CAPITOLO II

II.1. Una nuova organizzazione territoriale.

In Toscana, negli anni documentati dalla ricerca d’archivio, e cioè alla fine del regime granducale, non esisteva più la vecchia figura del vicario regio avente la giurisdizione civile sul proprio territorio e la criminale anche sul territorio delle potesterie comprese nel vicariato stesso: infatti una legge emanata il 9 marzo 1848 aveva provveduto a rinnovare e separare le competenze amministrative e giurisdizionali dei funzionari locali.

Innanzi tutto l’art. 2 soppresse esplicitamente vicariati e potesterie; poi il territorio del Granducato fu diviso nei sette compartimenti di Firenze, Lucca, Pisa, Siena, Arezzo, Pistoia e Grosseto (art. 4); i compartimenti a loro volta vennero divisi “agli effetti governativi e giudiciarj” in circondari e preture e “agli effetti amministrativi ed elettorali” in distretti e comunità (art. 8)[1].

In secondo luogo, ciascun ente aveva la propria figura istituzionale di riferimento: un prefetto (con relativo consiglio di prefettura) stava a capo di ciascun compartimento, un sotto-prefetto risiedeva in ogni circondario “ove non sia residenza di Prefettura”, un pretore per ogni pretura, un ministro del censo per ogni distretto e un gonfaloniere per ogni comunità.

Fu anche decretato di istituire dei delegati di governo nelle città di Firenze, Livorno, Lucca, Pisa, Siena, Arezzo, Pistoia, Prato, Cortona e Pescia per la risoluzione degli affari di polizia.

Le cariche non erano elettive bensì questi uomini erano nominati dal Granduca in persona.

La creazione dei delegati di governo fu particolarmente rilevante e segnò un momento fondamentale nel processo di rinnovamento della polizia toscana, la cui efficienza era stata una delle maggiori preoccupazioni dei Lorena fino dai tempi di Pietro Leopoldo.

A dire il vero non si trattò di una autentica novità, ma piuttosto il recupero e la valorizzazione di una carica già istituita da alcuni mesi nell’ambito di “eccezionali provvedimenti” relativi alla città di Livorno “per ristabilirvi il buon’ordine”: infatti il Motuproprio del 26 novembre 1847 emanato dal Granduca per sedare i “gravi disordini che hanno recentemente turbato in Livorno la pubblica tranquillità” istituì nella città labronica una “Commissione Governativa composta del governatore Locale... e di due Assessori Legali per esercitare... le attribuzioni della Polizia preventiva e repressiva” alle cui dipendenze stavano due Delegati di Governo, uno per ogni Circondario cittadino[2] .

Esaminando gli articoli di questa legge, sembrerebbe che i delegati fossero circondati da un alone di precarietà poiché l’eccezionalità dell’intero provvedimento fu ribadita asserendo che questo sarebbe rimasto in vigore “fino alla vicina pubblicazione del nuovo Regolamento Organico della Polizia” e in particolare l’istituzione dei delegati stessi nei circondari di S. Marco e di S. Leopoldo era ivi qualificata per mezzo dell’avverbio “provvisoriamente”.

Le competenze dei delegati secondo questa legge erano quelle di:

... invigilare al buon’ordine ed alla pubblica e privata tranquillità e sicurezza, avendo particolarmente in vista le persone turbolente, vagabonde e sospette, e facendo uso a loro riguardo ove occorra, di precetti frenativi e altri provvedimenti, l’applicazione de’quali entra nei poteri de’Giusdicenti Provinciali. Essi adempiranno altresì tutte le funzioni di Polizia Giudiciaria per lo scoprimento dei delitti, e de’loro autori...

Dunque, i delegati avevano sia compiti preventivi, sia coercitivi ed in particolare, la punizione più severa che poteva essere da loro irrogata era rappresentata dal carcere fino ad un massimo di tre giorni; contro queste pronunce era ammesso il ricorso alla commissione governativa entro tre giorni dalla notificazione, mentre riguardo alle questioni procedurali la legge si limitava ad osservare che i delegati avrebbero dovuto agire “previe le debite verificazioni e contestazioni”.

Infine, l’art. 11 testimoniava la permanenza della antica organizzazione dei giusdicenti provinciali nei quali erano riunite le attribuzioni giudiziarie e di polizia, creandosi, allora, una parziale sovrapposizione di discipline normative.

Disponeva questo articolo che:

Il Vicario R. di Rosignano eserciterà le sue incombenze di Polizia nella propria giurisdizione Vicariale colle medesime forme stabilite per i Delegati di Governo de’Circondarj di S. Marco, e di S. Leopoldo di Livorno: e dalle di lui risoluzioni sarà ammesso ugualmente il ricorso alla Commissione Governativa di quella Città.

La legge del 26 novembre 1847, pur nella sua eccezionalità,  rappresentò il naturale prodromo ai provvedimenti del 1848 ed insieme a questi una tappa fondamentale in quel processo di svecchiamento dell’organizzazione toscana non solo della polizia ma anche del sistema giudiziario tout court.

D’altronde in questo periodo avvenne un fatto che dovette necessariamente costringere il governo granducale ad un radicale ripensamento all’interno di un apparato di potere ormai consolidato: la soppressone della Presidenza del Buongoverno ottenuta dai nuovi ministri Serristori e Ridolfi dietro la insistente pressione di certa stampa liberale che a questo proposito da diverso tempo “aveva riprodotto il motto storico est delenda Carthago” [3].

Come è noto la carica di Presidente del Buon Governo era stata creata da Pietro Leopoldo con il motuproprio del 6 aprile 1784 con l’intento di creare una sovraintendenza su tutti gli affari di polizia e di separare almeno a livello di alta amministrazione[4] le competenze di polizia da quelle più propriamente giudiziarie che da quello stesso provvedimento furono affidate al Presidente del Supremo tribunale di giustizia[5].

La permanenza della carica di Presidente del Buongoverno alla metà del secolo scorso era vista con sfavore dai liberali toscani perché, perpetuando quella occhiuta politica del sospetto inaugurata proprio dal grande riformatore Pietro Leopoldo, rappresentava un residuo storico da eliminare al più presto.

Così, in un momento particolarmente caldo della storia del Granducato, i portatori della istanza abolizionista ebbero buon gioco e la Presidenza del Buon Governo fu sostituita da una Direzione di Polizia, “la quale entrava fra le divisioni del Ministero dell’Interno accrescendogli imbarazzi, responsabilità ed odiosità”[6].

Ecco che, conseguito questo risultato, e forti delle esperienze condotte sul territorio livornese, i riformatori toscani cercarono con la legge del 9 marzo 1848 di dare un assetto stabile all’ordinamento dell’amministrazione e della giustizia focalizzando l’attenzione sul decentramento territoriale.

Per cui la Direzione Generale di Polizia, tanto criticata dai conservatori, fu soppressa, ma “le alte attribuzioni di Polizia amministrativa” rimasero “concentrate nel Ministero dell’Interno”.

E’ stato accennato che questa legge provvide a separare le funzioni amministrative da quelle giudiziarie e a suddividere il territorio in base a questi criteri, ma probabilmente è più corretto affermare che se le intenzioni erano quasi sicuramente quelle, il risultato, invece, non fu del tutto all’altezza delle premesse.

Infatti a prima vista si può affermare che il tanto deprecato cumulo di competenze che faceva capo agli antichi vicari regi fu scomposto e i poteri così separati furono affidati ai delegati di governo (potere di polizia) e ai pretori (potere giudiziario), ma ad un esame più approfondito si scopre un intreccio e un sovrapporsi di quelle medesime competenze nelle medesime persone.

A questo proposito conviene riportare le norme relative al titolo V rubricato “facoltà e doveri dei pretori” e quelle del titolo VI denominato “facoltà e doveri dei Delegati di Governo”:

Art. 42. Ogni Pretore nel territorio della sua Pretura è

              1. Giudice ordinario minore civile e criminale.

                   2. Uffiziale di Polizia giudiciaria.

                   3. Uffiziale di Polizia amministrativa dovunque non risiede un

Delegato di Governo.

... (Omissis).

Art. 43. Come giudice civile e criminale, e come Uffiziale di polizia giudiciaria, il Pretore dipende dalle superiori autorità dell’ordine giudiciario. Come Uffiziale di Polizia amministrativa dipende immediatamente dal Capo del Governo del Circondario...

... (Omissis).

Art. 45. ... ove non risiede un Delegato di Governo come uffiziale di Polizia amministrativa, il Pretore si adopra per mantenere la pubblica e privata tranquillità, e sicurezza, esercitando la più esatta vigilanza sopra le persone e luoghi sospetti.

Art. 46. Ogni Delegato di Governo è

           1. Uffiziale di polizia giudiciaria.

           2. Pubblico Ministero nelle cause criminali la cui cognizione spetta al Pretore.

            3. Uffiziale di Polizia amministrativa.

Art. 47. Il Delegato di Governo, in quanto è uffiziale di Polizia giudiciaria, ed esercita funzioni di Pubblico Ministero dipende dalle superiori Autorità dell’ordine giudiciario; in quanto è uffiziale di Polizia amministrativa dal capo del Governo del Circondario.

Successivamente un decreto del 31 marzo seguente, ribadendo l’esigenza del “definitivo ordinamento della Polizia” completò lo scarno disposto del titolo VI della legge del 9 marzo estendendo le “attribuzioni conferite ai Delegati di Governo di Livorno, istituiti colla Legge de’26 Novembre 1847, e che rimangono fermi” ai “Delegati di Governo ora posti in attività in Firenze; non meno che ai Direttori degli Atti criminali di Pisa e di Siena, ai Commissarj Giusdicenti del già Ducato di Lucca, ai Vicari Regj, ed ai Pretori che siano loro sostituiti”.

Come si può notare era atteso al più presto un nuovo intervento chiarificatore del legislatore che, dopo averle dettagliatamente elencate, attribuisse ad organi realmente distinti le competenze della polizia e quelle della giustizia criminale ordinaria.

Per completare l’opera riformatrice, cioè, erano necessari un regolamento di polizia ed uno per la procedura penale che si dividessero le mansioni e si compenetrassero a vicenda.

Nel 1847, l’avvocato Bartolommeo Fiani, nella prefazione all’opuscolo Sulla riforma della polizia in Toscana,  si fece portavoce di questa istanza generalizzata di rinnovamento della materia e dopo avere ricordato che “il Granduca Pietro Leopoldo, che con gran verità fu detto il Toscano Licurgo... ingentilì il primo la polizia”, rammentò il cattivo uso che ne venne fatto negli anni successivi quando vennero prese “inopportune e mal dirette misure” sia per la scarsa conoscenza tecnica da parte dei funzionari ad essa preposti, sia a causa di veri e propri abusi da parte degli stessi.

Si generò quindi nei toscani una fortissima avversione verso questa istituzione[7], che “per quanto buona nel suo principio”, divenne “difettosa rimanendo immobile nella mobilità dei tempi, e delle circostanze”.

E così “la lodata Polizia del secolo decim’ottavo non poteva esser più rispondente al secolo di civiltà, e di progresso nel quale viviamo, né aspirare al plauso della età presente. Necessaria pertanto, comecché reclamata dai tempi, e dai nuovi bisogni dei Popoli compariva la riforma di questa istituzione”[8].

Finalmente il tanto auspicato regolamento di polizia fu promulgato il 22 ottobre 1849 e, esattamente un mese più tardi, fu seguito dalla legge intitolata “della istruzione dei processi criminali”.

Queste due leggi, insieme al codice penale e al nuovo regolamento della polizia punitiva del 1853 avrebbero rappresentato i pilastri fondamentali del diritto criminale lato sensu  fino alla cacciata dei Lorena e avrebbero confermato l’avanguardia di questo settore, il quale, a partire dalle riforme di Pietro Leopoldo e grazie anche alle opere dottrinali, dette così tanto lustro al piccolo Granducato da fare affermare ad un pubblicista del secolo scorso che La France est la Toscane de l’Europe [9].

II.2. Alle radici della polizia: un problema definitorio.

Prima di analizzare minutamente il regolamento di polizia, rapportandolo alle esperienze della Delegazione di Governo di Pontedera negli anni a cavallo tra la fine del Granducato e l’unità d’Italia, si deve ribadire che in quegli anni una revisione delle attività e dei poteri della polizia si imponeva realmente, poiché, come appena sottolineato dal passo del Fiani, non era più sufficiente il vetusto impianto normativo voluto da Pietro Leopoldo, sebbene fosse stato periodicamente ‘aggiornato’.

Così, la legge del 1849 acquista una dimensione ancora maggiore nella storia dei provvedimenti di polizia ed agli occhi dei contemporanei dovette rappresentare il mezzo per abbattere le vecchie istituzioni di polizia e farle “risorgere sotto ben diverse forme”[10] più adatte a quell’epoca.

Non bisogna poi dimenticare che la legislazione di Pietro Leopoldo in materia di polizia operò su di un terreno essenzialmente ‘vergine’; il sovrano stesso, non avendo precedenti normativi[11] da usare come punto di riferimento dovette documentarsi a fondo analizzando i modelli proposti dalla dottrina e dalla legislazione di altri paesi[12]. 

Tuttavia, una materia in continua evoluzione e così legata alla quotidianità come la polizia del diciottesimo secolo non poteva essere sperimentata in vitro  od osservata in una data realtà sociale  per poi essere applicata universalmente con un sillogismo tipico dell’età dei lumi: soltanto il trascorrere del tempo e  la sussunzione della fattispecie concreta nel nomen juris  dei vari istituti avrebbero dimostrato la reale rispondenza della normativa alle esigenze della società presa in esame e avrebbero suggerito gli opportuni temperamenti.

D’altronde, come è stato opportunamente scritto:[13]

... le funzioni di polizia sono praticamente ineliminabili in qualsiasi società che sia provvista di un per quanto semplice ordinamento normativo. Esse si modellano, semmai, sulle esigenze, sulla capacità operativa, sul livello di organizzazione di quella società, apparendoci di volta in volta centrali o marginali, più o meno strutturate, operanti nei fatti o limitate sostanzialmente alla loro previsione normativa, esercitate nei modi e dagli organi eventualmente previsti dalle leggi o discendenti de facto  dalla attività amministrativa o giurisdizionale dei poteri che se le arrogano.

Stante quindi la essenzialità delle funzioni di polizia in un qualsiasi ordinamento giuridico, si pone un altro problema preliminare, quello definitorio dato che se in generale si può affermare che ognuno intende “il significato volgare”[14] del concetto di polizia, da un punto di vista strettamente tecnico, invece, sorgono notevoli problemi:

... quando poi, scientificamente vogliamo darne la nozione e la definizione, per esporne il contenuto, ci troviamo di fronte a difficoltà di ogni ordine logico, che nell’analisi dei singoli elementi, caso per caso diversi, ma concorrenti a formare  la definizione, trovano radice e causa[15].

Riguardo poi alla esperienza toscana del periodo preso in esame le difficoltà aumentano, in quanto si trattava di un quid    ancora in bilico fra i poteri amministrativi e quelli giurisdizionali che doveva scontare la relativa ‘novità’ dell’uso del termine stesso e delle riflessioni dottrinali che peraltro, come appena visto, si erano svolte in primo luogo all’estero, generandosi la necessità di una rielaborazione di questi modelli teorici.

Se scorriamo i più importanti dizionari dell’età moderna, il termine ‘polizia’ non compare nel Dizionario della Accademia della Crusca del 1612, mentre è presente nell’edizione del 1732 con il significato di “politezza, contrario di sporcizia”; così fino al diciottesimo secolo resta “parola colta, appartenente a linguaggi specifici, percepita dai puristi come un grecismo... per designare l’organizzazione razionale dell’ordine pubblico ed il governo politico che persegue questo fine”[16].

E per qualificare il contenuto del termine ricorsero alla tutela dell’ordine pubblico sia il Dizionario Tommaseo-Bellini edito nel 1869, il quale sentenziava che “la maggiore e migliore parte della popolazione ignora cotesto grechismo”[17], sia il Rezasco secondo cui “Polizia vuol dire l’ordine, col quale si governa una città, e sono amministrate le comuni sue bisogne”[18].

Tornando alle esperienze straniere, si deve necessariamente ricordare che il gran lavoro dottrinale svolto all’estero sta alla base di un certo modo di intendere la polizia e della relativa evoluzione: quindi le riflessioni svolte dalla cameralistica tedesca, ad esempio, svelano una delle possibili ‘polizie’[19].

Infatti, pur ponendosi questi studi alle radici dell’aspetto in esame e dettandone le coordinate fondamentali, si deve sempre tenere presente la loro specificità (e anche la  diacronicità) rispetto all’oggetto peculiare dell’indagine, il funzionamento di un ufficio di polizia ai tempi di Leopoldo II; ecco perché ai nostri fini vanno accettati cum grano salis.

A questo proposito  è da osservarsi con Paolo Napoli che:

Polizia  è un nome che ha un impiego euristico oramai convenzionale per la storia delle idee politico-giuridiche, ma i suoi referenti in una certa epoca possono variare con i contesti territoriali e non è detto che le trasformazioni siano sincronizzate in tutta Europa. Isolare apoditticamente e universalmente l’essenza della polizia  per poi verificarne la portata empirica è operazione pregiudiziale che rischia di mancare la realtà.[20]

Ed allora, tenendo ben presente questo assunto, non si deve cadere nell’errore di generalizzare il concetto di polizia, banalizzandolo e riducendolo ad enorme contenitore che può essere riempito a seconda dell’occasione; al contrario è d’uopo considerare singolarmente le molteplici facce di questo termine polimorfo.

Nel caso in questione bisogna concentrare l’attenzione sull’organizzazione della polizia granducale alla metà del secolo scorso tramite l’analisi dei materiali normativi a disposizione e lo studio dei commenti dottrinali, e puntualizzare le specificità inerenti alla dimensione pratica riportando l’esperienza di una Delegazione di Governo in un lasso di tempo particolarmente significativo[21].

Solo così si evita quella ipertrofia universalizzante della nozione che è alla base della confusione riguardante molti altri vocaboli appartenenti al lessico storico-giuridico[22].

Ma anche se, come più volte sottolineato, l’indagine deve essere svolta all’insegna di quel relativismo giuridico tanto caro a Montesquieu[23], è comunque indubbiamente utile dare uno sguardo a certi precedenti storici, dispensatori delle idee cardine della materia, quantomeno per effettuare una macrocomparazione e per constatare quanti di quei concetti fondamentali transitarono da un ordinamento all’altro e cosa invece venne modificandosi o addirittura scomparve sia per il logorio del tempo che rende inutili certi istituti, sia per l’impossibilità di adattarne altri a certe peculiari realtà sociali.

II.3. Lo stato di polizia.

La nozione ‘stato di polizia’ fu coniata dai costituzionalisti tedeschi dell’Ottocento contrapponendo l’ordinamento in cui vivevano (e che fu denominato ‘stato di diritto’) a quello dei secoli immediatamente precedenti caratterizzato, appunto, da una eccessiva dilatazione delle funzioni di polizia.

Se non che, in questa spiegazione, il termine ‘polizia’ acquisiva un significato particolarmente ampio perché si riferiva a tutto il complesso di strumenti usati dai vari principi territoriali tedeschi in un disegno di politica accentratrice per affermare i propri poteri contro le forze sociali[24]  tradizionali portatrici di istanze di stampo particolaristico-medievale.

Questo termine era stato mutuato dall’esperienza francese: qui infatti nelle varie ordonnances  dei sovrani (specialmente quelle emanate tra i secoli XIV e XVI) la police  aveva assunto il significato di “misure d’ordine o provvedimenti diretti ad assicurare la pubblica tranquillità, o il comune benessere, con atto d’impero della pubblica Autorità, ma aventi contenuto strettamente proibitivo”.[25]

Così questa accezione lata del vocabolo conduce l’interprete contemporaneo ad assimilarla a concetti quali ‘ragione di stato’, o ‘politica’, oppure ‘amministrazione’.

Le ordinanze emanate dai principi tedeschi avevano due scopi principali: il mantenimento dell’ordine o “sicurezza pubblica” e il benessere dei sudditi e la polizia, nelle sue diramazioni di Sicherheitpolizei [26] prevalentemente a carattere negativo e di Wohlfahrtpolizei[27] di stampo “interventista”  divenne lo strumento privilegiato per operare questa sintesi:

Il principe s’ingeriva di tutto, tutto voleva sapere, regolava le materie più minute, s inframmetteva persino negli affari privati, non rispettando neppure il santuario della giustizia, ma sospendendone con regi viglietti il corso, creando tribunali speciali ed avocando le cause dai legittimi fori... ordinando ai giudici come dovessero pronunciare, e non peritandosi di punire i magistrati che con nobile resistenza avessero sentenziato diversamente dal volere del re. I popoli generalmente vedevano volentieri questa ingerenza del principe, la quale d’ordinario raddrizzava torti, sosteneva l’equità e impediva le prepotenze dei grandi; ma di qua trasse origine l’onnipotenza della polizia, che invadeva spiando lo stesso tetto domestico, violava il segreto delle lettere, e senza processo incarcerava e confinava i cittadini[28].

Insomma, si trattava di tipiche manifestazioni di quell’assolutismo illuminato di stampo pedagogico-paternalista teorizzato dagli scritti di Leibniz e di Wolff e comune a tutti gli stati germanici e loro ‘affini’ del diciottesimo secolo, dalla Prussia, all’Austria al Granducato di Toscana di Pietro Leopoldo i quali tramite questa (seppur benevola) invasione nelle sfere private volevano “insegnare ai cittadini a vivere virtuosamente, a rispettare le leggi, ad essere timorati di Dio, a volersi bene tra di loro, ed oltre tutto anche ad essere sapienti nell’anima e vigorosi nel corpo”[29].

La creazione di un moderno stato accentrato a scapito dei vecchi equilibri cetuali e la preminenza data al momento amministrativo - con la nascita della moderna burocrazia - possono essere riassunti in un’unica nozione,  che da sempre si accompagna all’espressione “stato di polizia”: quella di cameralismo.

Questa giovane scienza fu ben presto insignita della dignità accademica: le prime cattedre di “scienze camerali, economiche e di polizia” furono istituite dal re di Prussia Federico Guglielmo I nel 1727 nelle università di Halle e di Francoforte sull’Oder per consentire “la formazione di funzionari esperti, moderni e preparati”[30] e per cercare di fondere le diverse discipline inerenti alla conduzione di uno stato “in un corpo integrato e dotato di senso proprio, per mezzo del quale si tentò di dare una spiegazione meccanica, dall’ interno, del funzionamento della cosa pubblica, assumendo quest’ultima nella sua dimensione storica concreta dello Stato di polizia, accentrato e unitario, sempre più istituzionale e superiore alla figura del sovrano”[31].

Una volta consolidatasi l’autorità dello stato, però, si verificò il fenomeno opposto, quello dello specializzarsi delle varie branche, e il nuovo interesse monodisciplinare alimentò la spinta verso un decentramento delle singole funzioni amministrative in maniera da essere esercitate nella maniera più efficace e, in definitiva, determinò il passaggio allo “stato di diritto”.

Così anche la polizia, ormai staccatasi dall’enorme ed indefinita mole degli affari riguardanti genericamente la pubblica amministrazione, divenne un settore autonomo e come tale iniziò ad essere studiato: ne conseguì che questo nuovo ordinamento delle attività di polizia “impose anche la costruzione di nuovi saperi ad essa funzionali, rispetto ai vecchi strumentari intellettuali della Jurisdictio”  [32].

La nascita e il declino delle scienze camerali con l’esito finale della separazione della polizia dalla politica[33], quindi, non solo rappresentarono una tappa obbligata nella genesi della “polizia”, ma anche un decisivo fattore accelerante proprio nella storia del pensiero politico, permettendo il passaggio “dall’antica arte di governo alle moderne scienze dello stato”.[34]

Tuttavia va ricordato che, nonostante il proliferare di studi in area tedesca sulla attività di polizia e sul suo rapporto con la politica, “il modello organizzativo, operativo e legislativo delle attività di polizia è giunto in Italia dalla esperienza francese”[35].

II.4. Caratteri generali della ‘nuova’ polizia toscana.

Verso la metà del secolo scorso l’attività di polizia aveva ormai una propria rilevanza e quindi un nucleo autonomo e regole peculiari le quali, però, spesso si trovavano in bilico tra il potere amministrativo e gli istituti del diritto penale per cui, nonostante la conclamata specialità della materia, esistevano figure ‘ibride’ che risentivano ancora della vecchia concezione settecentesca dell’attività di polizia o che più si addicevano ad un codice penale.

Per dipanare questa intricata matassa ci si deve addentrare nella ‘nuova’ polizia toscana, quella che venne ‘rifondata’ sotto Leopoldo II a partire dal regolamento del 1849.

Innanzi tutto, leggendo qualche manuale di polizia dell’epoca balza agli occhi come gli autori tenessero a sottolineare con un certo orgoglio pionieristico, oltre alla “confusione e alla complicanza della materia”[36], la novità degli studi intrapresi[37] e denunciassero che sin da quando Pietro Leopoldo impresse una svolta in senso moderno a questa istituzione erano mancati scrittori che si fossero interessati specificamente, “di proposito”,[38]  alla polizia[39].

Poi, nelle fonti consultate accanto al sostantivo “polizia” molto spesso si trovano vari aggettivi che non sempre sono gli stessi e anche quando lo sono capita che il senso sia leggermente diverso; inoltre si deve tenere presente che potrebbe essere fuorviante attribuire il significato moderno a certi termini, per cui imbattendosi in una data nozione si deve storicizzarla e quindi considerarla nella sua accezione ottocentesca senza ricorrere a facili (ma solo a prima vista) paralleli con omonimi istituti contemporanei.

Perciò, la prima grande distinzione da fare in materia di polizia è quella tra polizia amministrativa e polizia punitiva dato che questa operazione fu compiuta dal legislatore toscano nel fondamentale regolamento di polizia del 22 ottobre 1849: infatti, i primi tre articoli contenenti le disposizioni generali sono dapprima seguiti da un certo numero di norme (artt. 4-53) riferite alla polizia amministrativa, e secondariamente dalla parte avente l’intitolazione “della polizia punitrice” (artt. 54-282); completano il documento poche disposizioni finali e transitorie (artt. 283-285).

Le “disposizioni generali”, pur se così denominate dal legislatore, si riferiscono alla sola polizia amministrativa ed enunciano i pubblici funzionari a cui erano stati affidati i suoi compiti.

L’ art. 1 dispone che:

Le incombenze di Polizia amministrativa sono esercitate dai Governatori, dai Prefetti e Sotto - Prefetti e dai Delegati di Governo sotto la direzione del Ministero dell’ Interno.

Il regolamento, dunque, confermò l’orientamento nato dopo i tumulti popolari di alcuni anni addietro e, distaccandosi  dalla vecchia normativa settecentesca, preferì affidare le competenze di polizia al Ministero dell’Interno e sopprimere definitivamente la figura del Presidente del Buon Governo.

I compiti dei governatori, dei prefetti e dei sotto prefetti sono descritti nell’art. 4:

1. Pongono ogni cura nel mantenere e ristabilire la sicurezza, e la tranquillità interna; valendosi all’uopo della pubblica forza, di cui hanno l’alta direzione.

2. Invigilano ai forestieri ed al loro movimento.

... (Omissis).

4. Promuovono la investigazione dei delitti, e delle trasgressioni, e la denunzia, l’arresto e la pronta consegna all’Autorità Giudiciaria dei delinquenti e dei trasgressori.

... (Omissis).

6. Provvedono alla pubblica salute, eccitando specialmente l’esatto servizio delle persone che esercitano qualunque ramo dell’arte salutare, e le professioni, che hanno relazione con essa; e procurano la esatta osservanza di tutte le leggi interessanti la pubblica salute.

7. In generale curano direttamente e per mezzo dei Ministri dependenti la osservanza del presente Regolamento, e d’ogni altra Legge e Regolamento interessante la pubblica sicurezza, moralità e prosperità...

Mentre l’art. 6 relativo alle “attribuzioni dei Delegati di Governo” si limita ad aggiungere che:

I Delegati di Governo nella qualità di Uffiziali di Polizia amministrativa, coadiuvano ciascuno nel perimetro territoriale affidato alla immediata sua vigilanza i Governatori, i Prefetti, e i Sotto-Prefetti nell’esercizio delle incombenze relative, ed eseguiscono gli ordini che da essi ricevono.

Tutto ciò, a prima vista, accadde garantendo una sfera di autonomia alla funzione di polizia, in modo tale che non fosse fagocitata dal potere giudiziario e compiendo un ulteriore passo in avanti rispetto alla legge del 9 marzo del 1848, la quale aveva cercato di porre un freno ai poteri dei Vicari, sia in materia di giustizia ordinaria che di polizia, trasferendo queste funzioni a soggetti diversi[40].

Ma, esaminando l’articolo secondo ci si accorge che la soluzione prospettata non era così lineare:

Le Autorità di Polizia amministrativa istituite soltanto per prevenire i delitti e le trasgressioni non hanno competenza a giudicarne. Una tal competenza appartiene esclusivamente ai Tribunali Criminali ordinarj.

Ed allora si intuisce subito che esisteva un nesso, anzi un vero e proprio parallelo fra attività preventiva e polizia amministrativa ed è evidente che soprattutto questa branca godeva di quella specialità che la separava dalle interferenze degli istituti e dei giudici penali, mentre la punizione dei veri e propri delitti e delle trasgressioni di polizia era affidata alla polizia punitiva che coincideva col potere ordinario, rappresentato dai pretori e dai tribunali di prima istanza (dei vicari non c’era più traccia, costoro ormai rappresentavano solamente un’immagine lontana legata alle riforme di Pietro Leopoldo).

Proprio la parte dedicata alla polizia punitiva nel 1853 fu riveduta con la promulgazione, contestualmente al codice penale in modo da sottolinearne le affinità e la stretta dipendenza, del nuovo regolamento[41] di tale materia ed in particolare il nesso era rappresentato dall’art. 4:

Le regole generali, stabilite nel primo libro del codice penale, si applicano ancora alle trasgressioni, ogniqualvolta il presente regolamento non disponga altrimenti”

Il collocare le trasgressioni di polizia fuori dal codice penale finì solo per essere “una scelta prevalentemente topografica”[42] fatta a scapito della possibilità di emanare un testo legislativo che andasse ad integrarsi con i primi 53 articoli del regolamento del 1849 per costruire un “diritto penale amministrativo”[43] che con istituti e magistrati peculiari si opponesse “alla forza centripeta del diritto penale che tendeva ad attrarre nel proprio dominio qualsiasi specie di sanzione punitiva”[44].

Al contrario, venne rimarcata quella differenza fra polizia amministrativa e polizia punitiva di cui sopra, tenendo ferme le competenze dei giudici ordinari già stabilite nella seconda parte del regolamento del 1849.

Questa scelta, oltre ad apparire inopportuna a studiosi moderni[45] fu criticata nel trattato di polizia di Iacopo Buonfanti, il quale avrebbe preferito che l’intera materia, per le proprie particolarità, fosse stata affidata alle autorità menzionate nell’art. 1 del regolamento del 1849, eludendo così la competenza dei giudici ordinari. 

Invece il legislatore, così agendo, pareva assimilare agli illeciti penali veri e propri, l’attività di polizia che  “si esercita sovra azioni di tutti i giorni, di tutti i momenti, sovra dettagli di leggieri minuziosi in se stessi...”[46].

Ancora il Buonfanti, per convincere il lettore della bontà delle proprie idee e per rimarcare le differenze col diritto penale in senso stretto, affermava che il compito della polizia non era quello di:

punire de’reati, di spaventare con degli esempi, di rimuovere dalla società de’colpevoli che ne minacciano l’esistenza, ma di correggere delle abitudini inquietanti per la tranquillità dei cittadini, di costringere gli uomini a seguire certe regole di condotta, di provvedere a che nessuno sia disturbato nell’uso dei comuni godimenti, finalmente di reprimere con lievi pene, piccole delinquenze[47].

Il magistrato di polizia, poi, essendo meno legato alla lettera della legge rispetto ai giudici ordinari nei quali l’interpretazione si voleva ridotta ai minimi termini, avrebbe potuto modificare ed adattare i regolamenti alle varie situazioni contingenti in modo tale da non essere “obbligato di percuotere alla cieca”[48] e così di rendere giustizia a tutti.

Alla luce di questi fatti, conviene in primo luogo indagare sulla attività di prevenzione svolta dalla polizia amministrativa piuttosto che prendere in esame le trasgressioni al regolamento di polizia punitiva per non travalicare i confini dell’indagine e approdare nel campo del diritto penale, limitandosi ad analizzare degli ‘illeciti minori’ i quali, non solo, come notato, erano sottoposti alla giurisdizione dei giudici ordinari, ma anche assoggettati ad una disciplina penale che si differenziava dalla repressione dei delitti soltanto per il minor rigore edittale.

Infatti, esaminando il codice penale del 1853, si legge all’art. 12 che:

le pene stabilite da questo codice, o sono principali, o accessorie. Le principali si distinguono in comuni e proprie.

E l’articolo seguente annovera fra le pene comuni:

a) la morte; b) l’ergastolo; c) la casa di forza; d) la carcere; e) l’esiglio particolare; f) la multa; g) la riprensione giudiciale.

Mentre le pene proprie sono elencate nell’art. 24:

a) la interdizione dal pubblico servigio; b) la interdizione dall’esercizio d’una professione, che richiede matricola.

Finalmente, le pene accessorie enunciate dall’art. 28:

a) l’esiglio generale; b) la sottoposizione alla vigilanza della polizia; c) la confisca di oggetti determinati dalla legge.

Queste pene erano applicabili anche alle trasgressioni di polizia in virtù della citata norma di richiamo dell’art. 4 del nuovo regolamento di polizia punitiva[49]; con ciò, naturalmente, non si vuole asserire che la pena di morte fosse prevista anche per le trasgressioni al regolamento di polizia[50],  anche perché questa punizione era prevista solo formalmente - in quanto non fu mai applicata - per i reati.

Prendendo invece in considerazione le istituzioni della polizia amministrativa si ravvisano particolarità sia riguardo alle punizioni, sia ai procedimenti che alle autorità preposte: il tutto per raggiungere lo scopo della prevenzione.

Per considerare attentamente questa materia si deve chiarire la distinzione tra gli accennati concetti di trasgressione e di delitto: secondo il Fiani il delitto appartiene al novero di quelle azioni “naturalmente prave ed ingiuste” le quali violano le leggi create per garantire “la pubblica sicurezza”, mentre la trasgressione consiste in una azione “lecita ed indifferente” che viola le leggi dirette a garantire “un maggior benessere”: da ciò consegue che mentre la creazione del delitto promana dal diritto naturale ed “è comandata dalla necessità”, la creazione della trasgressione, tipico istituto di diritto positivo, “è consigliata dall’utilità”[51]; perciò il Fiani, abbracciando l’ideologia utilitaristica, consigliava a legislatori di essere parsimoniosi nel creare nuove figure di trasgressioni, dato che proibire azioni non sanzionate dal diritto di natura “è un aggiungere alla naturale libertà dell’uomo una nuova restrizione”[52].

Seguendo questo semplice schema, suffragato dalla dotta opinione del Carmignani secondo il quale la trasgressione rappresenta “l’infrazione d’un Regolamento di Polizia utile o alla maggior sicurezza, o alla maggior prosperità dell’aggregazione sociale”[53], si ha la conferma di quanto affermato in precedenza e cioè che i delitti sono illeciti penali, reati veri e propri, mentre le trasgressioni, in quanto semplici violazioni a carattere amministrativo appartengono alla sfera dell’attività preventiva della polizia.

Però, in seguito lo stesso Fiani complicò questa distinzione introducendo la nozione di delitto di polizia il quale si differenzierebbe dalle trasgressioni poiché avente ad oggetto un’ “azione viziosa”[54] consistente “nell’abbandono di un dovere che l’uomo ha seco stesso, di un dovere di cui l’avverte l’intimo senso” e quindi contraria “ai dettami della natura e della morale, e sottoposta perciò all’imputabilità delle loro leggi”[55].

Come si può notare, fino ad ora, pur progressivamente restringendo il campo dell’indagine, non è stata riscontrata univocità nella definizione del concetto di polizia e dei di lei compiti, ma intanto è stato posto l’accento su quella che pare fosse, nelle intenzioni del legislatore e nelle dotte dissertazioni dei giuristi, l’attività primaria (o una delle primarie, o quantomeno quella che maggiormente la caratterizzava) della polizia stessa: la prevenzione, attività svolta “mediante l’impiego di un apparato rigido e autoritario d’investigazione e d’intervento, diretto ad attuare la limitazioni che la legge impone alla libertà di singoli e di gruppi per la salvaguardia dell’ordine pubblico nelle sue varie manifestazioni”[56].

II.5. Quale polizia?

 

Il Repertorio del diritto patrio toscano pubblicato nel 1833 definisce nel seguente modo la nozione di polizia:

Si comprendono in questa materia tutte le disposizioni legislative dirette a prevenire i delitti o coll’allontanarne le cause, o leggermente reprimendo coloro che vi si incamminano[57].

Il testo, riportando le disposizioni più significative della legislazione toscana sull’argomento, mette in luce ancora una volta la prevenzione quale momento centrale dell’attività di polizia ma non in maniera tale da creare una perfetta sovrapposizione fra i due termini.

In nota poi, a beneficio dei “lettori non versati nella giurisprudenza”, è inserita “la nozione scientifica di questa importantissima branca di legislazione”; piuttosto che una sterile ripetizione di quanto affermato nella breve definizione data in precedenza, il testo dapprima provvede a suddividere la polizia in tre categorie distinte dagli aggettivi “economica”, “didattica” e “vigilante”, successivamente si preoccupa di giustificare questa tripartizione:

La polizia economica previene le tentazioni delle offese, col procurare e diffondere eguabilmente fra i cittadini, (proteggendo la libera concorrenza) i mezzi di sussistere: la didattica, con l’istruzione morale, religiosa, ed anco letteraria e scientifica: la vigilante col remuovere quelle deviazioni dall’ordine, le quali, benché non offendano ancora la sicurezza pubblica e privata, possono servir di scala a offenderla. L’ozio e la vita vagabonda sono, a cagion di esempio, subietti di quest’ ultima specie di polizia[58].

La polizia vigilante, poi, quando provvedeva ad eliminare le cause delle suddette “deviazioni” era denominata “antegiudiciaria” mentre quando si occupava di “castigare paternamente i traviati” era detta giudiciaria o punitiva.

Emerge di nuovo l’altra caratterizzazione delle attività di polizia ed insieme a questa una nuova suddivisione che corrisponde alla punizione di quelle azioni che, nel Trattato  del Fiani, erano state indicate come delitti e trasgressioni di polizia:

la giudiciaria o punitiva poi, siccome talora si spiega sopra azioni riprovate dalla morale, e tal altra volta sopra azioni indifferenti in quanto alla morale, ma pericolose alla sicurezza sociale, come il porto dell’armi, la vendita dei veleni, e simili, così prende nel primo caso il nome di correzionale, e nel secondo di semplice[59].

L’importanza della “difesa direttamente preventiva della società”[60] alla metà del secolo scorso fu costantemente posta in primo piano dalla dottrina, la cui parte più accreditata - nella quale possiamo iscrivere sia il Buonfanti che il Fiani - palesava l’influenza di Romagnosi[61] dato che era solita affermare l’alternatività dei mezzi preventivi (e la polizia “è il mezzo principale della prevenzione dei delitti”[62]) rispetto a quelli penali, considerati come extrema ratio.

La giustizia ordinaria e la polizia avevano entrambe lo scopo “di allontanare il delitto dall’ordine sociale”[63] ma la seconda era da preferirsi giacché, a differenza dell’altra, si serviva di “mezzi non dolorosi” o “non coattivi” e aveva il grande vantaggio di prevenire proprio l’applicazione della legge penale ispirando “l’amore dell’ ordine”[64].

Separando una volta di più l’attività di polizia dal diritto penale, ne veniva sottolineata la più stretta connessione con l’amministrazione, non tanto nel senso di una totale commistione con essa alla maniera settecentesca del Polizeistaat,  bensì in un rapporto di species  a genus.

Difatti, scriveva il Buonfanti che la polizia può definirsi:

quella parte di pubblica amministrazione, che con azione diretta adoprandosi a rimuovere le cause de’delitti sì nella maniera di vivere dei cittadini che in qualunque parte dell’ ordine sociale, è posta a guardia dell’ ordine in generale[65].

E di rimando il Fiani:

... destinata a promuover la prosperità, e ad assicurare la pronta azione della legge in ogni parte del pubblico ordine con un sistema di vigilanza, essa ha potuto assumere il nome di Polizia amministrativa.[66].

Si avverte senza ombra di dubbio l’influenza di un altro grande criminalista vissuto a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento: il professor Giovanni Carmignani, il quale dall’alto del suo enciclopedico sapere fu uno dei primi studiosi ad elaborare un sistema teso a dissipare determinate incertezze in materia e, pur non facendone l’oggetto principale delle proprie ricerche, contribuì notevolmente all’affermazione del concetto moderno di polizia[67].

Egli, premesso che la polizia ha il compito di prevenire “direttamente” i delitti, fornì nei suoi Elementi di diritto criminale  un elenco di definizioni le quali corrispondevano alla specializzazione (in atto) delle varie branche del sapere politico-civile che nel Settecento erano state raggruppate sotto la nozione di “stato di polizia” e come tali formanti oggetto delle scienze cameralistiche.

Tenendo conto di questa importante evoluzione il Carmignani, aprendo una strada che in seguito sarà percorsa da coloro che si dedicheranno prevalentemente allo studio della polizia, chiamò “istituzioni politiche... quelle che dirigono l’uomo come animale politico”[68]; appoggiandosi ad una definizione di Say[69] qualificò la politica come “la teoria della struttura delle umane società”[70], e, sempre facendo riferimento all’economista francese, ravvisò nella economia politica (la quale “investiga i modi di aumentare le pubbliche ricchezze”[71]) un campo di indagine affine a quelli sopra menzionati.

Il Carmignani non dimenticò, poi, la polizia economica  (“tende a stabilire e ben ordinare tutto ciò che può contribuire all’aumento delle sociali ricchezze, e dei pubblici vantaggi”[72]), quella che nel diciottesimo secolo era chiamata anche “buon governo” ed il cui efficiente funzionamento costituiva  una delle preoccupazioni principali della riforma di Pietro Leopoldo.[73]

In seguito, egli parlando semplicemente di “polizia”, la intese in una duplice accezione, in generale e in senso stretto:

La polizia in generale è il complesso delle regole, per cui, stabiliti nella città i rapporti tra il sovrano e i cittadini o sudditi, si provvede alla sicurezza e alla prosperità di tutti... La Polizia,  finalmente, in senso stretto, comprende i principj tendenti a far pienamente valere l’azione delle leggi penali, ove sia necessaria; ed a prevenirne il bisogno rimuovendo le cause dei delitti, e sopprimendole dove esistono.[74] 

Poste le basi per un nuovo sapere, l’autore, dall’alto della sua posizione ‘di avanguardia’, a buon diritto, si permise di criticare i colleghi che, muovendo da quella concezione della polizia germinata in ambito francese e prussiano, “confondono gli officj della polizia in senso largo o ristretto con quelli dell’economia pubblica, della polizia economica e dell’amministrazione pubblica”[75].

Il Carmignani aveva, dunque, fatto tesoro dell’esperienza delle scienze cameralistiche, ma, allo stesso tempo le reputava inadatte a spiegare le molteplici differenziazioni che si stavano producendo in campo amministrativo, le quali, per un migliore inquadramento teorico, avrebbero dovuto essere oggetto di studio di branche specifiche.

Pure i trattatisti che seguirono erano ben consci che l’attività di polizia non si esauriva nella semplice dicotomia prevenzione-punizione e fecero riferimento ad altri modi di catalogare questa funzione non tralasciando neppure l’aspetto della “polizia economica” che, peraltro era stata presa in considerazione all’interno della accennata classificazione delle attività di polizia proposta dal repertorio del diritto patrio.

Quest’ultimo propose delle distinzioni piuttosto grossolane ed approssimative rispetto ai lavori più maturi del Buonfanti e, soprattutto, del Fiani a causa sia del poco spazio a disposizione - non trattandosi di un’opera dottrinaria ma di una raccolta ordinata alfabeticamente della legislazione toscana, non era quella la sedes materiae  per un’analisi completa dell’ argomento - sia della anteriorità della data di edizione.

Tuttavia, bisogna riscontrare che le specificazioni di cui si tratta erano già in nuce  nella teorizzazione del Carmignani contenuta nei suoi Elementi di diritto criminale, nonostante l’esiguo numero di capitoli dedicatogli e i di lui epigoni, sfruttando questo formidabile background, dettero un senso più compiuto alle diverse categorie, sviluppandone i relativi ambiti di competenza, favoriti pure da una moderna legislazione sul tema (i regolamenti del 1849 e del 1853, appunto).

Se si creò un rapporto di causa ed effetto tra le opere dottrinali e i regolamenti di polizia (sia nel senso che le prime ispirassero i secondi, sia che avvenisse il contrario) allo stato delle indagini svolte per questo lavoro, non è dato di saperlo, tanto più che la pubblicazione dei vari documenti su menzionati si svolse tutta nel breve arco di sette anni: l’Opuscolo  del Fiani  è del 1847, il primo regolamento di polizia è datato 1849, il lavoro del Buonfanti fu pubblicato tre anni più tardi, seguito nel 1853 dal nuovo regolamento della polizia punitrice; infine il Trattato  del Fiani fu edito negli anni 1853 - 1856 (ma l’autore già in precedenza avrebbe voluto scrivere un’opera del genere, compito che gli fu impedito dallo scoppio dei moti rivoluzionari del 1848)[76].

Stabilita l’origine della moderna polizia e il suo progressivo distaccarsi da ambiti che in futuro l’avrebbero ricompresa solo marginalmente, sempre tenendo presente il momento centrale della prevenzione, occorre operare una fondamentale distinzione già presente nel Carmignani, quella tra polizia di diritto e polizia di fatto.

La prima consisteva nelle disposizioni contenute nelle vari leggi o regolamenti concernenti questo settore, mentre la seconda, colmando le lacune legislative, si risolveva tutta nella “sagacità dell’ uomo”[77], cioè nel prudente apprezzamento del magistrato di polizia “che il potere sovrano autorizza, e preordina onde meglio vegliare, e provvedere alla esecuzione della legge”[78].

Nonostante venisse affermato per la polizia di diritto che essa “prevede esplicitamente, e tassativamente quali azioni e quali omissioni si debbono vietare perché occasioni di reati, o contrarie alla pubblica prosperità, o feraci di pubblica calamità” e, riguardo, alla polizia di fatto, fosse sentito il bisogno di arginare l’arbitrio dell’uomo tramite dei limiti legali “che rassicurino e rendano tranquilla la opinione”[79] i quali quanto più fossero stati ristretti, tanto più “l’idea di giustizia e di libertà”[80] sarebbe prevalsa “a quella della forza e della tirannide”[81], si era ben lontani dall’affermazione completa dei principi di legalità formale e di tassatività, circostanza dovuta proprio all’esistenza della polizia di fatto.

D’altro canto, la polizia di fatto era considerata irrinunciabile per la salvaguardia della tutela preventiva della società:

La Polizia diretta a conservare e promuover l’ordine con mezzi che rigettano il linguaggio della legge, attesa la infinita loro variabilità è necessariamente  arbitraria[82].

Era, allora, imprescindibile l’esigenza di colpire tutti quei comportamenti antisociali, che sebbene non espressamente vietati dalle leggi penali e dai regolamenti di polizia costituissero un pericolo per l’ordinamento[83].

La polizia di diritto o amministrativa in senso lato, giacché aveva lo scopo del “mantenimento dell’ordine pubblico, della libertà e della sicurezza individuale”[84] era detta, come sopra notato, “preventiva” e si suddivideva in “governativa” e “amministrativa” in senso stretto.

La polizia governativa aveva il compito specifico di prevenire i pericoli derivanti dall’operato degli uomini, “le offese cui può dar luogo l’umana malizia”[85], mentre la polizia amministrativa in senso stretto era diretta ad evitare “gli infortunj”[86] che potevano derivare o “dall’umana negligenza”[87]  o “dall’azione di cose inanimate, di bruti animali, d’uomini privi d’intelletto”[88].

Rimane però da inquadrare la “polizia economica”: il Fiani nel suo lavoro del 1847, la contrappose a quella preventiva, nel Trattato, invece, con scelta più opportuna la introdusse come specificazione di quella.

Infatti se essa, come “mezzo di pubblica prosperità”[89] era destinata “ad aumentare le comodità dei cittadini, e la ricchezza dello stato col mezzo dei prodotti indigeni”[90], ciò poteva essere raggiunto in primo luogo attraverso una capillare opera di prevenzione[91].

A queste categorie della così detta polizia di diritto erano affiancate le relative trasgressioni: quelle di polizia governativa (“atti, i quali sebbene in se stessi innocenti, pure ben ponderati presentavano o una facilità maggiore, o un pretesto, o un’occasione, o un pericolo, onde un determinato titolo d’offesa venisse commesso”[92]), le altre di polizia amministrativa in senso stretto, e anche quelle della polizia economica, la quale per accrescere la prosperità pubblica proibiva “certe azioni di per se stesse lecite ed indifferenti”[93] ma che rappresentavano in qualche modo un pericolo proprio per quella prosperità.

La polizia di fatto, secondo la fondamentale distinzione del Fiani era divisa nelle tre sottocategorie della polizia vigilante, della polizia edicente e di quella punitrice.

Ma a complicare notevolmente questo groviglio di definizioni il Fiani aggiunse che “presso di noi la polizia di fatto chiamasi polizia amministrativa”.

A questo punto, all’interprete moderno, per sciogliere questo nodo gordiano, conviene prendere atto della disomogeneità e della contraddittorietà linguistica e calarsi nella realtà dell’epoca, continuando l’analisi dei regolamenti di polizia tramite un costante confronto con i preziosi dati forniti dal materiale d’archivio per verificare la bontà delle colte asserzioni dei giuristi o, in caso di esito parzialmente negativo di questa operazione, per estrapolare un sistema teorico per induzione.



[1] Il Compartimento di Pisa era formato dai due Circondari di Pisa e di Volterra; nel circondario di Pisa si trovavano le Preture di S. Giuliano, Lari, Peccioli, Pisa, Rosignano, Vicopisano e Pontedera. Quest’ultima era catalogata di seconda classe, l’unica in tutto il compartimento pisano e seconda per importanza solo a quella della città che era di prima classe. Le Comunità relative alla Pretura di Pontedera erano Cascina, Capannoli, Ponsacco e, appunto, Pontedera.

 

[2] Bisogna notare la relativa modernità del concetto di “delegazione” nel diritto toscano (da non confondere con l’omonimo istituto di diritto privato, già noto alla civiltà giuridica dei romani): nel 1799 venne istituita per la prima volta una “Delegazione di polizia” avente lo scopo di punire i reati politici commessi durante l’occupazione francese. Il Repertorio del Diritto Patrio, edito nel 1833, poi si limitava a riportare la voce “delegazione di causa” con la seguente dicitura: “commissione o facoltà data dal Principe ad alcuno di poter conoscere e decidere una qualche causa, sebbene questi non ne avesse la ordinaria giurisdizione”. Questa definizione essenzialmente ricalca l’art. LVI della “Leopoldina” che per primo introdusse la nozione di “delega” nella legislazione toscana con le seguenti espressioni “Ai ministri incaricati della pulizia... si rilascia la facoltà di poter condannare...”. Sull’argomento, comunque, si veda C. MANGIO, La Polizia toscana, organizzazione e criteri di intervento (1765-1808),  Milano, 1988.

 

[3] G. BALDASSERONI, Leopoldo II... cit. p. 244. Nella storia toscana dei provvedimenti di polizia sovente la città di Livorno per le proprie caratteristiche di porto e quindi di centro di scambi, oltre che economici, anche culturali e politici piuttosto vivaci, dovette essere assoggettata a provvedimenti straordinari che, dato il buon funzionamento, furono successivamente estesi a tutto il territorio granducale. Ad esempio, verso la fine del diciottesimo secolo a Livorno il governo decise di usare la “procedura economica” (sulla quale si veda più avanti al cap. III) per allontanare gli stranieri sospettati di simpatizzare per le nuove idee rivoluzionarie. All’adozione di queste misure, pochi anni più tardi, furono abilitati tutti i ministri superiori di polizia. Cfr. C. MANGIO, La Polizia toscana..  cit. pp. 141 - 148.

 

[4] Infatti, come appena notato, a livello locale i Vicari amministravano sia la giustizia penale nel proprio vicariato, sia quella civile nella propria potesteria e avevano poteri di polizia su tutto il territorio del Vicariato a norma della legge del 10 luglio 1771, della circolare del 31 marzo 1780 sulla “conservazione del buon ordine e della polizia” e dell’art. LVI della famosa legge 30 novembre 1786, la quale definì gli stessi vicari “ministri di polizia”. Tuttavia molti studiosi concordano nel ritenere che nemmeno ai vertici della amministrazione la separazione delle competenze, in pratica si realizzò: cfr. M. MONTORZI, “Dispotismo di provincia”... cit. p. 255 e segg., secondo il quale alla fine del Settecento “ai suoi livelli più alti, la struttura sostanzialmente e nonostante tutto dispotica dello Stato Lorenese può permettere la distinzione dei poteri, ma non la loro separazione, giacché essi si cumulano nella persona stessa del Monarca, senza dare luogo alla reciproca limitazione che è caratteristica indispensabile dei sistemi separatisti. Cominciano ad articolarsi le singole competenze, ma non si enucleano ancora le specifiche funzioni di Giustizia, di Polizia, di Amministrazione: il Sovrano, come anche i Giusdicenti suoi Vicari - che ne ripetono sui rispettivi territori i poteri e gli attributi - continuano infatti a riunire in sé, distintamente, ma cumulativamente, tali funzioni e potestà pubbliche.” Oppure si veda C. MANGIO, La Polizia toscana...  cit. p. 63, dove egli asserisce essere improprio “parlare del Buon governo come di un dicastero” data la mancata separazione tra poteri di polizia e potere giudiziario specialmente alla periferia. Cfr. poi A. CONTINI, La città regolata: polizia e amministrazione nella Firenze Leopoldina (1777-1782),  in Istituzioni e società in Toscana nell’ età moderna, I, Firenze, 1994, pp.426-508. La Contini afferma che, nonostante le illuminate riforme di Pietro Leopoldo il “doppio binario” giustizia-polizia non si interruppe. Secondo P. NAPOLI, infine (Polizia d’Antico Regime: frammenti di un concetto nella Toscana e nel Piemonte del XVII e XVIII secolo  in Ius Commune Sonderhefte,  Frankfurt am Main 1996, p. 25) la separazione delle materie di polizia da quelle criminali affidate al Presidente del Supremo tribunale di giustizia avvenne “per finalità d’efficienza più che per amor di garantismo”.

 

[5] Per una analisi più completa si veda C. MANGIO, La Polizia toscana... cit.

 

[6] G. BALDASSERONI, Leopoldo II... cit. p. 244. Sempre il Baldasseroni, nelle sue memorie, stigmatizzando il provvedimento dichiarò che l’abolizione del Buon Governo “portava seco il carattere di un trionfo del disordine sopra l’autorità cui incombeva di prevenirlo”.

 

[7] Già Pietro Leopoldo si era preoccupato di togliere agli appartenenti i corpi di polizia la nomea di “infami” che riscuotevano presso la stragrande maggioranza dei sudditi: egli si illuse di raggiungere il proprio scopo ex lege. Ma, come nota C. MANGIO in La Polizia toscana... , cit.p. 49, azzerare in tal modo il discredito sociale della categoria era un espediente “piuttosto ingenuo”. Lo stesso Fiani nella prime parole della prefazione di una sua opera successiva sentì il bisogno di chiedersi “onde avviene che la Polizia destinata ad allontanare dall’Ordine la sociale offesa, a raffrenare passioni indomite... a risparmiare infine i rigori della legge penale; onde avviene io dico, che questo stabilimento, che ha una missione sì nobile e sì generosa, sia ordinariamente l’oggetto dell’antipatia e dell’avversione dei popoli? Perché il nome di Polizia fa spavento non solo al facinoroso che ha giusti motivi di temerla, ma sì anco talvolta all’onesto cittadino, che la sua condotta uniforma al disposto delle Leggi? Se la istituzione della Polizia non solamente è utile, ma indispensabile alla conservazione delle odierne società... perché non si attira ella le simpatie delle popolazioni?”. (B. FIANI, Della polizia considerata come mezzo di preventiva difesa. Trattato teorico pratico,  Firenze, 1853-1856, p. 4). Secondo il Fiani questo desolante panorama offriva una sola eccezione, l’Inghilterra: “L’Inghilterra infatti offre l’esempio di una Polizia, dalla quale con assai limitati poteri è protetto l’ordine pubblico, e la sicurezza dei cittadini molto meglio che non lo sia negli altri Stati d’Europa, dove la Polizia è investita di attribuzioni e d’autorità estesissime. Ciò avviene perché in quel paese... ogni disuguaglianza di classe sparisce davanti alla Legge... perché per le tradizioni, e i costumi del popolo inglese, ivi le autorità costituite sono essere venerandi, fedeli ministri, e giusti esecutori di quella Legge che tutti rispettano; perché colà si è convinti che la Polizia non è un magistero di vessazione e d’arbitrio, né istrumento della politica, ma sibbene un’Istituzione di pubblica sicurezza avente l’oggetto di scuoprire i delitti e di garantire la libertà individuale...”. Ibidem, pp. 432-433. Queste convinzioni dell’autore erano condivise in pieno anche dal Mittermaier il quale in una lettera del 31 dicembre 1854 allo stesso Fiani (riportata nel Trattato  in una nota a pag. 433) così si espresse: “Ho studiato molto in Londra la condotta della Polizia inglese; sono stato in gran familiarità coi Magistrati di Polizia, ed ho trovato che in nessun altro paese gli uffiziali della Polizia godono una sì potente autorità, e hanno il vantaggio di essere assistiti per ogni cittadino: la ragione è che i cittadini son persuasi che la Polizia non è destinata a spiare i loro sentimenti politici o religiosi, le loro espressioni o manifestazioni, ma solamente a proteggerli nei loro diritti e a contribuire alla investigazione dei misfatti”. Sbriccoli considera l’opera del Fiani “quanto di meglio abbia prodotto in materia di polizia la dottrina italiana prima dell’Unità”. Cfr. M. SBRICCOLI, voce “Polizia” (diritto intermedio),  su Enciclopedia del diritto, XXXIV, Milano, 1985, p. 119, nota 54. Il Fiani nel Trattato  affermò anche che nel 1847 si era limitato a pubblicare un opuscolo in materia di polizia e a rimandare l’edizione di un manuale completo a causa dei “tempi procellosi che allora correvano” e proprio perché contro la polizia erano “più vivamente diretti gli attacchi del Popolo”. Il Fiani (sulla cui biografia sappiamo pochissimo) come affermato nell’intitolazione dell’Opuscolo sulla riforma della Polizia in Toscana, era un avvocato che però aveva avuto esperienza di funzionario di polizia; lo si desume dalla prefazione del Trattato:  “La posizione nella quale per la natura degli impieghi da me percorsi io mi trovava da fronte alla Società, e gli ufficii di Polizia che tuttogiorno era in dovere di esercitare ponendomi a contatto con tutte le classi del popolo, e dandomi campo di studiarne i piaceri, i bisogni e le abitudini, agevolavano grandemente la mia intrapresa”. Poi, un articolo estratto dalla Gazzetta dei Tribunali  di Firenze del 1 febbraio 1856 e un altro estratto dal fascicolo 39 del giornale fiorentino di legislazione e di giurisprudenza La Temi  del dicembre 1853 (contenenti una recensione del Trattato e riportati entrambi in appendice all’opera) ci informano che il Fiani aveva ricoperto la carica di delegato di governo a Pisa. I commenti all’opera furono altamente positivi (“...è un pregiabile lavoro, specialmente per la Toscana fino ad ora priva di un libro scientifico-pratico sulla materia... ed io termino la critica rivista augurando al mio paese dei libri e delle pubblicazioni simili a questa, della quale non so se sia maggiore il pregio legale o l’utilità pratica”, si legge ad esempio nel primo documento) e questa ricevette, in particolar modo l’entusiastico plauso dell’illustre professor Mittermaier che nella già citata lettera all’autore, dichiarando di avere ricevuto “1° Codice toscano ridotto a tavole sinottiche: 2° Corso d’istituzioni criminali: 3° L’opera sulla Polizia”, così si espresse: “Sono persuaso che i libri 1° e 2° saranno utili per lo studio del Codice toscano; ma il più importante libro è quello sulla Polizia. Disgraziatamente tutti gli scrittori hanno trascurato lo sviluppo dei principii sui quali la legislazione sulla Polizia debbe esser fondata. Non esiste un libro in Germania nel quale sia sviluppata la teoria delle trasgressioni di Polizia, e sarà un dovere per me di far propagare in Germania la conoscenza dell’opera del signor Fiani”. Il Trattato, allora, si pone come imprescindibile punto di riferimento per chiunque voglia intraprendere lo studio della storia dell’organizzazione dei poteri di polizia in età contemporanea. Mentre la seconda opera citata è il Breve corso di d'istituzioni di diritto criminale combinato con le teorie del codice penale toscano, Firenze, 1854.

 

[8] B. FIANI, Opuscolo sulla riforma della Polizia in Toscana, Prato, 1847, p. 5.

 

[9] P. ROSSI, Trait dà droit pena,  1843, p. 57, ma per questo lavoro è stata reperita una nouvelle editino dell’opera, Bruxelles, 1850.

 

[10] B. FIANI, Trattato... cit. p. 18.

 

[11] Ergo,  esistevano leggi che trattavano di una ‘certa’ polizia ma mancava quasi del tutto una efficace organizzazione del corpo stesso (che fu istituito ufficialmente solo nel 1765) e delle relative competenze. Gli uomini addetti a queste funzioni si chiamavano esecutori criminali o “famigli” o “birri” e formavano delle squadre agli ordini dei bargelli; non esistevano uniformi o altri segni distintivi. Pietro Leopoldo nelle Relazioni sul governo della Toscana,  (p. 137) ricordò che al momento del suo arrivo nel Granducato gli esecutori “considerati da una parte per infami, odiati dal pubblico... nominati dai bargelli, che li eleggevano e mutavano come volevano, molti forestieri, poco pagati dal governo... questi fomentavano tutte le trasgressioni, commettevano qualunque arbitrio ed estorsione e non erano quasi mai puniti, mentre in caso di ricorso i bargelli li facevano sparire se erano forestieri e gettavano poi la colpa addosso a loro”. (PIETRO LEOPOLDO d’ASBURGO LORENA, Relazioni sul governo della Toscana, I, Firenze, 1969).Comunque, sull’ “infamia” di questi personaggi cfr. la nota 7. E. Fasano Guarini ha dimostrato come durante tutta l’età medicea si susseguissero molteplici bandi ed ordinanze che pur non menzionando il termine “polizia” si occupavano di problemi attinenti a quest’ultima, o per lo meno al significato che ad essa è stato dato in relazione a quei secoli, significato che coincide essenzialmente con la espressione sostitutiva di “buon governo”. Venivano così trattate questioni “inerenti all’ordine pubblico quotidiano e all’economia.. ci si occupa di armi e banditi, ma anche della produzione e del commercio dei grani, della gelsicoltura; del mantenimento dei fossi e delle strade: si vuole disciplinare materialmente il territorio”. (Cfr. E. FASANO GUARINI, Gli “ordini di polizia” nell’Italia del ‘500: il caso toscano, in Ius Commune Sonderhefte,  1996, Frankfurt am Main, p. 95.)

 

[12] Pietro Leopoldo, durante il suo soggiorno viennese dell’estate del 1776 studiò a fondo il regolamento della polizia parigina e rimase favorevolmente impressionato dalle principali misure adottate come la divisione della città in quartieri per un controllo più efficace, le figure del liutenant de police  e dei Commissaires e l’imponente rete di spionaggio organizzata da Antoine de Sartine, liutenant de police  di Parigi. Inoltre il sovrano venne a conoscenza del Trait de la police  di Nicolas Delamare, il quale, secondo M. Sbriccoli, “fu il primo grande teorico della attività di polizia: l’ambito e lo stile di azione che lui le attribuì sono rimasti validi, si può dire, fino ad oggi, e non solo nelle politiche degli stati unitari”. Cfr. M. SBRICCOLI, “Polizia” (diritto intermedio),  su Enciclopedia del diritto, cit. p. 118. Tutto ciò influenzò profondamente Pietro Leopoldo e lo portò alla emanazione dell’editto del 26 maggio 1777 dove molte delle anzidette soluzioni furono recepite.

 

[13] M. SBRICCOLI, “Polizia” (diritto intermedio),  su Enciclopedia del diritto, cit. p. 111.

 

[14] I. SANTANGELO SPOTO,”Polizia”  su Digesto italiano, XVIII, Torino, 1906-1912, p. 974.

 

[15] Ibidem.

 

[16] E. FASANO GUARINI, Gli “ordini di polizia” nell’Italia del ‘500, cit. p. 58.

 

[17] Voce”Polizia”  in N. TOMMASEO-B. BELLINI, Dizionario della lingua italiana,  Torino- Napoli, III, 1869.

 

[18] G. REZASCO, Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo, Firenze, 1881, p. 819. Quello appena citato, secondo l’autore, rappresentava il primo significato del termine. Più avanti la polizia era considerata come sinonimo di Buon Governo (“la polizia toscana da Leopoldo ebbe nome e natura di Buon Governo”), cioè “quella parte di governo civile che procura la pace interna e la sicurezza pubblica e privata”. Ibidem, pp. 819-820.

 

[19] Alle “polizie” fa riferimento A. CONTINI in La città regolata, cit.p.426, evidenziando come alla fine del Settecento non esistesse un significato universale del termine, e al contrario ci si trovasse davanti ad una nozione plurisenso, dipendente dai luoghi e dai periodi considerati.

 

[20] P. NAPOLI, Polizia d’Antico Regime, cit. p. 9. Lo studioso, confermando questa premessa, conclude la sua analisi sulla polizia toscana affermando che “l’esperienza toscana della nozione di polizia si presenta in definitiva segnata, sul piano della razionalità politica, da una carenza ontologica che ne fa emergere soltanto la natura pratico-strumentale... il termine polizia non dice una cosa più alta del significato contestuale: l’essenza della cosa-polizia è risolta nell’estremità periferica degli atti materiali volti a prevenire i reati e a garantire la tranquillità sociale”.

 

[21] L’esigenza di storicizzare il termine per delimitarne la portata “a causa dei diversi significati attribuiti a questa parola nelle singole situazioni istituzionali e culturali storicamente verificatesi” è sentita anche da C. MANGIO come premessa al suo La polizia toscana, cit.p. 9. B. Sordi, poi, in un recente lavoro che pone le basi per successivi sviluppi della storia della funzione della polizia in età contemporanea, constatando che fino ad adesso gli studi hanno dovuto scontare una “prospettiva di ricerca... quasi esclusivamente germanocentrica”, evidenzia la necessità di allargare l’indagine alle altre realtà europee. Solo effettuando un’attenta comparazione fra le esperienze della policey,  della police, della policia, e della polizia  (solo per citare le più importanti) si potrà giungere a constatare se è mai esistita una “Policeygesetzgebung, ovvero una legislazione in senso materiale relativa agli affari di polizia, comune ai diversi percorsi nazionali”. Operazione preliminare al confronto è però la conoscenza approfondita delle singole esperienze di polizia, su cui, al momento, gli studi languono un po’ ovunque. (Cfr. B. SORDI, Linguaggi comuni e difformi sentieri istituzionali nel passaggio dalla polizia di antico regime all’amministrazione moderna, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 26/97, Milano, 1997).

 

[22] Ad esempio, ciò è accaduto con i termini “giacobinismo” e “fascismo”.

 

[23] Montesquieu, a differenza della maggioranza dei suoi contemporanei, credeva che la razionalità della normativa giuridica fosse determinata “dalla congiunzione di tutti i fattori genetici del diritto in quel singolo contesto spazio-temporale e politico-geografico”. (G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, cit. p. 421).

 

[24] Queste erano rappresentate dagli organi collegiali a rilevanza costituzionale (gli Stande ) rappresentativi della nobiltà feudale e della borghesia cittadina che tradizionalmente ponevano un limite alla attività politica del principe territoriale. Per una completa analisi si veda G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, cit.

 

[25] I. SANTANGELO SPOTO, “Polizia”  su Digesto italiano, cit. p. 980.

 

[26] O polizia di sicurezza avente carattere “strettamente politico, per la tutela dell’ ordine generale”, Ibidem, p. 988.

 

[27] Questa sembra una denominazione più ‘filosofica’ giacché dal lato prettamente tecnico-giuridico alla Siecherheitpolizei  si preferiva contrapporre una Vollzugspolizei  (polizia di esecuzione, avente carattere di “polizia di investigazione e di ausilio giudiziario”) ed una Verwaltungpolizei  (polizia amministrativa, “puro mezzo di difesa dell’Amministrazione contro le azioni o le omissioni di coloro che potrebbero impedirne il retto funzionamento”). Anche per queste nozioni si veda I. SANTANGELO SPOTO, “Polizia” su Digesto italiano, cit. p. 988.

 

[28] A. PERTILE, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’Impero romano alla codificazione, Torino, 1898.

 

[29] N. BOBBIO, Il diritto naturale nel secolo XVIII, Torino, 1947, p. 88.

 

[30] P. SCHIERA, “Cameralismo”,  su Dizionario di politica, Torino, 1983, p.125.

 

[31] Ibidem, p. 126.

 

[32] G. ALESSI, Le riforme di polizia nell’Italia del Settecento: Granducato di Toscana e Regno di Napoli,  in Istituzioni e società in Toscana nell’ età moderna, cit. p.407.

 

[33] Ha scritto P. COLOMBO in ‘Police’, ‘ordre public’, e sureté de l’ Etat: la trasformazione dell’ ordine politico in ordine costituzionale  in Materiali per un lessico giuridico europeo: “Polizia”, 1988, p. 127: “ciò che è davvero politico si gioca ormai altrove, ad un livello decisamente più alto di cui l’attività di polizia sarà d’ora in avanti, e con poche eccezioni, soltanto una conseguenza, un pallido riflesso”.

 

[34] P. SCHIERA, Il Cameralismo e l’Assolutismo tedesco. Dall’Arte di Governo alle scienze dello Stato,  Milano, 1968, p. 141.

 

[35] M. SBRICCOLI, “Polizia” (diritto intermedio),  su Enciclopedia del diritto, cit.. 118. L’autore ricorda anche che alcuni corpi di polizia come i Carabinieri Reali piemontesi o i Reali Carabinieri del Ducato di Lucca, o la stessa Gendarmeria del Granducato di Toscana furono modellati su quelli d’oltralpe (la Gendarmeria fu addirittura omonima di quella francese). Riguardo l’influenza del modello francese sull’organizzazione della polizia voluta da Pietro Leopoldo si veda la nota 10. Cfr. anche C. MANGIO, La polizia toscana, cit. pp. 63 - 66.

 

[36] B. FIANI, Trattato, cit. p. 4. Poco più avanti egli affermò di avere intrapreso un’impresa “vasta, faticosa e difficile”.

 

[37] I. BUONFANTI in Teoria del regolamento di polizia, ossia trattato completo di tutte le trasgressioni, per Iacopo Buonfanti, Sostituto Regio Procurator Generale, Lucca, 1852-1854, p. 6, ad esempio, evidenziò che “lo scritto ch’io pubblico è importante, e nuovo quanto altro possa esservi in questa materia”. Così egli si propose di analizzare il “delitto di polizia... con metodo, classarne scientificamente e con esattezza le materie”. Il Buonfanti, come si ricava anche da titolo dell’opera fu “sostituto del procuratore regio generale di Lucca” ed avvocato. (Si veda l’articolo dell’avvocato G. Panattoni estratto dal fascicolo 53 de La Temi  del gennaio 1856 contenuto in appendice al Trattato del Fiani, in cui egli fu riconosciuto come il “primo ad imprendere un trattato sulla polizia”). Sempre in un documento in appendice al lavoro del Fiani, si trova la menzione delle altre opere del Buonfanti: un “buon Manuale di diritto penale” e un “Commentario non finito al nuovo Codice Toscano”. Probabilmente quest’ultimo non fu terminato per la sopravvenuta morte dell’autore: nel citato articolo de La Temi  fu ricordato che il Buonfanti, all’epoca, era defunto.

 

[38] B. FIANI, Trattato, cit. p. 4.

 

[39] Ci furono invece illustri criminalisti che si occuparono anche  di istituzioni di polizia ma nell’ambito dei loro studi penali. Tra questi “giustizia vuole che come primo si annoveri il Carmignani la cui celebre dottrina intorno alla difesa preventiva è la meno imperfetta di quante se ne conoscano su tale materia”. (Cfr. I. BUONFANTI,Teoria del regolamento di polizia, cit. p. 7) Il Buonfanti faceva riferimento alla celebre Teoria delle leggi della sicurezza sociale  pubblicata dal giureconsulto pisano negli anni 1831-1832. Inoltre il Carmignani inserì alcuni brevi cenni in materia di polizia al termine dei suoi Elementi di diritto criminale.

 

[40] Sulla legge 9 marzo 1848, si veda supra, II.1.

 

[41] L’unione col settore del diritto penale era confermata dal proemio: “Avendo stimato opportuno di ordinare che il Regolamento del 22 ottobre 1849 nella parte che riguarda la polizia punitiva, fosse ripreso in maturo esame, per subire quelle riforme che l’esperienza avesse potuto suggerire,e per essere posto in armonia col Codice penale che avevamo in animo di promulgare...”. L’esigenza di riformare il regolamento del 1849, indipendentemente dalla pubblicazione del codice penale era sentita anche dal Buonfanti, il quale nel 1851 pensava che questo documento normativo avrebbe avuto bisogno di “alcune lievissime sì, e parziali emende, ma tuttavia da renderne necessaria una nuova pubblicazione”. (Cfr. I. BUONFANTI ,Teoria del regolamento di polizia, cit.p. 11).

 

[42] S. VINCIGUERRA, Fonti culturali ed eredità del codice penale toscano,  presentazione al Codice penale pel Granducato di Toscana,  ristampa anastatica, Padova, 1995, p. CLXIII.

 

[43] Ibidem.

 

[44] Ibidem.

 

[45] Si veda la precedente critica del Vinciguerra.

 

[46] I. BUONFANTI Teoria del regolamento di polizia, cit.p. 52.

 

[47] Ibidem, pp. 52 - 53.

 

[48] Ibidem, pp. 55.

 

[49] Il regolamento “della polizia punitrice” del 22 ottobre 1849 divideva anch’esso le pene di polizia in principali ed accessorie. Le principali erano rappresentate dal carcere, dalla multa e dalla riprensione giudiciale, mentre quelle accessorie erano la sottoposizione alla vigilanza della polizia, la confisca delle cose “sulle quali cadde, o con cui fu commessa la trasgressione, ed appartenenti al trasgressore” ed infine l’art. 69 prevedeva che “quando per la contravvenzione è stato cagionato un danno, il suo autore, deve essere condannato anche alla emenda di questo”. Inoltre, come notò il FIANI nel Trattato, cit.p. 115, “sebbene il Regolamento nella litterale enumerazione delle pene non annoveri quella accessoria della sospensione, o inabilitazione all’esercizio d’un ‘industria richiedente licenza governativa, patente, ec. pure esso ammette l’applicazione della pena medesima, come chiaro apparisce dagli articoli 149, 160”. L’elenco delle pene di polizia fatto dal Fiani e il Buonfanti nei loro manuali ricalca essenzialmente quanto detto sopra.

 

[50] Ed infatti non esistevano trasgressioni di polizia punite con la pena di morte.

 

[51] B. FIANI, Trattato, cit.pp. 20- 21.

 

[52] Ibidem, p. 31.

 

[53] G. CARMIGNANI, Progetto di codice per il Portogallo,  tit. I, § 3. (Purtroppo non è stato possibile reperirlo).

 

[54] Vengono portati come esempi l’ozio, il vagabondaggio e il gioco d’azzardo.

 

[55] L’autore rammentò che anche nella Leopoldina (artt. 107 e 114) era prevista la distinzione fra trasgressioni e delitti di polizia, ma ciò rimase lettera morta perché nella pratica “non suol farsi tale distinzione, confondendosi le une e gli altri sotto il nome di trasgressioni”. Furono altresì evidenziate le teorie del “professor Giuliani” che nel suo Istituzioni di diritto criminale, definì la trasgressione o delitto di polizia: “La violazione d’una legge creata per procurare alla società una più compiuta sicurezza, o una maggiore prosperità”. (Ma il testo non è stato reperito).Il Buonfanti, invece, parlò del “ grande ed originale ingegno” del Beccaria che aveva avuto il merito di definire correttamente per primo il delitto di polizia “una azione che la legge vieta, o comanda in vista della pubblica utilità”. Ma già lo stesso giurista milanese suggerì ai sovrani di essere cauti nella creazione delle trasgressioni “Il proibire una moltitudine di azioni indifferenti non è prevenire i delitti che ne possono nascere, ma egli è un crearne di nuovi; egli è un definire a piacere la virtù e il vizio, che ci vengono predicati eterni ed immutabili. A che saremmo ridotti se ci dovesse esser vietato tutto ciò che può indurci al delitto? Bisognerebbe privar l’uomo dell’uso dei sensi”. (Cfr. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene,  Livorno, 1764, § 48).

 

[56] C. MANGIO, La polizia toscana, cit.p. 11.

 

[57] Repertorio del diritto patrio vigente, III, Livorno, 1833, p. 79.

 

[58] Ibidem, p. 79, nota (a).

 

[59] Ibidem.

 

[60] I. BUONFANTI, Teoria del regolamento di polizia, cit.p. 3.

 

[61] “E’ stato detto e ripetuto, che è meglio prevenire i delitti, che punirli. Così esposta, questa non è che una massima di politica provvidenza; ma io dico di più, che sarebbe crudeltà, ed ignoranza punirli, quando si possono prevenire; così quello che fu dettato come utile  soltanto, si vede qui esser regola  di rigoroso jus”. (G. ROMAGNOSI, Genesi del diritto penale, Milano, 1823, § 422).

 

[62] B. FIANI, Opuscolo, cit.p. 7.

 

[63] B. FIANI, Trattato, cit.p. 10.

 

[64] Ibidem, p. 9.

 

[65] I. BUONFANTI,Teoria del regolamento di polizia, cit.p. 28.

 

[66] B. FIANI, Trattato, cit.p. 10.

 

[67] V. supra, nota 38.

 

[68] G. CARMIGNANI, Elementi di diritto criminale, traduzione italiana sulla quinta edizione di Pisa, Milano, 1863, p. 462.

 

[69] J.B. SAY, Trait d’Economie politique,  Paris, 1803, p. 7. Lo si può consultare nella traduzione italiana della sesta edizione francese in Biblioteca dell’economista, prima serie, VI, Torino, 1854.

 

[70]  G. CARMIGNANI, Elementi di diritto criminale, p. 462.

 

[71]  Ibidem.

 

[72] Ibidem.

 

[73] A questo proposito Mangio ha notato come nella legislazione leopoldina i due termini erano “quasi” sinonimi, avvicinandosi maggiormente il termine “pulizia” al “momento della prevenzione da conseguirsi limitando le libertà personali”. (Cfr.  C. MANGIO, La polizia toscana, cit.p. 10.) La medesima idea concernente un apparato avente tra i suoi scopi la prosperità e il buon ordine sociale sta alla base de La politica o sia il governo di polizia. Ragionamento del Dottore Jacopo M. Paoletti volterrano Lettor giubbilato di giurisprudenza teorico-pratica criminale e primo Assessore del Supremo Trib. di Giustizia di Firenze, di J. M. PAOLETTI, Firenze, 1804. Egli, profondamente influenzato dalla riforma di Pietro Leopoldo,  significativamente affermò che per mezzo della polizia “si estirpano i vizi, si tengono in freno le passioni, si fa fiorir la virtù e si stabilisce il buon ordine; in conseguenza si diminuiscono i delitti... e si forma la felicità del popolo con la sussistenza, sicurezza della persona, sostanze ed estimazione di ciascheduno individuo”. Per l’uso dell’espressione “buon governo” come sinonimo di polizia nell’età precedente, invece, si veda supra, nota 11.

 

[74] G. CARMIGNANI, Elementi di diritto criminale, cit.pp. 462-463.

 

[75]Ibidem, p. 463. Tra gli autori menzionati dal Carmignani si trovavano De la Marre (dovrebbe essere Nicolas Delamare, sul quale si veda la precedente nota 12), Mellier, Perriot, Blefeld e il Sonnenfels.

 

[76] Si veda la nota 7 di questo capitolo.

 

[77]  I. BUONFANTI, Teoria del regolamento di polizia, cit.p. 42.

 

[78]  Ibidem, p. 30.

 

[79] Ibidem, p. 92. Più avanti l’autore rimarcò che solo l’autorità della legge, “può restringere la libertà individuale, erigendo certe azioni in delitto”.

 

[80] B. FIANI, Trattato, cit.p. 75.

 

[81]Ibidem. Il Fiani riprendendo l’argomento in appendice alla sua opera, per avvalorare la tesi secondo la quale il magistrato di polizia “non può essere uniforme nelle sue risoluzioni”, riportò un passo di un “chiarissimo pratico toscano” che è utile riprodurre: “Un medesimo uniforme sistema per tutto lo Stato non può adattarsi al Governo di Polizia. Perché siano efficaci, occorre che le misure governative si uniformino al carattere delle nazioni, le quali non tutte hanno sortito l’istesso naturale, e carattere: così nella nostra Toscana diversifica il carattere, il naturale, e le passioni fra il casentinese, il romagnolo, l’aretino, il sanese, il maremmano, il pisano, il fiorentino, il pistojese, onde un istesso sistema non può regolar con pari successo il capo, e il cuore di tutte indistintamente queste popolazioni”. (J.M. PAOLETTI, La politica o sia il governo di polizia, cit.).

 

[82] Ibidem, p. 74.

 

[83] Sbriccoli parla di una “grande opera di disciplinamento della società”. Cfr. M. SBRICCOLI,“Polizia” (diritto intermedio),  su Enciclopedia del diritto, cit.p. 120.

 

[84] B. FIANI, Opuscolo, cit.p. 8.

 

[85]Ibidem.

 

[86] Ibidem.

 

[87]  Ibidem.

 

[88] Ibidem.

 

[89] Ibidem.

 

[90] Ibidem. Ecco un elenco di ciò che rientrava nel suo ambito: “i regolamenti municipali relativi al libero uso delle cose pubbliche, alla nettezza delle strade e piazze, quelli che appellano alla pubblica salute, cioè sulla salubrità delle vettovaglie, sulla tumulazione dei cadaveri fuori dell’abitato, quelli ancora che si riferiscono alla pubblica economia, come la conservazione dei pubblici monumenti, e ornamenti della città, il mantenimento degli oggetti d’arte, i regolamenti su i mercati delle grascie, le prescrizioni relative alla giustezza dei pesi, e delle misure, e finalmente tutte le leggi di Polizia agraria, o rurale dirette a favorire, e tutelare l’agricoltura e la pastorizia”. (Cfr. B. FIANI, Opuscolo, cit.p. 12).

 

[91] Secondo il Carmignani la polizia di diritto poteva essere “I. o economica, che tende a promovere l’umana socialità, e garantire la vita civile degli uomini dai danni, a prevenire i quali non bastan le leggi penali: II. o governativa, che rimove le cause dei delitti: III. o ausiliatrice della giustizia nello scoprimento dei rei: o punitiva, la quale o supplisce la imperfezione delle leggi, o si occupa delle azioni, che non appartengono al diritto penale propriamente detto” (G. CARMIGNANI, Elementi di diritto criminale, cit. p. 465)

 

[92] B. FIANI,Trattato, cit.p. 27.

 

[93] Ibidem, p. 26.