere l’attività durante
il periodo invernale - fu condannato a scontare la povertà tecnologica e
l’arretratezza economico-culturale dei ceti dominanti, rinviandosi solo alla
fine del secolo scorso il definitivo passaggio da un’economia di bottega ad una
più moderna di tipo capitalistico[56].
Tutti gli
aspetti favorevoli appena considerati fungevano da supporto a ciò che
rappresentava il vero fulcro dell’economia locale: il mercato.
La
rilevanza di quest’ultimo era tale da fungere come riferimento per le altre
piazze - principalmente quelle del basso e del medio Valdarno, di Pisa e di
Livorno - riguardo la formazione dei prezzi dei principali beni trattati come i
prodotti agricoli, le stoffe e gli animali[57].
Il Vicario
Comparini nella già citata relazione del 1795 descriveva così questo vivace
microcosmo:
Il passo continuo di
viandanti e il numeroso trasporto di derrate e di manifatture esterne, ed
interne, il concorso a questo punto di riunione degli abitanti di moltissimi
circonvicini luoghi, e delle colline pisane per smerciare i prodotti superflui
alla loro sussistenza, ed acquistare ciò, che gli manca, forma oggetto di molto
lucro per questa terra, onde il suo settimanale mercato del venerdì, rassembla
piuttosto una delle grosse fiere di altri paesi.
Grazie al
mercato settimanale i mercanti-imprenditori pontederesi disponevano, oltre ai
propri fondachi, di un secondo e decisivo mezzo per la commercializzazione
delle merci; le due attività erano dunque intimamente legate e il buono o
cattivo andamento dell’una si rifletteva in maniera direttamente proporzionale
sull’altra.
Proprio la
suddetta mancanza di specializzazione professionale si rivelò piuttosto
deleteria sia perché, come già accennato, concorse a determinare una lunga
stasi del processo evolutivo del settore industriale con il mantenimento di
strutture produttive protocapitalistiche come la lavorazione a domicilio sia
perché in alcuni casi vi fu un vero e proprio regresso alla condizione di
mercante con l’abbandono di qualsiasi velleità produttiva[58].
Insomma
mancò quell’“esercizio professionale di un’attività economica” che caratterizza
l’imprenditore ai sensi dell’art. 2082 dell’attuale codice civile.
Il quel
determinato contesto, il requisito della professionalità poteva essere
raggiunto solamente se l’attività imprenditoriale fosse stata continua e non
occasionale ma soprattutto l’unica svolta dall’agente.
Altri due
grandi punti di riferimento del commercio pontederese erano le due fiere
annuali, rinomate per le contrattazioni aventi ad oggetto bestiame ed altri
animali; la principale era la fiera che fu istituita nel lontano 1471, detta
ancora oggi di S. Luca poiché aveva luogo nel mese di ottobre, per i tre giorni
successivi a quella ricorrenza.
Il Vicario
Barbacciani nel 1826 credeva che questa fiera fosse:
una delle più belle di
Toscana, sia per concorrenza di popolo sia per la grande quantità di bestiami
che vi si contrattano, sia finalmente per le granaglie[59]
La seconda
fiera, commercialmente meno importante, ma pur sempre molto frequentata, si
svolgeva il primo mercoledì e giovedì di agosto nell’ambito delle solenni
celebrazioni religiose di S. Faustino, il patrono di Pontedera.
Da ultimo
bisogna ricordare anche il mercato dei bozzoli nato nella prima metà
dell’Ottocento e attivo fino agli inizi del nostro secolo: il suo volume di
affari era tale da attirare perfino i manifatturieri delle province di Lucca,
Siena e Firenze
Nel
settore agricolo, rispetto a quello commerciale, c’era decisamente un minore
impiego di uomini e di mezzi; non a caso il Vicario Comparini riferendosi alla
popolazione di Pontedera scriveva che:
Tra i suoi abitatori non
contandosi che uno scarsissimo numero di possidenti territoriali e questi di
non ampia estenzione, ha dovuto la maggior parte rivolgersi al commercio per
provvedere ai proprj bisogni...[60]
Perciò, in
una situazione di generale arretratezza tendevano a prevalere le colture
destinate all’autoconsumo favorite dalla diffusione di obsoleti patti di
mezzadria, i quali vennero meno solo nei primi anni del Novecento; le
innovazioni tecniche più recenti erano sconosciute e mancava qualsiasi impulso
per l’organizzazione di uno sfruttamento intensivo dei terreni coltivabili, la
cui estensione, per verità, era piuttosto modesta rispetto a tutto quanto il
territorio della comunità[61].
In tali
poderi, in gran parte di proprietà di pochi e indolenti latifondisti che
appartenevano alle più prestigiose famiglie pisane e fiorentine[62], venivano coltivati il
grano, il granturco, la vite e, in minore quantità, l’olivo e il baco da seta.
Era
presente anche un ristretto numero di medi proprietari terrieri autoctoni tra i
quali vi erano alcuni la cui attività rurale era svolta a latere di quella principale; infatti erano quegli stessi
‘bottegai’ di cui sopra[63], troppo pavidi per
rischiare degli investimenti per una trasformazione in senso capitalistico
delle loro piccole aziende e che a maggior ragione non avrebbero potuto
impiantare un’efficiente impresa agricola.
Per tutte
le ragioni su esposte, sembra appropriato considerare Pontedera il risultato
dello sviluppo della sua “vocazione naturale” di “centro di scambi commerciali
e di produzione di beni materiali e di servizi”[64].
Ma, come
appena messo in luce, per buona parte dell’Ottocento la piccola borghesia
locale preferì ‘accontentarsi’ adagiandosi sullo sfruttamento di tale “rendita
di posizione”[65], piuttosto che uscire
dagli angusti confini della bottega per abbandonare finalmente la figura ibrida
del commerciante-industriale[66] e cogliere l’occasione
non solo per una modernizzazione capitalistica dei fattori di produzione ma
anche per affermarsi in modo più consapevole e autoritario come classe
dirigente e per ricompattarsi omogeneamente evitando quelle frequenti discordie
al proprio interno, motivate sostanzialmente dalla difesa dei propri (modesti)
affari, che ne caratterizzarono a lungo la storia politica[67]: al momento
dell’inserimento nello stato unitario il ceto dei commercianti fu uno dei
principali protagonisti della storia locale dato che alle prime elezioni
amministrative dopo la cacciata dei Lorena, quelle per il rinnovo dei
consiglieri comunitativi, i soggetti esercitanti attività legate alla
produzione o allo scambio di beni e di servizi conquistarono ben 10 posti sui
22 disponibili[68].
Infine si
deve rimarcare che al livello del potere centrale, la classe dirigente,
rappresentante degli interessi della grande proprietà terriera, non conduceva
una politica tesa ad incoraggiare le manifatture ed il processo di
industrializzazione:preferiva considerare l’agricoltura come fonte primaria e
quasi esclusiva del benessere economico.
Sotto
questo punto di vista l’arretratezza era palese (anche se parzialmente
‘giustificata’ dalla presenza di questa forte lobby di ‘agrari’): alla metà del secolo scorso la dottrina dei fisiocratici
non era più sufficiente per guidare la politica economica di uno stato così
come non bastava mantenere o ritoccare le ‘sacre’ riforme di Pietro Leopoldo
(come il libero commercio) proprio perché basate su quelle teorie
settecentesche ormai superate[69].
Tutto ciò,
oltre a causare il rallentamento per un moderno processo di
industrializzazione, spiega anche come mai nelle carte di archivio consultate
non vi sia traccia di organizzazioni operaie, nemmeno allo stato embrionale[70].