CAPITOLO
II
II.1. Una nuova organizzazione territoriale.
In
Toscana, negli anni documentati dalla ricerca d’archivio, e cioè alla fine del
regime granducale, non esisteva più la vecchia figura del vicario regio avente
la giurisdizione civile sul proprio territorio e la criminale anche sul
territorio delle potesterie comprese nel vicariato stesso: infatti una legge
emanata il 9 marzo 1848 aveva provveduto a rinnovare e separare le competenze
amministrative e giurisdizionali dei funzionari locali.
Innanzi
tutto l’art. 2 soppresse esplicitamente vicariati e potesterie; poi il
territorio del Granducato fu diviso nei sette compartimenti di Firenze, Lucca,
Pisa, Siena, Arezzo, Pistoia e Grosseto (art. 4); i compartimenti a loro volta
vennero divisi “agli effetti governativi e giudiciarj” in circondari e preture
e “agli effetti amministrativi ed elettorali” in distretti e comunità (art. 8)[1].
In secondo
luogo, ciascun ente aveva la propria figura istituzionale di riferimento: un
prefetto (con relativo consiglio di prefettura) stava a capo di ciascun
compartimento, un sotto-prefetto risiedeva in ogni circondario “ove non sia residenza
di Prefettura”, un pretore per ogni pretura, un ministro del censo per ogni
distretto e un gonfaloniere per ogni comunità.
Fu anche
decretato di istituire dei delegati di governo nelle città di Firenze, Livorno,
Lucca, Pisa, Siena, Arezzo, Pistoia, Prato, Cortona e Pescia per la risoluzione
degli affari di polizia.
Le cariche
non erano elettive bensì questi uomini erano nominati dal Granduca in persona.
La
creazione dei delegati di governo fu particolarmente rilevante e segnò un
momento fondamentale nel processo di rinnovamento della polizia toscana, la cui
efficienza era stata una delle maggiori preoccupazioni dei Lorena fino dai
tempi di Pietro Leopoldo.
A dire il
vero non si trattò di una autentica novità,
ma piuttosto il recupero e la valorizzazione di una carica già istituita da
alcuni mesi nell’ambito di “eccezionali provvedimenti” relativi alla città di
Livorno “per ristabilirvi il buon’ordine”: infatti il Motuproprio del 26
novembre 1847 emanato dal Granduca per sedare i “gravi disordini che hanno
recentemente turbato in Livorno la pubblica tranquillità” istituì nella città
labronica una “Commissione Governativa composta del governatore Locale... e di
due Assessori Legali per esercitare... le attribuzioni della Polizia preventiva
e repressiva” alle cui dipendenze stavano due Delegati di Governo, uno per ogni
Circondario cittadino[2] .
Esaminando
gli articoli di questa legge, sembrerebbe che i delegati fossero circondati da
un alone di precarietà poiché l’eccezionalità dell’intero provvedimento fu
ribadita asserendo che questo sarebbe rimasto in vigore “fino alla vicina
pubblicazione del nuovo Regolamento Organico della Polizia” e in particolare
l’istituzione dei delegati stessi nei circondari di S. Marco e di S. Leopoldo
era ivi qualificata per mezzo dell’avverbio “provvisoriamente”.
Le
competenze dei delegati secondo questa legge erano quelle di:
... invigilare al
buon’ordine ed alla pubblica e privata tranquillità e sicurezza, avendo
particolarmente in vista le persone turbolente, vagabonde e sospette, e facendo
uso a loro riguardo ove occorra, di precetti frenativi e altri provvedimenti,
l’applicazione de’quali entra nei poteri de’Giusdicenti Provinciali. Essi
adempiranno altresì tutte le funzioni di Polizia Giudiciaria per lo scoprimento
dei delitti, e de’loro autori...
Dunque, i
delegati avevano sia compiti preventivi, sia coercitivi ed in particolare, la
punizione più severa che poteva essere da loro irrogata era rappresentata dal
carcere fino ad un massimo di tre giorni; contro queste pronunce era ammesso il
ricorso alla commissione governativa entro tre giorni dalla notificazione,
mentre riguardo alle questioni procedurali la legge si limitava ad osservare
che i delegati avrebbero dovuto agire “previe le debite verificazioni e
contestazioni”.
Infine,
l’art. 11 testimoniava la permanenza della antica organizzazione dei
giusdicenti provinciali nei quali erano riunite le attribuzioni giudiziarie e
di polizia, creandosi, allora, una parziale sovrapposizione di discipline
normative.
Disponeva
questo articolo che:
Il Vicario R. di Rosignano
eserciterà le sue incombenze di Polizia nella propria giurisdizione Vicariale
colle medesime forme stabilite per i Delegati di Governo de’Circondarj di S.
Marco, e di S. Leopoldo di Livorno: e dalle di lui risoluzioni sarà ammesso
ugualmente il ricorso alla Commissione Governativa di quella Città.
La legge
del 26 novembre 1847, pur nella sua eccezionalità, rappresentò il naturale prodromo ai provvedimenti del 1848 ed
insieme a questi una tappa fondamentale in quel processo di svecchiamento
dell’organizzazione toscana non solo della polizia ma anche del sistema
giudiziario tout court.
D’altronde
in questo periodo avvenne un fatto che dovette necessariamente costringere il
governo granducale ad un radicale ripensamento all’interno di un apparato di
potere ormai consolidato: la soppressone della Presidenza del Buongoverno
ottenuta dai nuovi ministri Serristori e Ridolfi dietro la insistente pressione
di certa stampa liberale che a questo proposito da diverso tempo “aveva
riprodotto il motto storico est delenda
Carthago” [3].
Come è
noto la carica di Presidente del Buon Governo era stata creata da Pietro
Leopoldo con il motuproprio del 6 aprile 1784 con l’intento di creare una
sovraintendenza su tutti gli affari di polizia e di separare almeno a livello
di alta amministrazione[4] le competenze di
polizia da quelle più propriamente giudiziarie che da quello stesso
provvedimento furono affidate al Presidente del Supremo tribunale di giustizia[5].
La permanenza
della carica di Presidente del Buongoverno alla metà del secolo scorso era
vista con sfavore dai liberali toscani perché, perpetuando quella occhiuta
politica del sospetto inaugurata proprio dal grande riformatore Pietro
Leopoldo, rappresentava un residuo storico da eliminare al più presto.
Così, in
un momento particolarmente caldo della storia del Granducato, i portatori della
istanza abolizionista ebbero buon gioco e la Presidenza del Buon Governo fu
sostituita da una Direzione di Polizia, “la quale entrava fra le divisioni del
Ministero dell’Interno accrescendogli imbarazzi, responsabilità ed odiosità”[6].
Ecco che,
conseguito questo risultato, e forti delle esperienze condotte sul territorio
livornese, i riformatori toscani cercarono con la legge del 9 marzo 1848 di
dare un assetto stabile all’ordinamento dell’amministrazione e della giustizia
focalizzando l’attenzione sul decentramento territoriale.
Per cui la
Direzione Generale di Polizia, tanto criticata dai conservatori, fu soppressa,
ma “le alte attribuzioni di Polizia amministrativa” rimasero “concentrate nel
Ministero dell’Interno”.
E’ stato
accennato che questa legge provvide a separare le funzioni amministrative da
quelle giudiziarie e a suddividere il territorio in base a questi criteri, ma
probabilmente è più corretto affermare che se le intenzioni erano quasi
sicuramente quelle, il risultato, invece, non fu del tutto all’altezza delle
premesse.
Infatti a
prima vista si può affermare che il tanto deprecato cumulo di competenze che
faceva capo agli antichi vicari regi fu scomposto e i poteri così separati
furono affidati ai delegati di governo (potere di polizia) e ai pretori (potere
giudiziario), ma ad un esame più approfondito si scopre un intreccio e un
sovrapporsi di quelle medesime competenze nelle medesime persone.
A questo
proposito conviene riportare le norme relative al titolo V rubricato “facoltà e
doveri dei pretori” e quelle del titolo VI denominato “facoltà e doveri dei
Delegati di Governo”:
Art. 42. Ogni Pretore nel
territorio della sua Pretura è
1. Giudice ordinario minore civile e criminale.
2. Uffiziale di Polizia giudiciaria.
3. Uffiziale di Polizia amministrativa dovunque
non risiede un
Delegato di Governo.
... (Omissis).
Art. 43. Come giudice
civile e criminale, e come Uffiziale di polizia giudiciaria, il Pretore dipende
dalle superiori autorità dell’ordine giudiciario. Come Uffiziale di Polizia
amministrativa dipende immediatamente dal Capo del Governo del Circondario...
... (Omissis).
Art. 45. ... ove non
risiede un Delegato di Governo come uffiziale di Polizia amministrativa, il
Pretore si adopra per mantenere la pubblica e privata tranquillità, e
sicurezza, esercitando la più esatta vigilanza sopra le persone e luoghi
sospetti.
Art. 46. Ogni Delegato di
Governo è
1. Uffiziale di
polizia giudiciaria.
2. Pubblico
Ministero nelle cause criminali la cui cognizione spetta al Pretore.
3. Uffiziale di
Polizia amministrativa.
Art. 47. Il Delegato di
Governo, in quanto è uffiziale di Polizia giudiciaria, ed esercita funzioni di
Pubblico Ministero dipende dalle superiori Autorità dell’ordine giudiciario; in
quanto è uffiziale di Polizia amministrativa dal capo del Governo del
Circondario.
Successivamente
un decreto del 31 marzo seguente, ribadendo l’esigenza del “definitivo
ordinamento della Polizia” completò lo scarno disposto del titolo VI della
legge del 9 marzo estendendo le “attribuzioni conferite ai Delegati di Governo
di Livorno, istituiti colla Legge de’26 Novembre 1847, e che rimangono fermi”
ai “Delegati di Governo ora posti in attività in Firenze; non meno che ai
Direttori degli Atti criminali di Pisa e di Siena, ai Commissarj Giusdicenti
del già Ducato di Lucca, ai Vicari Regj, ed ai Pretori che siano loro sostituiti”.
Come si
può notare era atteso al più presto un nuovo intervento chiarificatore del
legislatore che, dopo averle dettagliatamente elencate, attribuisse ad organi
realmente distinti le competenze della polizia e quelle della giustizia
criminale ordinaria.
Per
completare l’opera riformatrice, cioè, erano necessari un regolamento di
polizia ed uno per la procedura penale che si dividessero le mansioni e si
compenetrassero a vicenda.
Nel 1847,
l’avvocato Bartolommeo Fiani, nella prefazione all’opuscolo Sulla riforma della polizia in Toscana, si fece portavoce di questa istanza
generalizzata di rinnovamento della materia e dopo avere ricordato che “il
Granduca Pietro Leopoldo, che con gran verità fu detto il Toscano Licurgo...
ingentilì il primo la polizia”, rammentò il cattivo uso che ne venne fatto
negli anni successivi quando vennero prese “inopportune e mal dirette misure”
sia per la scarsa conoscenza tecnica da parte dei funzionari ad essa preposti,
sia a causa di veri e propri abusi da parte degli stessi.
Si generò
quindi nei toscani una fortissima avversione verso questa istituzione[7], che “per quanto buona
nel suo principio”, divenne “difettosa rimanendo immobile nella mobilità dei
tempi, e delle circostanze”.
E così “la
lodata Polizia del secolo decim’ottavo non poteva esser più rispondente al
secolo di civiltà, e di progresso nel quale viviamo, né aspirare al plauso
della età presente. Necessaria pertanto, comecché reclamata dai tempi, e dai
nuovi bisogni dei Popoli compariva la riforma di questa istituzione”[8].
Finalmente
il tanto auspicato regolamento di polizia fu promulgato il 22 ottobre 1849 e,
esattamente un mese più tardi, fu seguito dalla legge intitolata “della
istruzione dei processi criminali”.
Queste due
leggi, insieme al codice penale e al nuovo regolamento della polizia punitiva
del 1853 avrebbero rappresentato i pilastri fondamentali del diritto criminale lato sensu fino
alla cacciata dei Lorena e avrebbero confermato l’avanguardia di questo
settore, il quale, a partire dalle riforme di Pietro Leopoldo e grazie anche
alle opere dottrinali, dette così tanto lustro al piccolo Granducato da fare
affermare ad un pubblicista del secolo scorso che La France est la Toscane de l’Europe [9].
II.2. Alle radici della polizia: un problema definitorio.
Prima di
analizzare minutamente il regolamento di polizia, rapportandolo alle esperienze
della Delegazione di Governo di Pontedera negli anni a cavallo tra la fine del
Granducato e l’unità d’Italia, si deve ribadire che in quegli anni una
revisione delle attività e dei poteri della polizia si imponeva realmente,
poiché, come appena sottolineato dal passo del Fiani, non era più sufficiente
il vetusto impianto normativo voluto da Pietro Leopoldo, sebbene fosse stato
periodicamente ‘aggiornato’.
Così, la
legge del 1849 acquista una dimensione ancora maggiore nella storia dei
provvedimenti di polizia ed agli occhi dei contemporanei dovette rappresentare
il mezzo per abbattere le vecchie istituzioni di polizia e farle “risorgere
sotto ben diverse forme”[10] più adatte a
quell’epoca.
Non
bisogna poi dimenticare che la legislazione di Pietro Leopoldo in materia di
polizia operò su di un terreno essenzialmente ‘vergine’; il sovrano stesso, non
avendo precedenti normativi[11] da usare come punto di
riferimento dovette documentarsi a fondo analizzando i modelli proposti dalla
dottrina e dalla legislazione di altri paesi[12].
Tuttavia,
una materia in continua evoluzione e così legata alla quotidianità come la
polizia del diciottesimo secolo non poteva essere sperimentata in vitro
od osservata in una data realtà sociale per poi essere applicata universalmente con un sillogismo tipico
dell’età dei lumi: soltanto il trascorrere del tempo e la sussunzione della fattispecie concreta
nel nomen juris dei vari istituti avrebbero dimostrato la
reale rispondenza della normativa alle esigenze della società presa in esame e
avrebbero suggerito gli opportuni temperamenti.
D’altronde,
come è stato opportunamente scritto:[13]
... le funzioni di polizia
sono praticamente ineliminabili in qualsiasi società che sia provvista di un
per quanto semplice ordinamento normativo. Esse si modellano, semmai, sulle
esigenze, sulla capacità operativa, sul livello di organizzazione di quella
società, apparendoci di volta in volta centrali o marginali, più o meno
strutturate, operanti nei fatti o limitate sostanzialmente alla loro previsione
normativa, esercitate nei modi e dagli organi eventualmente previsti dalle
leggi o discendenti de facto dalla attività amministrativa o
giurisdizionale dei poteri che se le arrogano.
Stante
quindi la essenzialità delle funzioni di polizia in un qualsiasi ordinamento
giuridico, si pone un altro problema preliminare, quello definitorio dato che
se in generale si può affermare che ognuno intende “il significato volgare”[14] del concetto di
polizia, da un punto di vista strettamente tecnico, invece, sorgono notevoli
problemi:
... quando poi, scientificamente vogliamo
darne la nozione e la definizione, per esporne il contenuto, ci troviamo di
fronte a difficoltà di ogni ordine logico, che nell’analisi dei singoli
elementi, caso per caso diversi, ma concorrenti a formare la definizione, trovano radice e causa[15].
Riguardo
poi alla esperienza toscana del periodo preso in esame le difficoltà aumentano,
in quanto si trattava di un quid ancora in bilico fra i poteri amministrativi e
quelli giurisdizionali che doveva scontare la relativa ‘novità’ dell’uso del
termine stesso e delle riflessioni dottrinali che peraltro, come appena visto,
si erano svolte in primo luogo all’estero, generandosi la necessità di una
rielaborazione di questi modelli teorici.
Se
scorriamo i più importanti dizionari dell’età moderna, il termine ‘polizia’ non
compare nel Dizionario della Accademia della Crusca del 1612, mentre è presente
nell’edizione del 1732 con il significato di “politezza, contrario di
sporcizia”; così fino al diciottesimo secolo resta “parola colta, appartenente
a linguaggi specifici, percepita dai puristi come un grecismo... per designare
l’organizzazione razionale dell’ordine pubblico ed il governo politico che
persegue questo fine”[16].
E per
qualificare il contenuto del termine ricorsero alla tutela dell’ordine pubblico
sia il Dizionario Tommaseo-Bellini edito nel 1869, il quale sentenziava che “la
maggiore e migliore parte della popolazione ignora cotesto grechismo”[17], sia il Rezasco secondo
cui “Polizia vuol dire l’ordine, col quale si governa una città, e sono
amministrate le comuni sue bisogne”[18].
Tornando
alle esperienze straniere, si deve necessariamente ricordare che il gran lavoro
dottrinale svolto all’estero sta alla base di un certo modo di intendere la
polizia e della relativa evoluzione: quindi le riflessioni svolte dalla
cameralistica tedesca, ad esempio, svelano una delle possibili ‘polizie’[19].
Infatti,
pur ponendosi questi studi alle radici dell’aspetto in esame e dettandone le
coordinate fondamentali, si deve sempre tenere presente la loro specificità (e
anche la diacronicità) rispetto
all’oggetto peculiare dell’indagine, il funzionamento di un ufficio di polizia
ai tempi di Leopoldo II; ecco perché ai nostri fini vanno accettati cum grano salis.
A questo
proposito è da osservarsi con Paolo Napoli che:
Polizia è
un nome che ha un impiego euristico oramai convenzionale per la storia delle
idee politico-giuridiche, ma i suoi referenti in una certa epoca possono
variare con i contesti territoriali e non è detto che le trasformazioni siano
sincronizzate in tutta Europa. Isolare apoditticamente e universalmente
l’essenza della polizia per poi verificarne la portata empirica
è operazione pregiudiziale che rischia di mancare la realtà.[20]
Ed allora,
tenendo ben presente questo assunto, non si deve cadere nell’errore di
generalizzare il concetto di polizia, banalizzandolo e riducendolo ad enorme
contenitore che può essere riempito a seconda dell’occasione; al contrario è
d’uopo considerare singolarmente le molteplici facce di questo termine
polimorfo.
Nel caso
in questione bisogna concentrare
l’attenzione sull’organizzazione della polizia granducale alla metà del secolo
scorso tramite l’analisi dei materiali normativi a disposizione e lo studio dei
commenti dottrinali, e puntualizzare le specificità inerenti alla dimensione
pratica riportando l’esperienza di una Delegazione di Governo in un lasso di tempo
particolarmente significativo[21].
Solo così
si evita quella ipertrofia universalizzante della nozione che è alla base della
confusione riguardante molti altri vocaboli appartenenti al lessico
storico-giuridico[22].
Ma anche
se, come più volte sottolineato, l’indagine deve essere svolta all’insegna di
quel relativismo giuridico tanto caro a Montesquieu[23], è comunque
indubbiamente utile dare uno sguardo a certi precedenti storici, dispensatori
delle idee cardine della materia, quantomeno per effettuare una
macrocomparazione e per constatare quanti di quei concetti fondamentali
transitarono da un ordinamento all’altro e cosa invece venne modificandosi o
addirittura scomparve sia per il logorio del tempo che rende inutili certi
istituti, sia per l’impossibilità di adattarne altri a certe peculiari realtà
sociali.
II.3. Lo stato di polizia.
La nozione
‘stato di polizia’ fu coniata dai costituzionalisti tedeschi dell’Ottocento
contrapponendo l’ordinamento in cui vivevano (e che fu denominato ‘stato di diritto’)
a quello dei secoli immediatamente precedenti caratterizzato, appunto, da una
eccessiva dilatazione delle funzioni di polizia.
Se non
che, in questa spiegazione, il termine ‘polizia’ acquisiva un significato
particolarmente ampio perché si riferiva a tutto il complesso di strumenti
usati dai vari principi territoriali tedeschi in un disegno di politica
accentratrice per affermare i propri poteri contro le forze sociali[24] tradizionali portatrici di istanze di stampo
particolaristico-medievale.
Questo
termine era stato mutuato dall’esperienza francese: qui infatti nelle varie ordonnances dei sovrani (specialmente quelle emanate tra i secoli XIV e XVI)
la police aveva assunto il significato di “misure d’ordine o
provvedimenti diretti ad assicurare la pubblica tranquillità, o il comune
benessere, con atto d’impero della pubblica Autorità, ma aventi contenuto
strettamente proibitivo”.[25]
Così
questa accezione lata del vocabolo conduce l’interprete contemporaneo ad
assimilarla a concetti quali ‘ragione di stato’, o ‘politica’, oppure
‘amministrazione’.
Le
ordinanze emanate dai principi tedeschi avevano due scopi principali: il
mantenimento dell’ordine o “sicurezza pubblica” e il benessere dei sudditi e la
polizia, nelle sue diramazioni di Sicherheitpolizei
[26] prevalentemente
a carattere negativo e di Wohlfahrtpolizei[27] di stampo
“interventista” divenne lo strumento
privilegiato per operare questa sintesi:
Il principe s’ingeriva di
tutto, tutto voleva sapere, regolava le materie più minute, s inframmetteva
persino negli affari privati, non rispettando neppure il santuario della
giustizia, ma sospendendone con regi viglietti il corso, creando tribunali
speciali ed avocando le cause dai legittimi fori... ordinando ai giudici come
dovessero pronunciare, e non peritandosi di punire i magistrati che con nobile
resistenza avessero sentenziato diversamente dal volere del re. I popoli
generalmente vedevano volentieri questa ingerenza del principe, la quale
d’ordinario raddrizzava torti, sosteneva l’equità e impediva le prepotenze dei
grandi; ma di qua trasse origine l’onnipotenza della polizia, che invadeva
spiando lo stesso tetto domestico, violava il segreto delle lettere, e senza
processo incarcerava e confinava i cittadini[28].
Insomma,
si trattava di tipiche manifestazioni di quell’assolutismo illuminato di stampo
pedagogico-paternalista teorizzato dagli scritti di Leibniz e di Wolff e comune
a tutti gli stati germanici e loro ‘affini’ del diciottesimo secolo, dalla
Prussia, all’Austria al Granducato di Toscana di Pietro Leopoldo i quali
tramite questa (seppur benevola) invasione nelle sfere private volevano
“insegnare ai cittadini a vivere virtuosamente, a rispettare le leggi, ad
essere timorati di Dio, a volersi bene tra di loro, ed oltre tutto anche ad essere
sapienti nell’anima e vigorosi nel corpo”[29].
La
creazione di un moderno stato accentrato a scapito dei vecchi equilibri cetuali
e la preminenza data al momento amministrativo - con la nascita della moderna
burocrazia - possono essere riassunti in un’unica nozione, che da sempre si accompagna all’espressione
“stato di polizia”: quella di cameralismo.
Questa
giovane scienza fu ben presto insignita della dignità accademica: le prime
cattedre di “scienze camerali, economiche e di polizia” furono istituite dal re
di Prussia Federico Guglielmo I nel 1727 nelle università di Halle e di
Francoforte sull’Oder per consentire “la formazione di funzionari esperti,
moderni e preparati”[30] e per cercare di
fondere le diverse discipline inerenti alla conduzione di uno stato “in un
corpo integrato e dotato di senso proprio, per mezzo del quale si tentò di dare
una spiegazione meccanica, dall’ interno, del funzionamento della cosa
pubblica, assumendo quest’ultima nella sua dimensione storica concreta dello
Stato di polizia, accentrato e unitario, sempre più istituzionale e superiore
alla figura del sovrano”[31].
Una volta
consolidatasi l’autorità dello stato, però, si verificò il fenomeno opposto,
quello dello specializzarsi delle varie branche, e il nuovo interesse monodisciplinare
alimentò la spinta verso un decentramento delle singole funzioni amministrative
in maniera da essere esercitate nella maniera più efficace e, in definitiva,
determinò il passaggio allo “stato di diritto”.
Così anche
la polizia, ormai staccatasi dall’enorme ed indefinita mole degli affari
riguardanti genericamente la pubblica amministrazione, divenne un settore
autonomo e come tale iniziò ad essere studiato: ne conseguì che questo nuovo
ordinamento delle attività di polizia “impose anche la costruzione di nuovi
saperi ad essa funzionali, rispetto ai vecchi strumentari intellettuali della Jurisdictio” [32].
La nascita
e il declino delle scienze camerali con l’esito finale della separazione della
polizia dalla politica[33], quindi, non solo
rappresentarono una tappa obbligata nella genesi della “polizia”, ma anche un
decisivo fattore accelerante proprio nella storia del pensiero politico,
permettendo il passaggio “dall’antica arte di governo alle moderne scienze
dello stato”.[34]
Tuttavia
va ricordato che, nonostante il proliferare di studi in area tedesca sulla
attività di polizia e sul suo rapporto con la politica, “il modello
organizzativo, operativo e legislativo delle attività di polizia è giunto in
Italia dalla esperienza francese”[35].
II.4. Caratteri generali della ‘nuova’ polizia
toscana.
Verso la
metà del secolo scorso l’attività di polizia aveva ormai una propria rilevanza
e quindi un nucleo autonomo e regole peculiari le quali, però, spesso si
trovavano in bilico tra il potere amministrativo e gli istituti del diritto
penale per cui, nonostante la conclamata specialità della materia, esistevano
figure ‘ibride’ che risentivano ancora della vecchia concezione settecentesca
dell’attività di polizia o che più si addicevano ad un codice penale.
Per
dipanare questa intricata matassa ci si deve addentrare nella ‘nuova’ polizia
toscana, quella che venne ‘rifondata’ sotto Leopoldo II a partire dal
regolamento del 1849.
Innanzi
tutto, leggendo qualche manuale di polizia dell’epoca balza agli occhi come gli
autori tenessero a sottolineare con un certo orgoglio pionieristico, oltre alla
“confusione e alla complicanza della materia”[36], la novità degli studi
intrapresi[37] e denunciassero che sin
da quando Pietro Leopoldo impresse una svolta in senso moderno a questa
istituzione erano mancati scrittori che si fossero interessati specificamente,
“di proposito”,[38] alla polizia[39].
Poi, nelle
fonti consultate accanto al sostantivo “polizia” molto spesso si trovano vari
aggettivi che non sempre sono gli stessi e anche quando lo sono capita che il
senso sia leggermente diverso; inoltre si deve tenere presente che potrebbe
essere fuorviante attribuire il significato moderno a certi termini, per cui
imbattendosi in una data nozione si deve storicizzarla e quindi considerarla
nella sua accezione ottocentesca senza ricorrere a facili (ma solo a prima
vista) paralleli con omonimi istituti contemporanei.
Perciò, la
prima grande distinzione da fare in materia di polizia è quella tra polizia
amministrativa e polizia punitiva dato che questa operazione fu compiuta dal
legislatore toscano nel fondamentale regolamento di polizia del 22 ottobre
1849: infatti, i primi tre articoli contenenti le disposizioni generali sono
dapprima seguiti da un certo numero di norme (artt. 4-53) riferite alla polizia
amministrativa, e secondariamente dalla parte avente l’intitolazione “della
polizia punitrice” (artt. 54-282); completano il documento poche disposizioni
finali e transitorie (artt. 283-285).
Le
“disposizioni generali”, pur se così denominate dal legislatore, si riferiscono
alla sola polizia amministrativa ed enunciano i pubblici funzionari a cui erano
stati affidati i suoi compiti.
L’ art. 1
dispone che:
Le incombenze di Polizia
amministrativa sono esercitate dai Governatori, dai Prefetti e Sotto - Prefetti
e dai Delegati di Governo sotto la direzione del Ministero dell’ Interno.
Il
regolamento, dunque, confermò l’orientamento nato dopo i tumulti popolari di
alcuni anni addietro e, distaccandosi
dalla vecchia normativa settecentesca, preferì affidare le competenze di
polizia al Ministero dell’Interno e sopprimere definitivamente la figura del
Presidente del Buon Governo.
I compiti
dei governatori, dei prefetti e dei sotto prefetti sono descritti nell’art. 4:
1. Pongono ogni cura nel
mantenere e ristabilire la sicurezza, e la tranquillità interna; valendosi
all’uopo della pubblica forza, di cui hanno l’alta direzione.
2. Invigilano ai forestieri
ed al loro movimento.
... (Omissis).
4. Promuovono la
investigazione dei delitti, e delle trasgressioni, e la denunzia, l’arresto e
la pronta consegna all’Autorità Giudiciaria dei delinquenti e dei trasgressori.
... (Omissis).
6. Provvedono alla pubblica
salute, eccitando specialmente l’esatto servizio delle persone che esercitano
qualunque ramo dell’arte salutare, e le professioni, che hanno relazione con
essa; e procurano la esatta osservanza di tutte le leggi interessanti la
pubblica salute.
7. In generale curano
direttamente e per mezzo dei Ministri dependenti la osservanza del presente
Regolamento, e d’ogni altra Legge e Regolamento interessante la pubblica
sicurezza, moralità e prosperità...
Mentre
l’art. 6 relativo alle “attribuzioni dei Delegati di Governo” si limita ad
aggiungere che:
I Delegati di Governo nella
qualità di Uffiziali di Polizia amministrativa, coadiuvano ciascuno nel
perimetro territoriale affidato alla immediata sua vigilanza i Governatori, i
Prefetti, e i Sotto-Prefetti nell’esercizio delle incombenze relative, ed eseguiscono
gli ordini che da essi ricevono.
Tutto ciò,
a prima vista, accadde garantendo una sfera di autonomia alla funzione di
polizia, in modo tale che non fosse fagocitata dal potere giudiziario e
compiendo un ulteriore passo in avanti rispetto alla legge del 9 marzo del
1848, la quale aveva cercato di porre un freno ai poteri dei Vicari, sia in
materia di giustizia ordinaria che di polizia, trasferendo queste funzioni a
soggetti diversi[40].
Ma,
esaminando l’articolo secondo ci si accorge che la soluzione prospettata non
era così lineare:
Le Autorità di Polizia
amministrativa istituite soltanto per prevenire i delitti e le trasgressioni
non hanno competenza a giudicarne. Una tal competenza appartiene esclusivamente
ai Tribunali Criminali ordinarj.
Ed allora
si intuisce subito che esisteva un nesso, anzi un vero e proprio parallelo fra
attività preventiva e polizia amministrativa ed è evidente che soprattutto
questa branca godeva di quella specialità che la separava dalle interferenze
degli istituti e dei giudici penali, mentre la punizione dei veri e propri
delitti e delle trasgressioni di polizia era affidata alla polizia punitiva che
coincideva col potere ordinario, rappresentato dai pretori e dai tribunali di
prima istanza (dei vicari non c’era più traccia, costoro ormai rappresentavano
solamente un’immagine lontana legata alle riforme di Pietro Leopoldo).
Proprio la
parte dedicata alla polizia punitiva nel 1853 fu riveduta con la promulgazione,
contestualmente al codice penale in modo da sottolinearne le affinità e la
stretta dipendenza, del nuovo regolamento[41] di tale materia ed in
particolare il nesso era rappresentato dall’art. 4:
Le regole generali,
stabilite nel primo libro del codice penale, si applicano ancora alle
trasgressioni, ogniqualvolta il presente regolamento non disponga altrimenti”
Il
collocare le trasgressioni di polizia fuori dal codice penale finì solo per
essere “una scelta prevalentemente topografica”[42] fatta a scapito della
possibilità di emanare un testo legislativo che andasse ad integrarsi con i
primi 53 articoli del regolamento del 1849 per costruire un “diritto penale
amministrativo”[43] che con istituti e
magistrati peculiari si opponesse “alla forza centripeta del diritto penale che
tendeva ad attrarre nel proprio dominio qualsiasi specie di sanzione punitiva”[44].
Al
contrario, venne rimarcata quella differenza fra polizia amministrativa e
polizia punitiva di cui sopra, tenendo ferme le competenze dei giudici ordinari
già stabilite nella seconda parte del regolamento del 1849.
Questa
scelta, oltre ad apparire inopportuna a studiosi moderni[45] fu criticata nel
trattato di polizia di Iacopo Buonfanti, il quale avrebbe preferito che
l’intera materia, per le proprie particolarità, fosse stata affidata alle
autorità menzionate nell’art. 1 del regolamento del 1849, eludendo così la
competenza dei giudici ordinari.
Invece il
legislatore, così agendo, pareva assimilare agli illeciti penali veri e propri,
l’attività di polizia che “si esercita
sovra azioni di tutti i giorni, di tutti i momenti, sovra dettagli di leggieri
minuziosi in se stessi...”[46].
Ancora il
Buonfanti, per convincere il lettore della bontà delle proprie idee e per
rimarcare le differenze col diritto penale in senso stretto, affermava che il
compito della polizia non era quello di:
punire de’reati, di
spaventare con degli esempi, di rimuovere dalla società de’colpevoli che ne
minacciano l’esistenza, ma di correggere delle abitudini inquietanti per la
tranquillità dei cittadini, di costringere gli uomini a seguire certe regole di
condotta, di provvedere a che nessuno sia disturbato nell’uso dei comuni
godimenti, finalmente di reprimere con lievi pene, piccole delinquenze[47].
Il
magistrato di polizia, poi, essendo meno legato alla lettera della legge
rispetto ai giudici ordinari nei quali l’interpretazione si voleva ridotta ai
minimi termini, avrebbe potuto modificare ed adattare i regolamenti alle varie
situazioni contingenti in modo tale da non essere “obbligato di percuotere alla
cieca”[48] e così di rendere
giustizia a tutti.
Alla luce
di questi fatti, conviene in primo luogo indagare sulla attività di prevenzione
svolta dalla polizia amministrativa piuttosto che prendere in esame le
trasgressioni al regolamento di polizia punitiva per non travalicare i confini
dell’indagine e approdare nel campo del diritto penale, limitandosi ad
analizzare degli ‘illeciti minori’ i quali, non solo, come notato, erano
sottoposti alla giurisdizione dei giudici ordinari, ma anche assoggettati ad
una disciplina penale che si differenziava dalla repressione dei delitti
soltanto per il minor rigore edittale.
Infatti,
esaminando il codice penale del 1853, si legge all’art. 12 che:
le pene stabilite da questo
codice, o sono principali, o accessorie. Le principali si distinguono in comuni
e proprie.
E
l’articolo seguente annovera fra le pene comuni:
a) la morte; b)
l’ergastolo; c) la casa di forza; d) la carcere; e) l’esiglio particolare; f)
la multa; g) la riprensione giudiciale.
Mentre le
pene proprie sono elencate nell’art. 24:
a) la interdizione dal pubblico
servigio; b) la interdizione dall’esercizio d’una professione, che richiede
matricola.
Finalmente,
le pene accessorie enunciate dall’art. 28:
a) l’esiglio generale; b)
la sottoposizione alla vigilanza della polizia; c) la confisca di oggetti
determinati dalla legge.
Queste
pene erano applicabili anche alle trasgressioni di polizia in virtù della
citata norma di richiamo dell’art. 4 del nuovo regolamento di polizia punitiva[49]; con ciò, naturalmente,
non si vuole asserire che la pena di morte fosse prevista anche per le
trasgressioni al regolamento di polizia[50], anche perché questa punizione era prevista
solo formalmente - in quanto non fu mai applicata - per i reati.
Prendendo
invece in considerazione le istituzioni della polizia amministrativa si
ravvisano particolarità sia riguardo alle punizioni, sia ai procedimenti che
alle autorità preposte: il tutto per raggiungere lo scopo della prevenzione.
Per
considerare attentamente questa materia si deve chiarire la distinzione tra gli
accennati concetti di trasgressione e di delitto: secondo il Fiani il delitto
appartiene al novero di quelle azioni “naturalmente prave ed ingiuste” le quali
violano le leggi create per garantire “la pubblica sicurezza”, mentre la
trasgressione consiste in una azione “lecita ed indifferente” che viola le
leggi dirette a garantire “un maggior benessere”: da ciò consegue che mentre la
creazione del delitto promana dal diritto naturale ed “è comandata dalla
necessità”, la creazione della trasgressione, tipico istituto di diritto
positivo, “è consigliata dall’utilità”[51]; perciò il Fiani,
abbracciando l’ideologia utilitaristica, consigliava a legislatori di essere
parsimoniosi nel creare nuove figure di trasgressioni, dato che proibire azioni
non sanzionate dal diritto di natura “è un aggiungere alla naturale libertà dell’uomo
una nuova restrizione”[52].
Seguendo
questo semplice schema, suffragato dalla dotta opinione del Carmignani secondo
il quale la trasgressione rappresenta “l’infrazione d’un Regolamento di Polizia
utile o alla maggior sicurezza, o alla maggior prosperità dell’aggregazione
sociale”[53], si ha la conferma di
quanto affermato in precedenza e cioè che i delitti sono illeciti penali, reati
veri e propri, mentre le trasgressioni, in quanto semplici violazioni a
carattere amministrativo appartengono alla sfera dell’attività preventiva della
polizia.
Però, in
seguito lo stesso Fiani complicò questa distinzione introducendo la nozione di
delitto di polizia il quale si differenzierebbe dalle trasgressioni poiché
avente ad oggetto un’ “azione viziosa”[54] consistente
“nell’abbandono di un dovere che l’uomo ha seco stesso, di un dovere di cui
l’avverte l’intimo senso” e quindi contraria “ai dettami della natura e della
morale, e sottoposta perciò all’imputabilità delle loro leggi”[55].
Come si
può notare, fino ad ora, pur progressivamente restringendo il campo
dell’indagine, non è stata riscontrata univocità nella definizione del concetto
di polizia e dei di lei compiti, ma intanto è stato posto l’accento su quella
che pare fosse, nelle intenzioni del legislatore e nelle dotte dissertazioni
dei giuristi, l’attività primaria (o una delle primarie, o quantomeno quella
che maggiormente la caratterizzava) della polizia stessa: la prevenzione,
attività svolta “mediante l’impiego di un apparato rigido e autoritario
d’investigazione e d’intervento, diretto ad attuare la limitazioni che la legge
impone alla libertà di singoli e di gruppi per la salvaguardia dell’ordine
pubblico nelle sue varie manifestazioni”[56].
II.5. Quale polizia?
Il
Repertorio del diritto patrio toscano pubblicato nel 1833 definisce nel
seguente modo la nozione di polizia:
Si comprendono in questa
materia tutte le disposizioni legislative dirette a prevenire i delitti o
coll’allontanarne le cause, o leggermente reprimendo coloro che vi si
incamminano[57].
Il testo,
riportando le disposizioni più significative della legislazione toscana
sull’argomento, mette in luce ancora una volta la prevenzione quale momento
centrale dell’attività di polizia ma non in maniera tale da creare una perfetta
sovrapposizione fra i due termini.
In nota
poi, a beneficio dei “lettori non versati nella giurisprudenza”, è inserita “la
nozione scientifica di questa importantissima branca di legislazione”;
piuttosto che una sterile ripetizione di quanto affermato nella breve
definizione data in precedenza, il testo dapprima provvede a suddividere la
polizia in tre categorie distinte dagli aggettivi “economica”, “didattica” e
“vigilante”, successivamente si preoccupa di giustificare questa tripartizione:
La polizia economica
previene le tentazioni delle offese, col procurare e diffondere eguabilmente
fra i cittadini, (proteggendo la libera concorrenza) i mezzi di sussistere: la
didattica, con l’istruzione morale, religiosa, ed anco letteraria e scientifica:
la vigilante col remuovere quelle deviazioni dall’ordine, le quali, benché non
offendano ancora la sicurezza pubblica e privata, possono servir di scala a
offenderla. L’ozio e la vita vagabonda sono, a cagion di esempio, subietti di
quest’ ultima specie di polizia[58].
La polizia
vigilante, poi, quando provvedeva ad eliminare le cause delle suddette
“deviazioni” era denominata “antegiudiciaria” mentre quando si occupava di
“castigare paternamente i traviati” era detta giudiciaria o punitiva.
Emerge di
nuovo l’altra caratterizzazione delle attività di polizia ed insieme a questa
una nuova suddivisione che corrisponde alla punizione di quelle azioni che, nel
Trattato
del Fiani, erano state indicate come delitti e trasgressioni di
polizia:
la giudiciaria o punitiva
poi, siccome talora si spiega sopra azioni riprovate dalla morale, e tal altra
volta sopra azioni indifferenti in quanto alla morale, ma pericolose alla
sicurezza sociale, come il porto dell’armi, la vendita dei veleni, e simili,
così prende nel primo caso il nome di correzionale, e nel secondo di semplice[59].
L’importanza
della “difesa direttamente preventiva della società”[60] alla metà del secolo
scorso fu costantemente posta in primo piano dalla dottrina, la cui parte più
accreditata - nella quale possiamo iscrivere sia il Buonfanti che il Fiani -
palesava l’influenza di Romagnosi[61] dato che era solita
affermare l’alternatività dei mezzi preventivi (e la polizia “è il mezzo
principale della prevenzione dei delitti”[62]) rispetto a quelli
penali, considerati come extrema ratio.
La
giustizia ordinaria e la polizia avevano entrambe lo scopo “di allontanare il
delitto dall’ordine sociale”[63] ma la seconda era da
preferirsi giacché, a differenza dell’altra, si serviva di “mezzi non dolorosi”
o “non coattivi” e aveva il grande vantaggio di prevenire proprio
l’applicazione della legge penale ispirando “l’amore dell’ ordine”[64].
Separando
una volta di più l’attività di polizia dal diritto penale, ne veniva
sottolineata la più stretta connessione con l’amministrazione, non tanto nel
senso di una totale commistione con essa alla maniera settecentesca del Polizeistaat, bensì in un rapporto di species a genus.
Difatti,
scriveva il Buonfanti che la polizia può definirsi:
quella parte di pubblica
amministrazione, che con azione diretta adoprandosi a rimuovere le cause
de’delitti sì nella maniera di vivere dei cittadini che in qualunque parte
dell’ ordine sociale, è posta a guardia dell’ ordine in generale[65].
E di
rimando il Fiani:
... destinata a promuover
la prosperità, e ad assicurare la pronta azione della legge in ogni parte del
pubblico ordine con un sistema di vigilanza, essa ha potuto assumere il nome di
Polizia amministrativa.”[66].
Si avverte
senza ombra di dubbio l’influenza di un altro grande criminalista vissuto a
cavallo tra il Settecento e l’Ottocento: il professor Giovanni Carmignani, il
quale dall’alto del suo enciclopedico sapere fu uno dei primi studiosi ad
elaborare un sistema teso a dissipare determinate incertezze in materia e, pur
non facendone l’oggetto principale delle proprie ricerche, contribuì
notevolmente all’affermazione del concetto moderno di polizia[67].
Egli,
premesso che la polizia ha il compito di prevenire “direttamente” i delitti,
fornì nei suoi Elementi di diritto
criminale un elenco di definizioni
le quali corrispondevano alla specializzazione (in atto) delle varie branche
del sapere politico-civile che nel Settecento erano state raggruppate sotto la
nozione di “stato di polizia” e come tali formanti oggetto delle scienze cameralistiche.
Tenendo
conto di questa importante evoluzione il Carmignani, aprendo una strada che in
seguito sarà percorsa da coloro che si dedicheranno prevalentemente allo studio
della polizia, chiamò “istituzioni politiche... quelle che dirigono l’uomo come
animale politico”[68]; appoggiandosi ad una
definizione di Say[69] qualificò la politica
come “la teoria della struttura delle umane società”[70], e, sempre facendo
riferimento all’economista francese, ravvisò nella economia politica (la quale
“investiga i modi di aumentare le pubbliche ricchezze”[71]) un campo di indagine
affine a quelli sopra menzionati.
Il
Carmignani non dimenticò, poi, la polizia economica (“tende a stabilire e ben ordinare tutto ciò che può contribuire
all’aumento delle sociali ricchezze, e dei pubblici vantaggi”[72]), quella che nel
diciottesimo secolo era chiamata anche “buon governo” ed il cui efficiente
funzionamento costituiva una delle
preoccupazioni principali della riforma di Pietro Leopoldo.[73]
In
seguito, egli parlando semplicemente di “polizia”, la intese in una duplice
accezione, in generale e in senso stretto:
La polizia in generale è il complesso delle regole, per cui, stabiliti
nella città i rapporti tra il sovrano e i cittadini o sudditi, si provvede alla
sicurezza e alla prosperità di tutti... La Polizia, finalmente, in senso stretto, comprende i principj tendenti a far pienamente valere
l’azione delle leggi penali, ove sia necessaria; ed a prevenirne il bisogno
rimuovendo le cause dei delitti, e sopprimendole dove esistono.[74]
Poste le
basi per un nuovo sapere, l’autore, dall’alto della sua posizione ‘di
avanguardia’, a buon diritto, si permise di criticare i colleghi che, muovendo
da quella concezione della polizia germinata in ambito francese e prussiano,
“confondono gli officj della polizia in senso largo o ristretto con quelli
dell’economia pubblica, della polizia economica e dell’amministrazione
pubblica”[75].
Il
Carmignani aveva, dunque, fatto tesoro dell’esperienza delle scienze
cameralistiche, ma, allo stesso tempo le reputava inadatte a spiegare le
molteplici differenziazioni che si stavano producendo in campo amministrativo,
le quali, per un migliore inquadramento teorico, avrebbero dovuto essere
oggetto di studio di branche specifiche.
Pure i trattatisti
che seguirono erano ben consci che l’attività di polizia non si esauriva nella
semplice dicotomia prevenzione-punizione e fecero riferimento ad altri modi di
catalogare questa funzione non tralasciando neppure l’aspetto della “polizia
economica” che, peraltro era stata presa in considerazione all’interno della
accennata classificazione delle attività di polizia proposta dal repertorio del
diritto patrio.
Quest’ultimo
propose delle distinzioni piuttosto grossolane ed approssimative rispetto ai lavori
più maturi del Buonfanti e, soprattutto, del Fiani a causa sia del poco spazio
a disposizione - non trattandosi di un’opera dottrinaria ma di una raccolta
ordinata alfabeticamente della legislazione toscana, non era quella la sedes materiae per un’analisi completa dell’ argomento - sia
della anteriorità della data di edizione.
Tuttavia,
bisogna riscontrare che le specificazioni di cui si tratta erano già in nuce
nella teorizzazione del Carmignani contenuta nei suoi Elementi di diritto criminale, nonostante
l’esiguo numero di capitoli dedicatogli e i di lui epigoni, sfruttando questo
formidabile background, dettero un
senso più compiuto alle diverse categorie, sviluppandone i relativi ambiti di
competenza, favoriti pure da una moderna legislazione sul tema (i regolamenti
del 1849 e del 1853, appunto).
Se si creò
un rapporto di causa ed effetto tra le opere dottrinali e i regolamenti di
polizia (sia nel senso che le prime ispirassero i secondi, sia che avvenisse il
contrario) allo stato delle indagini svolte per questo lavoro, non è dato di
saperlo, tanto più che la pubblicazione dei vari documenti su menzionati si
svolse tutta nel breve arco di sette anni: l’Opuscolo del Fiani è del 1847, il primo regolamento di polizia è datato 1849, il
lavoro del Buonfanti fu pubblicato tre anni più tardi, seguito nel 1853 dal
nuovo regolamento della polizia punitrice; infine il Trattato del Fiani fu edito
negli anni 1853 - 1856 (ma l’autore già in precedenza avrebbe voluto scrivere
un’opera del genere, compito che gli fu impedito dallo scoppio dei moti
rivoluzionari del 1848)[76].
Stabilita
l’origine della moderna polizia e il suo progressivo distaccarsi da ambiti che
in futuro l’avrebbero ricompresa solo marginalmente, sempre tenendo presente il
momento centrale della prevenzione, occorre operare una fondamentale
distinzione già presente nel Carmignani, quella tra polizia di diritto e
polizia di fatto.
La prima
consisteva nelle disposizioni contenute nelle vari leggi o regolamenti
concernenti questo settore, mentre la seconda, colmando le lacune legislative,
si risolveva tutta nella “sagacità dell’ uomo”[77], cioè nel prudente
apprezzamento del magistrato di polizia “che il potere sovrano autorizza, e
preordina onde meglio vegliare, e provvedere alla esecuzione della legge”[78].
Nonostante
venisse affermato per la polizia di diritto che essa “prevede esplicitamente, e
tassativamente quali azioni e quali omissioni si debbono vietare perché
occasioni di reati, o contrarie alla pubblica prosperità, o feraci di pubblica
calamità” e, riguardo, alla polizia di fatto, fosse sentito il bisogno di
arginare l’arbitrio dell’uomo tramite dei limiti legali “che rassicurino e
rendano tranquilla la opinione”[79] i quali quanto più
fossero stati ristretti, tanto più “l’idea di giustizia e di libertà”[80] sarebbe prevalsa “a
quella della forza e della tirannide”[81], si era ben lontani
dall’affermazione completa dei principi di legalità formale e di tassatività,
circostanza dovuta proprio all’esistenza della polizia di fatto.
D’altro
canto, la polizia di fatto era considerata irrinunciabile per la salvaguardia
della tutela preventiva della società:
La Polizia diretta a
conservare e promuover l’ordine con mezzi che rigettano il linguaggio della
legge, attesa la infinita loro variabilità è necessariamente arbitraria[82].
Era,
allora, imprescindibile l’esigenza di colpire tutti quei comportamenti
antisociali, che sebbene non espressamente vietati dalle leggi penali e dai
regolamenti di polizia costituissero un pericolo per l’ordinamento[83].
La polizia
di diritto o amministrativa in senso lato, giacché aveva lo scopo del
“mantenimento dell’ordine pubblico, della libertà e della sicurezza
individuale”[84] era detta, come sopra
notato, “preventiva” e si suddivideva in “governativa” e “amministrativa” in
senso stretto.
La polizia
governativa aveva il compito specifico di prevenire i pericoli derivanti
dall’operato degli uomini, “le offese cui può dar luogo l’umana malizia”[85], mentre la polizia
amministrativa in senso stretto era diretta ad evitare “gli infortunj”[86] che potevano derivare o
“dall’umana negligenza”[87] o “dall’azione di cose inanimate, di bruti
animali, d’uomini privi d’intelletto”[88].
Rimane
però da inquadrare la “polizia economica”: il Fiani nel suo lavoro del 1847, la
contrappose a quella preventiva, nel Trattato,
invece, con scelta più opportuna la introdusse come specificazione di
quella.
Infatti se
essa, come “mezzo di pubblica prosperità”[89] era destinata “ad
aumentare le comodità dei cittadini, e la ricchezza dello stato col mezzo dei
prodotti indigeni”[90], ciò poteva essere
raggiunto in primo luogo attraverso una capillare opera di prevenzione[91].
A queste
categorie della così detta polizia di diritto erano affiancate le relative
trasgressioni: quelle di polizia governativa (“atti, i quali sebbene in se
stessi innocenti, pure ben ponderati presentavano o una facilità maggiore, o un
pretesto, o un’occasione, o un pericolo, onde un determinato titolo d’offesa
venisse commesso”[92]), le altre di polizia
amministrativa in senso stretto, e anche quelle della polizia economica, la
quale per accrescere la prosperità pubblica proibiva “certe azioni di per se
stesse lecite ed indifferenti”[93] ma che rappresentavano
in qualche modo un pericolo proprio per quella prosperità.
La polizia
di fatto, secondo la fondamentale distinzione del Fiani era divisa nelle tre
sottocategorie della polizia vigilante, della polizia edicente e di quella
punitrice.
Ma a
complicare notevolmente questo groviglio di definizioni il Fiani aggiunse che
“presso di noi la polizia di fatto chiamasi polizia amministrativa”.
A questo
punto, all’interprete moderno, per sciogliere questo nodo gordiano, conviene
prendere atto della disomogeneità e della contraddittorietà linguistica e
calarsi nella realtà dell’epoca, continuando l’analisi dei regolamenti di
polizia tramite un costante confronto con i preziosi dati forniti dal materiale
d’archivio per verificare la bontà delle colte asserzioni dei giuristi o, in
caso di esito parzialmente negativo di questa operazione, per estrapolare un
sistema teorico per induzione.
[93] Ibidem, p. 26.