CAPITOLO I

I.1. Il quadro storico-istituzionale.

Negli anni immediatamente antecedenti all’unità d’Italia la scena politico-istituzionale del Granducato di Toscana fu caratterizzata dall’assolutismo “bonario, temperato e accomodante”[1] di Leopoldo II, nobile figura di uomo e di regnante, continuatore della tradizione riformistica di “paternalismo illuminato” degli Asburgo-Lorena ed ultimo Granduca di questa dinastia che regnò sulla Toscana per centoventidue anni - con qualche interruzione - “non senza sapersi acquisire molti meriti”[2].

Sin da ora è opportuno evidenziare come questa condotta politica di tolleranza distinguesse la Toscana dagli altri ordinamenti giuridici coevi, rendendola un’ ‘isola felice’ in mezzo a questi: stridente è il contrasto ad esempio con il vicino Ducato di Modena - non a caso considerato da uno studioso il “centro motore della controrivoluzione italiana”[3] - dove il sovrano Francesco IV d’Este combatté a fondo il liberalismo che egli stesso definiva “quell’immensa fogna, il cui alito non giunse perciò mai a corrompere neanche menomamente” il suo “buon senso politico”[4], finanziando alcuni fogli reazionari e reclutando villici, nei quali massima era la fedeltà alla politica del “trono e dell’altare”, per la formazione della milizia dei Volontari estensi.

Analoga situazione si presentava in un altro degli stati finitimi, lo Stato Pontificio, in cui il potere temporale dei papi, autentici campioni della controrivoluzione, soffocava qualsiasi conato di democrazia e di laicizzazione della società imponendo un’anacronistica ed assolutizzante teocrazia, grazie anche qui all’aiuto di sette reazionarie come i famigerati Centurioni [5].

La Toscana sin dai primi anni della restaurazione, invece, era solita accogliere con grande magnanimità gli esuli politici provenienti da ogni parte d’Italia, tra cui l’intraprendente ma sfortunato principe di Carignano e futuro Re di Sardegna Carlo Alberto e permettere a molti scrittori ‘rivoluzionari’ di pubblicare opere che sarebbero state osteggiate dai propri governi.

Si creò così un regime di “convivenza patriarcale”[6] che solo occasionalmente fu messo in crisi e, tutto sommato, resistette fino - per usare una espressione cara a Paolo Grossi - agli estremi del regime granducale.

Infatti, nonostante che il Granduca Leopoldo avesse preso alcune decisioni che gli alienarono la simpatia di alcuni dei maggiori rappresentanti della cultura toscana il savio paternalismo e la moderazione non vennero mai meno.

Egli, pressato dalle reiterate proteste austriache motivate dalla paura di un’eccessiva divulgazione dei principî liberali, nel 1833 decise di sopprimere la prestigiosa rivista l’“Antologia”[7] creando così una pericolosa frattura con l’avanguardia intellettuale del paese da allora in poi sempre più diffidente verso l’autorità lorenese, sfiducia che si accentuò a dismisura dopo la restaurazione conseguente ai tumulti del 1848, soprattutto a causa dell’occupazione militare austriaca durata fino al 1855, considerata una umiliante ed inutile precauzione e dell’emanazione di leggi ultraconservatrici tra cui vanno menzionate quella del 13 febbraio 1852 che abolì la libertà di stampa, quella che abolì la carta costituzionale (6 maggio 1852) e le altre che ripristinarono la pena di morte, e concessero alle autorità di polizia poteri eccezionali ( due decreti del 16 novembre 1852).

I.2. Breve storia della pena di morte in Toscana: da Pietro Leopoldo all’unità d’Italia.

Dato che il provvedimento del 16 novembre 1852 sulla polizia sarà oggetto di uno studio più approfondito nei seguenti capitoli, conviene accennare brevemente all’altro riguardante la pena capitale, in quanto testimonianza significativa del grado di civiltà giuridica maturato ed al contempo valida introduzione agli aspetti più specifici che saranno presi in esame.

La pena di morte[8], come è noto, fu formalmente abolita in Toscana per la prima volta da Pietro Leopoldo nel 1786 con la “Leopoldina”, per poi essere reintrodotta dallo stesso Granduca nel 1790 per fare fronte a gravi disordini popolari; questa misura penale estrema fu confermata da Ferdinando III con l’estensione a più riprese a vari titoli di reato come la lesa maestà umana e divina, gli omicidi premeditati e i furti violenti.

Ma, anche a causa dell’interpretazione restrittiva della magistratura toscana, di fatto, prima del regno di Leopoldo II, il boia fu raramente chiamato all’opera[9].

Poi, a partire dal 1831, le esecuzioni furono sospese e lo stesso Granduca propose un aggravamento delle condizioni per pronunciare la pena capitale: si doveva, cioè, raggiungere l’unanimità dei voti del collegio giudicante.

E così la pena di morte continuò a rimanere in vigore solo formalmente mentre i vari progetti per la compilazione di un codice penale sposavano la linea abolizionista, la quale portava come necessaria conseguenza una nuova gradazione della scala penale.

La formale abolizione si ebbe con un decreto del governo provvisorio Guerrazzi-Montanelli-Mazzoni del 4 marzo 1849, provvedimento che la restaurata autorità granducale mantenne in vigore fino all’emanazione dei sopra citati decreti del 16 novembre 1852, i quali “furono in sostanza due di quelle leggi eccezionali che è tanto più facile il criticare di quello che sia ai Governi possibile di esimersene, quando nel concorso di gravissime circostanze, debbono soddisfare efficacemente al debito della pubblica difesa”[10].

La pena di morte fu anche introdotta nel codice penale del 1853[11] , ma negli anni che seguirono fu pronunziata una sola volta e mai eseguita fino a che non venne definitivamente abrogata nel 1859 con uno dei primi demagogici atti del Governo provvisorio.

Per cui nel 1864 Baldassarre Paoli poté orgogliosamente sostenere che:

in Toscana ebbero sempre apertissima ripugnanza per la pena di morte, e con mirabile accordo, la scienza, la legislazione, e la giurisprudenza: sicché non è da meravigliare, se, nonostante l’avvicendarsi e la tanta diversità di tempi, di eventi, e di politici ordinamenti, siano già decorsi più di trenta anni senza che in queste provincie sia mai stato alzato il patibolo.[12]

I.3. Pregi e difetti della condotta politica di Leopoldo II.

Dunque, per gli aspetti sopra menzionati, è possibile rilevare un continuum che parte da Pietro Leopoldo, - la cui opera di riforme, sebbene inizialmente osteggiata dai ceti popolari e da quelli portatori di interessi e valori tradizionali, era in pieno Ottocento circondata da un’aura mitologica, così come la figura stessa dell’illuminato principe, considerato come colui che aveva dischiuso le porte del progresso al Granducato, per molto tempo stato modello per i regnanti europei e a sua volta generatore di ‘miti’ collegati come quello di Firenze ‘novella Atene’ - prosegue con Ferdinando III e si conclude con il mite Leopoldo II il quale, non a caso, aveva promesso al padre morente di preservare lo statu quo.

Alla luce di ciò, non è inopportuno qui riportare una bella pagina di A. Baretta che ha studiato la Toscana nel decennio 1814 - 1824 e tramite una ‘interpretazione estensiva’ riferirla anche al regno di Leopoldo II.

Queste asserzioni troveranno riscontro nei capitoli seguenti grazie alla documentazione archivistica.

Il popolo toscano - scrive Baretta - tranquillo e fidente nel principe e nel governo dormiva, apparentemente almeno, sonni tranquilli. Dicono che il Governo e il Fossombroni, - il primo ministro di Ferdinando III, celebre per il motto “il mondo va da sé” - in ispecie, usassero di qualche narcotico per fargli dormire quel sonno... Lo Stendhal chiamava il toscano un governo assoupissant. L’ideale a cui si aspirava era che nessuno parlasse; le persone sospette in politica erano designate come opinionisti, e i processi economici del Buongoverno, fatti senza testimoni, dimostravano che la consegna era di non parlare e di mai occuparsi dei fatti presenti. Le popolazioni venivano così intimidite e non urtate con dei soprusi; il sistema generale del governo era che gli eventi come le persone facessero il minor chiasso possibile: si preferiva lasciare un colpevole impunito piuttosto che punirlo chiassosamente, o danneggiare colla punizione gli interessi commerciali della città. Qualche giornale francese letto nei caffè e nei gabinetti letterari dai dilettanti di novità, qualche esule politico di più o di meno non parevano al governo toscano cose da mettere in pericolo la quiete pubblica: sapeva benissimo che al bisogno uno sfratto, qualche settimana di carcere, o anche solo una forte reprimenda fatta dal governatore e nei casi più gravi dal presidente del Buongoverno sarebbero bastate a guarire le teste esaltate della smania di occuparsi di politica.[13]

Rimane pur tuttavia, l’immagine di un Leopoldo II che nei suoi primi anni di regno non seppe adeguatamente sfruttare la possibilità di rinnovare la classe dirigente e di operare riforme istituzionali che avrebbero potuto segnare un punto di svolta nella politica e nella storia del Granducato: così quando nei primi anni trenta scoppiarono i moti rivoluzionari in mezza Europa, confermando ulteriormente (già nel venti diversi moti erano stati soppressi a fatica) l’intrinseca fragilità dei governi restaurati dalle autorità ciecamente reazionarie, Leopoldo avrebbe commesso un grave errore nel non concedere la costituzione ai pacifici toscani.

Questo gesto, non provocato dalle ricattatorie violenze di piazza - che purtroppo hanno in ogni tempo accompagnato le ‘grandi conquiste’ delle masse - ma semplicemente ‘sussurrato’ dagli uomini politici e di cultura più aperti alle nuove idee democratiche, avrebbe permesso al Granduca di consolidare il proprio potere all’interno e “all’esterno la mitizzazione della Toscana concorde”[14].

E quanto tale scelta sarebbe stata lungimirante lo si sarebbe potuto apprezzare nel 1849 quando Leopoldo fu obbligato a concedere una costituzione modellata su quella francese del 1830, emanata in tutta fretta e subito etichettata dal Montanelli come “un vestito bell’e fatto” poiché non era derivata “dallo svolgimento, adattato ai nuovi tempi, della libertà dei nostri antichi comuni”[15] .

Al contrario, il giovane sovrano - quando egli salì al trono aveva appena 27 anni - poco esperto di affari di governo e timoroso di disattendere le ultime volontà paterne, con un eccesso di zelo conservatore confermò in toto i funzionari pubblici e i consiglieri di Stato del padre e, come si è visto, isolò sempre più il potere dalle aspettative degli intellettuali ‘progressisti’, tanto da creare una frattura insanabile ed un’incapacità di dialogare positivamente per tutta la durata del suo regno.

Un’occasione mancata, dunque.

Inoltre, certa pubblicistica rimprovera a Leopoldo II l’avere governato dopo il 1848 più come Arciduca d’Austria che come Granduca di Toscana e di avere trasformato il Granducato, in quel decennio, in “un satellite dell’impero”[16].

Ed ancora, i detrattori dell’ultimo Lorena lo hanno accusato di ‘gattopardismo’ nella stessa vicenda dei moti del quarantotto, per non tacere poi delle modalità della tranquilla ‘rivoluzione’ toscana del 1859 che starebbero ulteriormente a dimostrare l’inettitudine e la mancanza di autorità del personaggio, ormai incapace di gestire una situazione critica senza ricorrere all’aiuto militare austriaco, nonché l’indifferenza e la disaffezione dei sudditi verso l’antico principe in fuga.

Ma quest’uomo ebbe indubbiamente moltissimi meriti: sotto il suo regno furono intraprese numerose opere pubbliche destinate a consolidare la fama di stato modello (e moderno), - nuove ed importanti strade, una delle prime e maggiormente articolate ferrovie italiane, il miglioramento e l’ingrandimento del porto di Livorno tanto da essere considerato il “secondo fondatore” della città labronica, ingenti opere di bonifica, impiego del telegrafo elettrico (primo stato in Italia), solo per ricordare le più importanti - diede impulso per la compilazione di un codice penale atteso da decenni che rinnovò i fasti della tradizione penale toscana, iniziata con la riforma criminale dell’avo Pietro Leopoldo, grazie al quale nacque il “primo codice penale moderno”[17].

Il codice del 1853, vero monumento di sapienza giuridica e pietra miliare del diritto penale garantista, accolse il principio di legalità nella sua tripartizione della riserva di legge, della tassatività e della retroattività, il principio di materialità (nullum crimen sine actione ), il principio di offensività e il principio di imputabilità-colpevolezza, richiedendosi il dolo come regola e la colpa come eccezione[18] e rimase in vigore (per la Toscana) pressoché invariato anche dopo l’unità d’Italia quando “tre diversi codici penali si contendevano l’impero dell’alta, della media e della bassa Italia”[19] fino a che il 30 giugno 1889 fu definitivamente approvato il primo codice penale unico del Regno d’Italia: il codice detto di Zanardelli[20].

Il codice toscano fu accompagnato da due altri importanti provvedimenti: il Regolamento di polizia punitiva e il Regolamento fondamentale degli stabilimenti penali.

Inoltre, un motuproprio del 2 agosto 1838 riformò la giustizia civile e penale portandola ad un tale livello di modernità che anche gli uomini del governo provvisorio del 1859-60 ritennero di non dovere mettere mano in questo settore: l’unica grossa novità introdotta in quel periodo, come detto, fu l’abolizione della pena di morte, praticamente già abrogata per desuetudine.

A proposito dell’intervento normativo del 1838 il Baldasseroni ha scritto:

La riforma fu radicale. Rovesciò dalle fondamenta l’antica istituzione dei vicari regi foranei... distrusse le diverse rote o tribunali di appello che esistevano nelle provincie; abolì il consiglio supremo di giustizia e con esso la terza istanza; soppresse la rota criminale composta di uomini speciali per giudicare di quelle materie. Con una stessa denominazione e con eguali competenze si istituì un numero di tribunali collegiali con attribuzioni civili e criminali. Una sola regia corte civile e criminale veniva stabilita in Firenze, ove da tutte le parti dello Stato potessero portarsi in seconda istanza le cause civili, e dalle sentenze della quale non rimaneva più altro rimedio che il ricorso in Cassazione... venne istituito il ministero pubblico tanto presso le Corti regie, come presso i tribunali di prima istanza, così riproducendo presso a poco in Toscana una copia dell’ordinamento giudiciario vigente in Francia.[21]

Altre importanti novità furono rappresentate dalla pubblicità ed oralità dei giudizi criminali, dalla abolizione delle condanne a pene straordinarie e da un uso temperato dell’ istituto della carcerazione preventiva.

Cosicché, il Baldasseroni poteva affermare trionfante che:

in quella parte specialmente che referivasi... all’amministrazione della giustizia criminale la riforma splendé così per la massima temperanza, come per l’applicazione dei principj i più miti e conformi alla dottrina umanitaria: splendé anco maggiormente pel confronto con la legislazione di altri Stati italiani, compreso il Regno Sardo[22].

Un ulteriore passo verso la modernizzazione dell’apparato giuridico-amministrativo fu compiuto, come si vedrà più approfonditamente nel prossimo capitolo, negli anni ‘50, ampliando quelle novità che erano state apportate dalla riforma del 1838.

I.4. Considerazioni conclusive riguardo Leopoldo II e il governo della Toscana da parte dei Lorena.

Pertanto, la figura del Granduca Leopoldo rischia di essere essere ingiustamente sacrificata sull’altare dell’unitarismo ad opera di qualche storico ipocritamente manicheo specializzato in agiografie del risorgimento e dei suoi retorici protagonisti.

Invece pare corretto accomunare l’esperienza di governo di questo saggio monarca a quelle dei suoi avi a partire da Francesco Stefano, primo Lorena a regnare in Toscana seppure in maniera indiretta, cioè tramite la reggenza del Richecourt prima e del Botta Adorno poi[23].

Difatti il primo Granduca non mediceo operò una politica di riforme i cui tratti caratterizzanti si rifletteranno sui suoi discendenti che avrebbero consolidato quella tradizione di “paternalismo illuminato” che è menzionata all’inizio di questo capitolo.

Innanzi tutto, egli ebbe il merito di tenere lontano il Granducato dalla guerra di successione austriaca, dichiarandolo neutrale e potersi così dedicare più alacremente alla sua riorganizzazione.

La neutralità, accompagnata dalla scelta di non formare un efficiente esercito, sarebbe stata una costante della condotta politica anche dei futuri Lorena; ciò avrebbe portato anche a conseguenze spiacevoli come la fuga di Ferdinando III di fronte all’invasione dei francesi o l’inevitabile soccorso delle truppe austriache a Leopoldo II dopo i moti del 1848, ma avrebbe evitato inutili carneficine e un notevole dispendio di danaro pubblico.

Scelta dettata sicuramente anche da motivazioni opportunistiche perché, in primo luogo, l’esercito toscano durante la guerra dei 7 anni, in una delle rare occasioni in cui fu chiamato all’opera, non aveva dato una gran prova di sé e si era generato il malcontento tra uomini mandati a combattere lontano dalla Toscana per una patria ed una causa non a loro appartenenti; secondariamente perché nulla avrebbe potuto il piccolo contingente militare di fronte ad eventi ‘incontrollabili’: per quanto risoluto e ben addestrato, non avrebbe certo avuto la forza di opporsi in maniera efficace all’avanzata delle armate napoleoniche.

Ma scelta soprattutto coraggiosa: non doveva essere facile in quei secoli gestire le relazioni internazionali con il buon senso e la tolleranza piuttosto che con la minaccia delle armi.

A questa politica antimilitarista, che sul piano interno fu ribadita da alcune leggi che decretavano il divieto di portare armi, si accompagnò un cauto giurisdizionalismo, - che sfociò in aperto conflitto con la curia romana al tempo delle ‘tentazioni giansenistiche’ di Pietro Leopoldo - ed una crescente attenzione per la proprietà la finanza ed il commercio che generò la legge sulle manimorte del 1751, la soppressione delle Arti da parte di Pietro Leopoldo nel 1770, la fondazione della Banca di Sconto di Firenze nel 1826, solo per citare i provvedimenti più noti.

Poi, come già messo in luce, tutti i Lorena si distinsero per avere fatto intraprendere e completare grandi opere pubbliche (come le numerose bonifiche).

Ancora una volta rilevanti sono le differenze con gli altri ordinamenti giuridici dell’epoca; basti pensare ai Borboni, i quali si compiacevano di adottare le tre effe per governare: farina, feste e forca.

Nello Stato Pontificio gli indegni successori di Pietro punivano con inaudita crudeltà il minimo tentativo sedizioso ed anche la dinastia dei futuri Re d’Italia manteneva ancora nella prima metà del secolo scorso una legislazione che prevedeva molti privilegi e residui feudali come i tribunali speciali per i membri della aristocrazia e del clero, una rigida censura e, insensibile alla ideologia penalistica dell’“umanità” della pena, un buon numero di pene corporali.

Per completare questo quadro di politica decisamente oscurantista bisogna ricordare che nello Stato Sabaudo non erano infrequenti le pratiche dell’epurazione degli oppositori politici e delle persecuzioni delle minoranze religiose degli ebrei e dei valdesi.

Questa breve analisi comparata permette una volta di più di rilevare la singolarità dell’esperienza giuridica[24] relativa al Granducato di Toscana, considerata nel periodo che corre dal congresso di Vienna all’unità d’Italia: se un ordinamento giuridico ha la funzione strumentale di affermare i valori tipici di un’istituzione ordinata,[25] - sia in modo positivo, proponendo cioè modelli di comportamento, ma anche tramite tassativi divieti in modo da non permettere a soggetti portatori di valori diversi e antitetici a quelli dominanti di infrangere l’ordine costituito fino ad arrivare al sovvertimento, pacifico o armato che sia, dell’intera società - allora questo scopo non fu interamente perseguito dai granduchi lorenesi a causa della loro politica eccessivamente tollerante.

In quest’ottica, i Lorena commisero un grave errore nel consentire agli esuli liberali e democratici la pubblicazione di numerose opere contenenti principi la cui divulgazione avrebbe nociuto gravemente anche alla Toscana, oltre agli stati da cui questi individui provenivano; poi, la repressione degli ideali mazziniani, giobertiani[26] e unitari avrebbe dovuto essere più rigorosa ed esemplari le pene nei confronti dei ‘quarantottini’, a partire dai leaders del movimento, Montanelli e Guerrazzi[27].

Si deve di nuovo constatare l’eccezionalità di questa situazione, specialmente in riferimento ad uno stato monarchico ottocentesco inquadrabile in una forma di governo ‘intermedia’ tra la monarchia assoluta e quella limitata, quando anche le moderne democrazie temono ed osteggiano gli integralismi e non ammettono l’esistenza di certe ideologie dichiarandole fuorilegge, limitando e contraddicendo il concetto stesso di democrazia.

Per concludere questo quadro introduttivo sarà utile evidenziare due episodi legati ai due momenti di rottura istituzionale verificatisi durante il regno di Leopoldo II: quello provvisorio relativo ai mesi a cavallo tra il 1848 e il 1849, e quello definitivo della ‘rivoluzione silenziosa’ del 27 aprile 1859.

L’ ex ministro dell’interno Giovanni Baldasseroni, nelle sue memorie ricordò che nel 1849, quando il Granduca dovette affrontare la restaurazione non cercò inutili vendette: i suoi primi atti furono di clemenza in ossequio alla “ragione politica, la quale esigeva imperiosamente tutelata la pubblica tranquillità tanto nell’interesse della Toscana, quanto in quello degli Stati limitrofi che risentivano una diretta influenza delle condizioni politiche della Toscana”[28] .

Per cui egli, in un decreto emanato all’indomani del ritorno in patria, considerava che:

la ragione pubblica non sarebbe per ricevere offesa dall’oblio, al quale, seguendo i naturali impulsi dell’animo suo, voleva abbandonato tutto ciò che nelle passate agitazioni fosse stato detto e scritto ad ingiuria personale sua, e dei suoi, bastandogli la soddisfazione che ne dà la testimonianza di una pura coscienza... quindi voleva abbandonata all’oblio ogni ingiuria verbale o scritta contro la persona del Principe... amnistiando pure completamente quanti si fossero fino a quel giorno resi colpevoli di delitti e trasgressioni... con lo scopo di pacificare e tranquillizzare il paese.[29]

Anche in quell’occasione Leopoldo dimostrò nobiltà d’animo e rigore etico, i medesimi appartenuti al padre Ferdinando il quale, al momento del proprio rientro in patria si guardò bene dall’adottare misure repressive e dall’intraprendere rappresaglie superflue e, contrariamente ad altri sovrani - i quali vollero esplicitamente il “ritorno al ‘98”[30] - non fece emanare uno specifico provvedimento che togliesse valore agli atti legislativi emessi negli ‘anni francesi’; anzi, mantenne il codice di commercio pur sopprimendo il codice civile napoleonico di cui però rimasero in vigore le fondamentali norme abrogatrici dei feudi e delle sostituzioni fidecommissarie, quelle sul sistema ipotecario ed altre in materia di vincoli immobiliari; fu poi confermata la legislazione ecclesiastica di matrice giurisdizionalista, e l’espulsione dei gesuiti dal territorio toscano.

Non cedendo alle tendenze reazionarie (specie degli ambienti cattolici), Ferdinando, giova ancora ricordarlo, coadiuvato dai preziosi consigli di Vittorio Fossombroni, fece in modo che venissero “confermate le condizioni per quella libera circolazione dei beni, che era stato appunto uno dei maggiori pregi del sistema giuridico francese e di cui il paese aveva goduto, e doveva ancora godere, i benefici economici”[31].

Il secondo episodio di cui sopra riguarda la definitiva fuga dei Lorena ed è stato ben descritto da Franz Pesendorfer:

La famiglia granducale partì da Palazzo Pitti in una piccola colonna di carrozze scortata dal nunzio pontificio e da componenti delle legazioni di Francia, Inghilterra e Sardegna. Il convoglio granducale non venne, comunque, importunato da nessuno: “non una minaccia, non un insulto” venne udito dal diplomatico francese che viaggiava al seguito. Altri osservatori francesi si dissero sorpresi di non aver incontrato a Firenze nemmeno una carrozza rovesciata: la dissero una rivoluzione condotta avec courtoisie.[32]

Le modalità di questa mesta ma dignitosa uscita di scena si sarebbero ripetute quasi un secolo più tardi quando l’ultimo Re d’Italia, uomo di profondo spessore morale (ben al di sopra dei suoi consanguinei passati e futuri), fu costretto ad abbandonare la patria per prendere la dolorosa via dell’esilio.

E ciò fece in maniera rapida evitando polemiche e, forse, una nuova guerra civile garantendo un dolce trapasso istituzionale proprio come accadde quel 27 aprile 1859.

Così anche gli ‘usurpatori’ del potere degli Asburgo-Lorena a sua volta sarebbero stati ‘usurpati’ da un dubbio referendum e il cerchio si sarebbe chiuso.

I.5. Un restringimento di prospettiva: le ragioni.

 

A questo punto, l’indagine deve iniziare a rivolgersi più specificamente all’oggetto prescelto, cioè alla descrizione del funzionamento di un ufficio di polizia negli anni ‘caldi’ dal passaggio dal Granducato di Toscana al regno d’Italia.

Bisogna allora coniugare “i grandi temi della riflessione giuridica”[33] e della storiografia al diritto pratico e alla storia locale, ricostruendo “le strategie e le tecniche giuridiche”[34] secondo le quali fu concretamente esercitato il potere di polizia in quel borgo del contado pisano.

Questa analisi sarà condotta ‘da vicino’, cercando di penetrare nell’atmosfera di quel periodo e di capire meglio le decisioni che venivano prese dai funzionari locali, verificando la reale rispondenza alle prescrizioni normative del legislatore; a questo scopo, pur senza eccedere i limiti ‘naturali’ della storia del diritto, bisognerà riservare anche il dovuto spazio a fenomeni metagiuridici come i fatti di costume.

Quindi, il metodo sarà quello consueto, a partire dall’analisi delle fonti del diritto, ma, è bene ripeterlo, affinché queste non rimangano delle vuote espressioni normative, totalmente indifferenti al lettore moderno, si dovranno ‘colorare’ con altri elementi che per la loro peculiarità appartengono ad altre discipline (ad esempio la sociologia).

I risultati raggiunti non presenteranno interesse solo da un punto di vista della storia locale giacché, come ha insegnato G. Salvemini:

quando si descrive la costituzione politica di un paese, non basta fermarsi generalmente agli organi centrali dell’amministrazione, ignorando i governo locali. Questo è un errore: i gruppi sociali dominanti si definiscono assai meglio attraverso l’analisi dei governi locali[35] .

Dapprima però, si dovranno fornire le coordinate fondamentali (iniziando da quelle giuridiche) per potere ‘leggere’ la storia istituzionale di Pontedera alla metà del secolo scorso.

I.6. Le vicende storiche relative all’organizzazione giurisdizionale di Pontedera alle soglie dell’età contemporanea.

La riforma comunitativa di Pietro Leopoldo[36] rappresentò un momento chiave nella storia istituzionale di Pontedera per un duplice ordine di motivi; dapprima perché trasformò radicalmente le antiche organizzazioni giurisdizionali medicee (così come nel resto dello stato) in modo tale da passare da un “sistema di dignità territoriali a una compagine di funzioni statali”[37].

In secondo luogo perché con la legge del 30 settembre 1772, Pontedera divenne sede di una Podesteria maggiore e quindi dotata di una autonoma giurisdizione civile, mentre in precedenza (dal 1532) la Podesteria era stata unita con quella di Cascina di modo che il podestà risiedeva per sei mesi in un luogo e per sei mesi nell’altro.

Il Podestà era titolare di un mandato triennale ed era affiancato da due notari civili, uno con l’obbligo di risiedere a Pontedera e l’altro a Cascina.

Per ciò che riguarda la giurisdizione criminale e di polizia, la Podesteria rimaneva sottoposta all’autorità del Vicario di Vicopisano.

Ma successivamente, un motuproprio del 6 settembre 1783 provvide ad eleggere Pontedera come sede di Vicariato maggiore con giurisdizione civile e criminale nel proprio territorio (compresa Cascina) e in quello della Podesteria di Palaia; il nuovo Vicariato nel 1790 si espanse in seguito alla rinuncia del marchese Niccolini al Vicariato feudale di Ponsacco e Camugliano.

Se, come sottolineato, la riforma comunitativa di Pietro Leopoldo coinvolse (e sconvolse) l’intero apparato delle amministrazioni locali, l’importante provvedimento del 1783 rappresentò un privilegium [38] adottato a causa dell’eccezionalità della situazione relativa alle trasformazioni sociali e territoriali (in primis l’espansione urbanistica) in atto nel pontederese accompagnata all’indole particolarmente turbolenta ed insubordinata dei suoi abitanti[39].

La crescita della popolazione costituì un fattore decisivo: infatti le variazioni demografiche nella comunità di Pontedera mostrano come il numero degli abitanti fosse quasi raddoppiato in poco più di mezzo secolo[40]; in particolare, quel periodo storico fu caratterizzato dall’elevato afflusso nei centri urbani di masse di disperati in cerca di un’occupazione, uomini non più tutelati dalla organizzazione delle arti e dei mestieri, avendo le riforme leopoldine rotto questa tipica espressione giuridica delle società di Ancien Regime.

Da qui la nascita di frequenti problemi di controllo, aspetto fondamentale dell’occhiuta politica leopoldina, e di sicurezza dell’ordine pubblico: Luigi Comparini, secondo vicario di Pontedera, commentando la decisione del sovrano in una relazione sul Vicariato, datata 1794, affermò che:

Nei passati tempi essendo il popolo di Pontedera in disistima del Governo per la sua indocilità e frequenza alle risse, e non bastando conseguentemente a raffrenarlo l’autorità sola del Potestà che vi presiedeva, piacque a... S.M.... permutare tale Potesteria in Vicariato Maggiore, onde la fissa permanenza d’un Vicario con due Notari, e un terzo residente a Cascina, provvedesse agl’inconvenienti, e riducesse il popolo alla dovuta subordinazione alle leggi.[41]

Se, a completamento del quadro di questa dinamica realtà sociale si aggiungono lo sviluppo di un fiorente commercio, il sorgere della industria manifatturiera e il “rapido arricchimento di alcune grandi famiglie contadine di Cascina a seguito delle riforme livellari leopoldine”[42], ecco che la legittima preoccupazione di Pietro Leopoldo nel costituire il nuovo Vicariato divenne quella di affidare all’autorità preposta “poteri non solo giurisdizionali, ma anche politici ed amministrativi in senso stretto, i quali gli consentissero con maggiore efficacia e sicurezza il governo del territorio”[43].

Durante l’occupazione francese Pontedera mantenne giurisdizione su Ponsacco ma fu separata sia da Cascina, dipendente dalla sottoprefettura di Pisa, che da Palaia inclusa nella prefettura di Livorno; in seguito la struttura originaria del Vicariato pontederese fu ripristinata sotto Ferdinando III, durante l’età della restaurazione.

In questi anni, complice una recessione economica e demografica, andava attenuandosi il tradizionale giudizio negativo sulla popolazione locale, tanto che una relazione del Vicario Branchi compilata nel 1822 ci informa che:

gli abitanti di questa giurisdizione non sono di un’indole differente a quei di tutto il rimanente del Gran - Ducato; hanno una certa vivacità, docilità e ospitalità, e sono in fine sufficientemente istruiti e laboriosi. Pochi sono i delitti che sono commessi in questa giurisdizione...[44]

Queste valutazioni saranno confermate nel 1834 da una relazione del Vicario Gherardi:

... è par mirabile che in un popolo così numeroso siano presso che sconosciuti i delitti, se si prescinda da qualche alterazione che talvolta insorge fra le persone volgari, e da qualche furto di poco momento.

Pochi anni più tardi, il Vicariato fu riconosciuto essere di seconda classe con giurisdizione sulle comunità di Pontedera, Palaia, Cascina, Ponsacco e Capannoli e alle dipendenze del governo di Pisa (motuproprio del 2 agosto 1838).

In quel tempo risiedevano a Pontedera in qualità di titolari dei rispettivi uffici pubblici un ingegnere di circondario, un cancelliere di comunità con un coadiutore e un ricevitore dell’ufficio del registro.

I.7.Pontedera: il territorio e il suo sfruttamento; le risorse agricole, commerciali ed industriali.

I pareri su Pontedera espressi dagli scrittori e dagli osservatori sette-ottocenteschi furono dei più lusinghieri: scrisse il Targioni-Tozzetti:

Nonostante la mancanza delle mura, Pontedera è oggi giorno una terra delle migliori della Toscana, che ha più l’aspetto di città[45] che di terra.[46]

Similmente il Repetti:

Una delle principali Terre della Toscana, ben fabbricata e regolare, capoluogo di Comunità...[47]

E così il Vicario Comparini in una relazione del 1795:

La terra di Pontedera, ed i suoi annessi componenti questa mia giurisdizione, hanno la sorte di godere abbondantemente gl’indicati vantaggj. Felicemente situata dalla natura in vicinanza del fiume Arno, poche leghe discosta dal mare, traversata dalla Strada Regia, che dalla capitale conduce a Pisa e al porto di Livorno, circondata da un pingue e fertilissimo terreno, capace delle più utili produzioni...[48]

Il motivo (rimarcato anche dalla relazione del Vicario Comparini) di così tanta benevolenza nei giudizi esternati dagli uomini di cultura del tempo è da ricercare soprattutto nella particolare ubicazione del borgo.

Infatti questa comunità “riceve un gran soccorso dalla sua posizione sullo sbocco di tre valli, della Nievole, cioè, del Val-d’Arno superiore e dell’Era”[49] ed il suo territorio è lambito dalla “fiumana Era che all’Arno si marita poco lungi dalla Terra e al di sotto del ponte che le diede il nome”[50]; poiché questi due corsi d’acqua furono navigabili per lungo tempo (ma l’Era non più nel periodo considerato), le attività economiche ad essi legate, come il trasporto delle merci o le fornaci - queste ultime, che erano dislocate in gran numero nella frazione di La Rotta, sfruttavano per la lavorazione “le sabbie argillose calcaree”[51] depositate dall’Arno - conobbero un consistente sviluppo.

Naturalmente anche le opere dell’uomo, accogliendo e valorizzando i doni di una natura così munifica, avevano concorso al miglioramento della prosperità di Pontedera: innanzi tutto le strade[52] che qui si incrociavano mettevano in comunicazione Pisa con Livorno e quest’ultima con Firenze e poi ancora Livorno con Lucca.

Ovviamente il trovarsi sull’asse viaria Firenze-Livorno era un privilegio non indifferente in quanto essa costituiva il tramite tra il porto regionale dove risiedevano i ceti commerciali più dinamici e la capitale del Granducato dove, nella prima metà dell’Ottocento, l’alta borghesia e gli aristocratici con rilevanti capitali a disposizione iniziavano a dimostrare una certa intraprendenza in campo finanziario.

Questo legame si sarebbe rafforzato alla fine degli anni quaranta con la costruzione della ‘gloriosa’ Strada Ferrata Leopolda, che avrebbe avuto in Pontedera una delle sue stazioni principali e uno dei primissimi centri collegati.[53]

La posizione di primo piano negli scambi commerciali e nelle vie di comunicazione portò ad un notevole sviluppo nel settore dei trasporti - con il proliferare di vetturini, barrocciai e navicellai: tutti costoro avversarono proprio il progetto della Leopolda in quanto ne temevano la concorrenza - e in quello alberghiero.

Le manifatture tessili costituirono un settore trainante dell’economia locale: le lavorazioni del lino, della lana, della stoppa, della canapa e del cotone avevano avuto un primo lungo e favorevole periodo nel secolo precedente; poi ai primi dell’Ottocento iniziarono a manifestarsi i segnali di una grave crisi che, accompagnata da un calo demografico e da un impoverimento generale[54] si sarebbe protratta fino all’inizio degli anni quaranta quando le manifatture cotoniere ripresero il loro trend positivo - mentre la fabbricazione dei tessuti di lana e di lana scomparvero quasi completamente - grazie anche al diffondersi della lavorazione a domicilio, pratica che persistette fino dopo l’Unità d’Italia, giacché raggiunse la sua massima diffusione intorno al 1870.

Nonostante questa ripresa produttiva delle lavorazioni tessili causasse una nuova vitalità sociale con un maggiore benessere generale ed un incremento di popolazione, è stato sottolineato come i “numerosi commercianti ed artigiani che operavano in questo settore non avevano né i capitali né la cultura necessari per trasformarsi da mercanti-imprenditori in moderni industriali”[55].

Perciò questo settore al pari della lavorazione dei laterizi, della fabbricazione dei cordami e della produzione di pasta, pur impiegando una numerosa manodopera, - ma talvolta si trattava solo di lavoratori stagionali come nel caso della massima parte delle fornaci le quali erano solite sospendere l’attività durante il periodo invernale - fu condannato a scontare la povertà tecnologica e l’arretratezza economico-culturale dei ceti dominanti, rinviandosi solo alla fine del secolo scorso il definitivo passaggio da un’economia di bottega ad una più moderna di tipo capitalistico[56].

Tutti gli aspetti favorevoli appena considerati fungevano da supporto a ciò che rappresentava il vero fulcro dell’economia locale: il mercato.

La rilevanza di quest’ultimo era tale da fungere come riferimento per le altre piazze - principalmente quelle del basso e del medio Valdarno, di Pisa e di Livorno - riguardo la formazione dei prezzi dei principali beni trattati come i prodotti agricoli, le stoffe e gli animali[57].

Il Vicario Comparini nella già citata relazione del 1795 descriveva così questo vivace microcosmo:

Il passo continuo di viandanti e il numeroso trasporto di derrate e di manifatture esterne, ed interne, il concorso a questo punto di riunione degli abitanti di moltissimi circonvicini luoghi, e delle colline pisane per smerciare i prodotti superflui alla loro sussistenza, ed acquistare ciò, che gli manca, forma oggetto di molto lucro per questa terra, onde il suo settimanale mercato del venerdì, rassembla piuttosto una delle grosse fiere di altri paesi.

Grazie al mercato settimanale i mercanti-imprenditori pontederesi disponevano, oltre ai propri fondachi, di un secondo e decisivo mezzo per la commercializzazione delle merci; le due attività erano dunque intimamente legate e il buono o cattivo andamento dell’una si rifletteva in maniera direttamente proporzionale sull’altra.

Proprio la suddetta mancanza di specializzazione professionale si rivelò piuttosto deleteria sia perché, come già accennato, concorse a determinare una lunga stasi del processo evolutivo del settore industriale con il mantenimento di strutture produttive protocapitalistiche come la lavorazione a domicilio sia perché in alcuni casi vi fu un vero e proprio regresso alla condizione di mercante con l’abbandono di qualsiasi velleità produttiva[58].

Insomma mancò quell’“esercizio professionale di un’attività economica” che caratterizza l’imprenditore ai sensi dell’art. 2082 dell’attuale codice civile.

Il quel determinato contesto, il requisito della professionalità poteva essere raggiunto solamente se l’attività imprenditoriale fosse stata continua e non occasionale ma soprattutto l’unica svolta dall’agente.

Altri due grandi punti di riferimento del commercio pontederese erano le due fiere annuali, rinomate per le contrattazioni aventi ad oggetto bestiame ed altri animali; la principale era la fiera che fu istituita nel lontano 1471, detta ancora oggi di S. Luca poiché aveva luogo nel mese di ottobre, per i tre giorni successivi a quella ricorrenza.

Il Vicario Barbacciani nel 1826 credeva che questa fiera fosse:

una delle più belle di Toscana, sia per concorrenza di popolo sia per la grande quantità di bestiami che vi si contrattano, sia finalmente per le granaglie[59]

La seconda fiera, commercialmente meno importante, ma pur sempre molto frequentata, si svolgeva il primo mercoledì e giovedì di agosto nell’ambito delle solenni celebrazioni religiose di S. Faustino, il patrono di Pontedera.

Da ultimo bisogna ricordare anche il mercato dei bozzoli nato nella prima metà dell’Ottocento e attivo fino agli inizi del nostro secolo: il suo volume di affari era tale da attirare perfino i manifatturieri delle province di Lucca, Siena e Firenze

Nel settore agricolo, rispetto a quello commerciale, c’era decisamente un minore impiego di uomini e di mezzi; non a caso il Vicario Comparini riferendosi alla popolazione di Pontedera scriveva che:

Tra i suoi abitatori non contandosi che uno scarsissimo numero di possidenti territoriali e questi di non ampia estenzione, ha dovuto la maggior parte rivolgersi al commercio per provvedere ai proprj bisogni...[60]

Perciò, in una situazione di generale arretratezza tendevano a prevalere le colture destinate all’autoconsumo favorite dalla diffusione di obsoleti patti di mezzadria, i quali vennero meno solo nei primi anni del Novecento; le innovazioni tecniche più recenti erano sconosciute e mancava qualsiasi impulso per l’organizzazione di uno sfruttamento intensivo dei terreni coltivabili, la cui estensione, per verità, era piuttosto modesta rispetto a tutto quanto il territorio della comunità[61].

In tali poderi, in gran parte di proprietà di pochi e indolenti latifondisti che appartenevano alle più prestigiose famiglie pisane e fiorentine[62], venivano coltivati il grano, il granturco, la vite e, in minore quantità, l’olivo e il baco da seta.

Era presente anche un ristretto numero di medi proprietari terrieri autoctoni tra i quali vi erano alcuni la cui attività rurale era svolta a latere di quella principale; infatti erano quegli stessi ‘bottegai’ di cui sopra[63], troppo pavidi per rischiare degli investimenti per una trasformazione in senso capitalistico delle loro piccole aziende e che a maggior ragione non avrebbero potuto impiantare un’efficiente impresa agricola.

Per tutte le ragioni su esposte, sembra appropriato considerare Pontedera il risultato dello sviluppo della sua “vocazione naturale” di “centro di scambi commerciali e di produzione di beni materiali e di servizi”[64].

Ma, come appena messo in luce, per buona parte dell’Ottocento la piccola borghesia locale preferì ‘accontentarsi’ adagiandosi sullo sfruttamento di tale “rendita di posizione”[65], piuttosto che uscire dagli angusti confini della bottega per abbandonare finalmente la figura ibrida del commerciante-industriale[66] e cogliere l’occasione non solo per una modernizzazione capitalistica dei fattori di produzione ma anche per affermarsi in modo più consapevole e autoritario come classe dirigente e per ricompattarsi omogeneamente evitando quelle frequenti discordie al proprio interno, motivate sostanzialmente dalla difesa dei propri (modesti) affari, che ne caratterizzarono a lungo la storia politica[67]: al momento dell’inserimento nello stato unitario il ceto dei commercianti fu uno dei principali protagonisti della storia locale dato che alle prime elezioni amministrative dopo la cacciata dei Lorena, quelle per il rinnovo dei consiglieri comunitativi, i soggetti esercitanti attività legate alla produzione o allo scambio di beni e di servizi conquistarono ben 10 posti sui 22 disponibili[68].

Infine si deve rimarcare che al livello del potere centrale, la classe dirigente, rappresentante degli interessi della grande proprietà terriera, non conduceva una politica tesa ad incoraggiare le manifatture ed il processo di industrializzazione:preferiva considerare l’agricoltura come fonte primaria e quasi esclusiva del benessere economico.

Sotto questo punto di vista l’arretratezza era palese (anche se parzialmente ‘giustificata’ dalla presenza di questa forte lobby di ‘agrari’): alla metà del secolo scorso la dottrina dei fisiocratici non era più sufficiente per guidare la politica economica di uno stato così come non bastava mantenere o ritoccare le ‘sacre’ riforme di Pietro Leopoldo (come il libero commercio) proprio perché basate su quelle teorie settecentesche ormai superate[69].

Tutto ciò, oltre a causare il rallentamento per un moderno processo di industrializzazione, spiega anche come mai nelle carte di archivio consultate non vi sia traccia di organizzazioni operaie, nemmeno allo stato embrionale[70].

 



[1] A. MARONGIU, Storia del diritto italiano, Milano, 1978, p. 420.

 

[2] F. PESENDORFER, La Toscana dei Lorena, Firenze, 1987 p. 191.

 

[3] F. LEONI, Storia della controrivoluzione in Italia, Napoli, 1975 p. 159.

 

[4] Civiltà Cattolica, Serie IX, vol. X, 20 aprile 1861, pp. 194 - 212.

 

[5] I volontari o centurioni pontifici costituivano una setta di moderni crociati avente lo scopo di difendere il papa e l’ortodossia cattolica: secondo un loro manifesto uscito il 23 ottobre 1832 costoro “si collegavano d’inviolabile giuramento di vendicare, con le armi alla mano, la religione iniquamente offesa, il Sommo Pontefice iniquamente tradito ed oltraggiato, la loro pace turbata, le loro sostanze manomesse”. (C. TIVARONI, L’Italia durante il dominio austriaco, Torino-Roma, 1894, pp. 225-228). Sempre il Tivaroni, riportando uno studio precedente, afferma che “i Centurioni furono reclutati tra i facchini... la gente di campagna andava ad iscriversi a gara... uomini di bestiale ferocia, pronti alle risse ed al sangue... scellerata genia che... provoca, batte, ferisce, talvolta uccide e sempre a man salva, coloro che ella dice liberali, frammassoni, carbonari”.

 

[6] R. P. COPPINI, Il Granducato di Toscana. Dagli anni francesi all’Unità, Torino 1993, p. 247.

 

[7] Secondo A. Gramsci, l’ “Antologia” costituì “un centro di propaganda intellettuale per l’organizzazione e la condensazione del gruppo dirigente della borghesia italiana del Risorgimento”. A. GRAMSCI, Il Risorgimento,  Einaudi, Torino, 1964, p. 155.

 

[8] Per un’analisi più esauriente si veda M. DA PASSANO, La pena di morte nel Granducato di Toscana (1786- 1860), in MSCG, XXVI/1, 1996, pp. 39 - 66. Sul punto specifico della codificazione penale si veda ancora M. DA PASSANO, La codificazione penale nel Granducato di Toscana (1814-1860)  presentazione alla ristampa anastatica de il Codice penale pel Granducato di Toscana, Padova, 1995.

 

[9] Dopo il 1815 la pena di morte fu eseguita solo due volte, nel 1820 e nel 1830; così, quando durante i moti del ‘48 fu bruciata la ghigliottina sul greto dell’Arno, questa macchina “giaceva oziosa” da 18 anni come ricorda G. BALDASSERONI, Leopoldo II Granduca di Toscana e i suoi tempi, Firenze, 1871, p. 258.

 

[10] Ibidem, pp. 476 - 477.

 

[11] All’art. 13.

 

[12] B. PAOLI, Discorso preliminare  in F. FORTI, Raccolta di conclusioni criminali,  Firenze, 1864, p. 18.

 

[13] A. BARETTA, Le società segrete in Toscana nel 1° decennio dopo la Restaurazione, Torino, 1912, pp. 15-16.

 

[14] R. P. COPPINI, Il Granducato di Toscana, cit.p. 254.

 

[15] G. MONTANELLI, Memorie sull’Italia e specialmente sulla Toscana,  Torino, 1853.

 

[16] R. P. COPPINI, Il Granducato di Toscana, cit.p. 402.

 

[17] G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, Bologna, 1976, p. 547.

 

[18] Sull’argomento si veda F. MANTOVANI, Pregi e limiti del codice penale toscano del 1853, presentazione alla ristampa anastatica de il Codice penale pel Granducato di Toscana, Padova, 1995.

 

[19] L. LUCCHINI, Sull’antico progetto del nuovo Codice penale italiano. Considerazioni generali, in “Rivista Penale”, 15, VIII, 1881, p. 458.

 

[20] Sui lavori preparatori del codice Zanardelli e sulla cultura penale del periodo post-unitario si veda M. SBRICCOLI, La penalistica civile  in Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, Bari, 1990.

 

[21] G. BALDASSERONI, Leopoldo II, cit.pp. 125 - 126.

 

[22] Ibidem,  p. 128.

 

[23] Quando nel 1737 morì Giangastone de’Medici, il Granducato (inserito come ‘merce di scambio’ in un complesso meccanismo di sovrani da soddisfare e di stati da assegnare) passò a Francesco Stefano, marito di Maria Teresa d’Asburgo e in precedenza, duca di Lorena. Furono nominati reggenti reggenti Marc Beauvau principe di Craon e Deodat Emmanuel conte di Nay-Richecourt. La situazione dello stato era disastrosa: giustizia inefficiente, finanze pubbliche disastrate, commercio improduttivo, alta criminalità ed enorme potere temporale da parte dei vescovi. Per completezza si veda F. DIAZ, La reggenza  in Il Granducato di Toscana. I Lorena dalla reggenza agli anni rivoluzionari, Torino, 1997, pp. 3 - 35.

 

[24] Per la nozione si veda U. SANTARELLI, L’esperienza giuridica basso medievale, Torino, 1980, p. 48, secondo il quale l’esperienza giuridica costituisce uno schema interpretativo avente il compito di ordinare “il multiforme insieme dei dati che la vita giuridica offre... nel quale - accanto alle norme, di cui riscopre l’autentico processo genetico, e all’ordinamento, di cui pone in luce il nesso costante con la realtà ordinata - trovano la loro precisa e coerente collocazione tutti quei momenti più squisitamente soggettivi che assai difficilmente potrebbero essere messi in adeguato risalto entro i più rigidi schemi ricostruttivi offerti dalla norma e dall’ordinamento”.

 

[25] Cfr. U. SANTARELLI, L’esperienza giuridica basso medievale, cit.

 

[26] Nei primi anni quaranta pareva addirittura possibile che Vincenzo Gioberti fosse chiamato all’università di Pisa per ricoprire la cattedra di filosofia morale.

 

[27] Al processo, che si concluse nel 1853, Guerrazzi insieme a Petracchi e Valtancoli da Montazio ricevette il trattamento più duro in quanto gli fu inflitta la pena dell’ergastolo, commutata da Leopoldo in esilio dal Granducato a condizione (non osservata) che non dimorasse in alcuna parte d’Italia. Precedentemente il Guerrazzi aveva subito altri processi, terminati con miti condanne; valga ad esempio l’ episodio relativo ad un tentativo di insurrezione del 1833 che è riportato da  R. P. COPPINI in Il Granducato di Toscana, cit.p. 347: “furono arrestati Salvagnoli, ancora Guerrazzi, l’abate Enrico Contrucci, Luciano Salle, l’avvocato Angiolini, il conte Alamanno Agostini della Seta, Carlo Bini, Luigi Minutelli. Il trattamento carcerario dei congiurati è indicativo del clima toscano, in cui predominava ancora un lassismo fossombriano... la somministrazione dei pasti era buona, gli ambienti di reclusione decenti, alcuni potevano ricevere la moglie o il vescovo, e dopo tre mesi quasi tutti i condannati furono liberati”.

 

[28] G. BALDASSERONI, Leopoldo II, cit p. 392.

 

[29] Ibidem, pp. 392 - 393.

 

[30] Anche in Toscana vi erano esponenti di questa diffusa corrente di pensiero: infatti, a parere dello Zobi, il principe Rospigliosi, ministro plenipotenziario di Ferdinando III avrebbe desiderato “l’abrogazione immediata, netta e completa di tutto quanto era stato fatto da’ governi succedutisi dal 25 marzo 1799 in poi”. Cfr. A. ZOBI, Storia civile della Toscana dal MDCXXXVII al MDCCCXLVIII,  Firenze, 1850-52, IV p. 27.

 

[31] A. AQUARONE, Aspetti legislativi della Restaurazione in Toscana  in Rassegna Storica del Risorgimento, 1956, p. 10.

 

[32] F. PESENDORFER, La Toscana dei Lorena, cit.p. 190.

 

[33] M. MONTORZI, Giustizia in Contado. Studi sull’esercizio della giurisdizione nel territorio pontederese e pisano in età moderna, Firenze, 1997, p. 18.

 

[34] Ibidem, p. 19.

 

[35] G. SALVEMINI, Il Risorgimento. Lezioni universitarie, Firenze, 1950; ora anche in ID. Opere, II, Scritti sul Risorgimento,  a cura di P. Pieri e C. Pischedda, Milano, 1961 p. 475.

 

[36] Non essendo questa la sede per un approfondimento, giusto per avere un’idea dell’importanza della rammentata riforma si veda G. CAPPONI, Risposta a diverse informazioni richieste dal Vieusseux intorno al sistema municipale toscano dall’ arrivo di P. Leopoldo (1765) fino al 1837,  in Scritti inediti,  Firenze, 1957. Alle pp. 316-317 il Capponi descrive la situazione della giustizia prima dell’arrivo di Pietro Leopoldo: l’elezione dei magistrati sarebbe dovuta avvenire con la imborsazione ma sovente il principe disattendeva questa pratica e nominava altri individui, suoi favoriti o che, come era prassi negli stati di Ancien Regime, avevano comprato la carica. Ne derivava un sistema clientelare che si moltiplicava in tutti i minuscoli anfratti del potere estinguendo “lo spirito pubblico” e producendo “altro che disordine, abusi e concussioni e servitù maggiori”. Si veda anche M. MONTORZI, Pontedera e le guerre del Contado. Una vicenda di ricostruzione urbana e di instaurazione istituzionale tra territorio e giurisdizione, in Giustizia in Contado, cit.pp. 83-89, e sempre dello stesso autore, I giudici che applicarono la leopoldina. (Un tentativo di prosopografia e statistica giudiziaria)  ora pubblicato come Dentro gli archivi giurisdizionali: uomini, modi e forme della giustizia criminale. Un primo tentativo di statistica e di prosopografia giudiziaria nel Vicariato di Pontedera, anch’esso in Giustizia in Contado, cit. p. 209 nota 16.

 

[37]   M. MONTORZI, “Dispotismo di provincia” e governo del territorio. Pontedera alla fine del ‘700 in due relazioni ministeriali del Vicario Luigi Comparini, in Giustizia in Contado, cit.pp. 253-288.

 

[38] Il privilegium, nel diritto pubblico romano assunse il significato di “legge relativa a singoli soggetti (privi)  o singole categorie di soggetti, anche a loro sfavore”. (G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, 1991, Torino p. 216).

 

[39] Questo pare essere un dato storico costante, per lo meno a partire dal Cinquecento come è documentato da M.MONTORZI in Pontedera e le guerre del Contado, cit.

 

[40] Precisamente gli abitanti erano 3730 ( di cui 2636 nella sola Pontedera) nel 1745 e 5874 nel 1803 (4168 a Pontedera). Fonti: E. REPETTI, Dizionario geografico, fisico e storico della Toscana, contenente la descrizione di tutti i luoghi del Granducato, Ducato di Lucca, Garfagnana e Lunigiana,  Firenze, 1833-6 e ASFI, Regia Consulta,  880.

 

[41] Relazione sul Vicariato di Pontedera del Vicario Luigi Comparini del dì 15 Luglio 1794  (ASFI, Segreteria di Gabinetto, 316, ins. 9).

 

[42] M. MONTORZI, Mendicanti ed incettatori nel Vicariato di Pontedera. Una crisi di transizione sociale, in Giustizia in Contado, cit.pp. 169-179.

 

[43] M. MONTORZI, “Dispotismo di provincia”, cit.p. 255.

 

[44] ASFI, R. Consulta,  2738.

 

[45] Sul topos  della “città” o “piccola città” e le sue implicazioni sociali e giuridiche si veda M. MONTORZI, “Dispotismo di provincia”, cit.pp. 262-268.

 

[46] G. TARGIONI TOZZETTI, Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana per osservare le produzioni naturali e gli antichi monumenti di essa,  Firenze, 1768, p. 89.

 

[47] E. REPETTI, Dizionario geografico, fisico, cit. vol. IV, p. 526.

 

[48] Relazione sul Vicariato di Pontedera del Vicario Luigi Comparini del dì 1° Giugno 1795  (ASFI, Segreteria di Gabinetto, 316, ins. 22).

 

[49] E. REPETTI, Dizionario geografico, fisico, cit.p. 531.

 

[50] Ibidem, p. 530.

 

[51] Ibidem, p. 531.

 

[52] Erano: la strada Regia postale Livornese che “passa da levante a ponente in mezzo al lungo e ampio borgo di Pontedera” (E. REPETTI, Dizionario geografico, fisico e storico della Toscana, cit.p. 530),  la strada provinciale della Valdera, la via per la Valdinievole e la via Francesca collegante Pisa a Firenze.

 

[53] Un attento studioso della realtà pontederese di quegli anni ha scritto che “la costruzione della ferrovia... esaltò la centralità di Pontedera sia in relazione alla Valdera che alla pianura pisana e le consentì di procedere ad un più intenso sviluppo economico”. (R. CERRI, Pontedera tra Ottocento e Novecento,  in Immagini di una provincia,  Pisa, 1993, I, p. 259.)

 

[54] V. supra, I.5. Inoltre, sulla nascita, l’evoluzione e la crisi delle manifatture pontederesi nel periodo a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento si veda M. MONTORZI, Appunti per una storia del commercio e delle manifatture di Pontedera agli inizi dell’ età contemporanea, in Giustizia in Contado, cit.pp. 183-188.

 

[55] R. CERRI, Pontedera tra cronaca e storia 1859 - 1922, Pontedera, 1982. Sempre il Cerri in Pontedera tra Ottocento e Novecento, cit. pp. 272-273, sottolinea che “ il mercante pontederese diventava anche imprenditore... nel momento in cui si recava a Livorno e nella Romagna a comperare il lino, la lana e la canapa (insieme ai tessuti già finiti); faceva lavorare le materie prime a domicilio dai battilana, dagli scotilino, dalle tessitrici e dai tintori; ritirava il materiale ormai trasformato in pezze e in tele e lo immagazzinava nei propri fondachi, per poi rivenderlo sui mercati dell’area pisana, a Livorno o nella Lucchesia”. Cfr. poi M. MONTORZI, Appunti per una storia del commercio, cit.p. 181, dove l’espressione “mercante-imprenditore” è sostituita da “mercante-manifatturiere”; se concettualmente non ci sono variazioni trattandosi di sinonimi, dal punto di vista strettamente giuridico l’espressione pare più consona.

 

[56] Infatti, una vera e propria ‘rivoluzione industriale’ si ebbe solo alla fine dell’Ottocento quando avvenne “la concentrazione di grandi quantità di manodopera all’interno di pochi stabilimenti e l’introduzione di macchine tecnologicamente progredite”. (Cfr. R. CERRI, Pontedera tra Ottocento e Novecento,  cit.p. 265.)

 

[57] Nel 1767, in tema di libera esportazione dei grani, Pietro Leopoldo volle considerare come indice valido per l’intera Toscana proprio il prezzo praticato sui mercati di Pisa e di Pontedera. (Cfr. M. MONTORZI, Mendicanti ed incettatori, cit.p. 169).

 

[58] È stato sottolineato che “a partire dagli ultimi decenni del secolo XVIII, si manifesta sempre più decisa una crisi di liquidità di certe aziende pontederesi, che è forse alla base del loro arretramento sul piede più tranquillo di un’economia di bottega, ove non sono imposti al manifatturiere forti esborsi di capitale. Segno evidente di tale crisi saranno le non poche procedure esecutive ed i fallimenti cui tra non molto saranno assoggettati i mercanti ed i bottegai pontederesi”. ( M. MONTORZI, Appunti per una storia del commercio, cit.p. 190, nota 19).

 

[59] ASFI, Notizie compendiate della storia fisica e politica di Pontedera compilate a cura del Vicario regio Barbacciani nell’ anno 1826.

 

[60] Relazione sul Vicariato di Pontedera del Vicario Luigi Comparini del dì 1° Giugno 1795, cit.

 

[61] Non superava i tremila ettari.

 

[62] Tra questi: Niccolini, Mastiani-Brunacci Riccardi, Strozzi, Alamanni, Franceschi, Samminiatelli, Capponi, Pucci.

 

[63] Ancora il Cerri nota che “quasi tutti i proprietari delle fornaci erano anche proprietari terrieri”. ( R. CERRI, Pontedera tra Ottocento e Novecento,  cit.p. 265).

 

[64] Le definizioni appartengono a R. CERRI e si trovano in Pontedera tra cronaca e storia 1859-1922, cit.

 

[65] M. MONTORZI, Appunti per una storia del commercio, cit. p. 182.

 

[66] Il Cerri afferma che “quella pontederese non fu... una borghesia ‘illuminata’ “ perché troppo “attenta al suo interesse particolare, sorniona”. (R. CERRI, Pontedera tra cronaca e storia, cit.).

 

[67] Si veda G. MORI, L’industria del ferro in Toscana dalla Restaurazione alla fine del Granducato (1815-1859),  Torino, 1966 e, dello stesso autore, Osservazioni sul libero-scambismo dei moderati nel Risorgimento  in Studi di storia dell’industria,  Roma, 1976, pp. 29-41).

 

[68] Otto consiglieri erano definiti genericamente negozianti; a questi si aggiungevano un caffettiere e un legnaiolo. Gli altri dodici consiglieri erano 7 “possidenti” (presumibilmente con questo termine si voleva indicare i proprietari terrieri), 2 medici, 2 ingegneri e un notaio. Nelle vicine comunità di Cascina, Capannoli e Palaia invece furono eletti soprattutto “possidenti”. (Cfr. ASPI, Delegazione di Pontedera,  41, Carteggio della prefettura ).

 

[69] Una classe operaia si sarebbe formata solo nella seconda metà del secolo; infatti, con la costituzione dei grandi opifici  si avranno le prime rivendicazioni salariali organizzate (limitatamente al settore tessile) come quelle del 1867. Sull’argomento si veda E. CACIAGLI, Le industrie del Comune di Pontedera dall’Unità d’ Italia fino alla prima guerra mondiale, Pisa, 1974.

 

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