CAPITOLO
III
III.1. I processi
economici e i modi in cui erano introdotti.
Il
materiale di archivio oggetto della ricerca può essere suddiviso in due grosse
parti di cui la prima è quella concernente i processi economici o sommari[1] verificatisi
nel territorio della Delegazione di Governo di Pontedera tra il 1858 e i primi
mesi del 1860, precisamente fino all’annessione del Granducato al Regno di
Sardegna, avvenuta il 22 marzo 1860, mentre la seconda riguarda il carteggio[2] intrattenuto
con la Prefettura di Pisa, all’incirca nel medesimo periodo di tempo.
Il
processo economico era appunto il mezzo principale di cui si servivano le
autorità di polizia per irrogare delle particolari misure specialpreventive ante o praeter delictum (anche se in un caso eccezionale, cioè la
sottoposizione alla sorveglianza della polizia[3], erano
applicate post delictum) dotate di
una certa elasticità di applicazione in maniera da adattarsi alle molteplici
circostanze che si presentavano.
Invece,
le “pene di polizia”, come notato[4],
appartenevano a quella sezione di essa denominata “punitrice” o “punitiva”
oppure “di diritto” corrispondente ai giudici ordinari ed essenzialmente non si
discostavano dalle punizioni previste dal codice penale per i reati.
Per
descrivere efficacemente questa distinzione il Fiani affermò che sia la polizia
di diritto che quella di fatto facevano uso di “espedienti penali”[5] e questi, se
nel primo caso conservavano il carattere di pene vere e proprie “perché si
irrogano per un fatto commesso od omesso in disprezzo della Legge che l’ha
litteralmente proibito”[6], nell’altro
dovevano più specificamente denominarsi “mezzi di prevenzione”[7] perché
destinati, non tanto a punire un’azione illegale, quanto ad “allontanare un
fatto nocivo di cui è probabile l’avvenimento, o per correggere tendenze e
abitudini turbolenti e viziose, che in progresso di tempo potrebbero condurre
al delitto”[8].
Non
trattandosi di un processo ordinario, le suddette misure potevano essere prese
semplicemente tramite una “verificazione sommaria, e la contestazione dei fatti
e dei motivi che giustificano la misura”[9] oppure
addirittura “senza bisogno di atti formali”[10].
Un’appropriata
definizione del processo economico ci è stata lasciata dal Fiani nel Trattato di polizia:
Il Processo
economico è un processo che si compila in scritto, ed in segreto, per il quale,
abbreviate le forme, ed omesse le solennità che si richiedono nel processo
criminale, sommariamente si ricerca se un fatto denunziato sia veramente
avvenuto, se fondati siano i timori d’un supposto pericolo sovrastante alla
pubblica sicurezza, e tranquillità, e se meritevole di repressione sia un
individuo, indicato come infesto e pericoloso all’ordine per le sue tendenze, e
per le sue abitudini[11].
I
fatti oggetto del processo economico potevano essere indicati dalla legge solo
genericamente ed essere “anche di mero sospetto o di mera intenzione”[12] dato che non
si trattava di veri e propri crimini puniti alla stregua del codice penale, ma
piuttosto di “piccoli delitti”[13], “piccole
offese”[14] o “azioni
immorali” recanti “scandalo o mal esempio alla società”[15].
La
potestà economica era, dunque, l’elemento caratterizzante l’attività di
prevenzione della polizia e, sotto questo punto di vista, le sue competenze
ricalcavano più o meno quelle stabilite dalla riforma di Pietro Leopoldo,
mentre la principale differenza si riscontrava dal punto di vista soggettivo,
una volta eliminata la figura del vicario regio come titolare dei poteri
ordinari e di polizia e ristabilite le mansioni nei modi sopra descritti.
Ecco
che allora per spiegare il significato dell’espressione usata dal Fiani
“processo che si compila... in segreto” possiamo servirci delle disposizioni
contenute nella “Leopoldina” e dei suoi primi commentatori: l’art. 49 della
legge del 30 novembre 1786, per amore di garantismo, aveva proibito gli “atti
segreti o camerali su dei quali si presumesse di prendere contro qualcheduno
qualsivoglia risoluzione, benché stimata di leggiero momento”.[16]
Questa
soluzione si sarebbe armonizzata coll’esistenza del processo economico stesso,
caratterizzato proprio dalla mancanza di quelle “solennità che si richiedono
nel processo criminale”[17] e quindi
dall’essere “spedito”[18] e “semplice”[19], dalla
obbligatorietà della contestazione e dalla possibilità offerta all’incolpato
“di portare le sue discolpe pettoralmente davanti al Ministro”[20].
Il
processo economico era tipicamente inquisitorio giacché l’azione del magistrato
di polizia provocata da una delazione segreta o dalla pubblica voce o da
semplici sospetti, procedeva d’ufficio nel raccogliere le prove sui fatti in
questione e sulle complessive abitudini degli individui verso i quali, molto
spesso sarebbe stata successivamente applicata una qualche misura[21].
Nella
stragrande maggioranza dei processi analizzati l’incipit era rappresentato da un rapporto del sergente della
gendarmeria (la quale, a partire dall’agosto del 1859 sarebbe stata sostituita
dal corpo dei carabinieri) del capoposto del picchetto della stessa o del
commesso di pubblica vigilanza, indirizzato al Delegato di Pontedera: come
evidenzia il Fiani questo atto era semplicemente enunciativo dato che “il
denunziatore si limita ad annunziare, o segnalare un fatto, o una persona
sospetta”[22] lasciando
all’arbitrio del delegato la valutazione se procedere con ulteriori
investigazioni[23] per
verificare la reale sussistenza dei fatti che, è bene ricordarlo, nella quasi
totalità dei casi non costituivano un illecito penale o una trasgressione di
polizia punitiva.
Questi
rapporti contenevano l’indicazione di alcuni testimoni (dove era possibile e
cioè quasi sempre) tra i quali non compariva la persona dello scrivente a meno
che non si trattasse di flagranze, casi nei quali i soli gendarmi procedevano
anche all’arresto in via cautelativa del soggetto (e se erano stati consumati
veri e propri delitti costoro agivano non più in qualità di agenti di polizia
preventiva bensì giudiziaria) : i commessi, avendo solo competenze
investigative e non anche esecutive come la gendarmeria, si dovevano limitare
alla compilazione degli atti[24].
Tuttavia,
i commessi di pubblica vigilanza (ve ne era uno per ogni delegazione di governo
ex art. 43 regolam. pol. amm.) e la
gendarmeria, in qualità di forze ausiliarie del magistrato di polizia (i primi
come corpo civile e la seconda come corpo militare) erano accomunati dal
compito della vigilanza, considerato “il mezzo più diretto di prevenire i
delitti”[25], che, non
potendo essere determinata a priori senza sminuirne la funzione stessa, si
esercitava genericamente “su tutti e su tutto”[26] anche se esistevano
delle categorie tradizionalmente ritenute pericolose verso le quali occorreva
una speciale attenzione da parte delle forze dell’ordine:
i pregiudicati
in materie delittuose; gli oziosi e i vagabondi; i forestieri privi di
conosciuti mezzi di sussistenza, o per qualunque altra ragione sospetti; i
domestici privi d’attuale impiego e senza risorse; i prepotenti e
attaccabrighe; i fomentatori di discordie; le persone dedite al libertinaggio;
i figli di famiglia prodighi e dissoluti; le osterie e le bettole; i teatri; i
pubblici ridotti di giuoco; le case di scostumatezza; le grandi riunioni; le
associazioni sospette; e tutti i luoghi di pubblico concorso...[27]
Confrontando
all’interno dei testi normativi le competenze dei commessi e della gendarmeria,
si ha la conferma che queste erano simili e, appunto, incentrate sulla
vigilanza: il regolamento di polizia del 1849 stabiliva che i commessi e i loro
aiuti erano destinati a:
ricercare e
scuoprire i delinquenti e a sorvegliare le persone che spiegano perniciosa
tendenza ai delitti, e a qualsivoglia disordine a danno della pubblica quiete,
e della pubblica, e privata sicurezza.... invigilano sul movimento dei
forestieri, sui pubblici alberghi... sorvegliano i teatri, i pubblici ridotti
permessi, o tollerati... portano in generale la loro assidua vigilanza sopra
ogni infrazione consumata o attentata alla leggi dello Stato, sulle offese
pubbliche, o in altro modo scandalose, della morale, e della religione, e
procurano di scuoprire gli autori di tali disordini.[28]
E
il regolamento della gendarmeria del 1851 prescriveva che:
i Gendarmi
vigileranno nella Campagna: sulle sicurezza delle strade... sopra i vagabondi,
sulli sconosciuti di sinistre apparenze, sulli scarpatori e danneggiatori di
campagna... nell’interno poi delle città e dei paesi vigileranno: sul libero
transito e sulla nettezza delle strade e delle piazze: sulla questua ove ed in
quanto è proibita: sopra i giuochi proibiti: sulla osservanza dei giorni
festivi, bestemmia e turpiloquio... sul disturbo della quiete notturna... sulla
osservanza... generalmente di tutte le disposizioni contenute nel vigente
Regolamento di Polizia de’ 22 Ottobre 1849... speciale vigilanza eserciteranno
i Gendarmi sopra gl’individui diffamati, sospetti e pregiudicati in qualsiasi
genere di delinquenza... sarà cura dei gendarmi vigilare in ogni luogo e tempo
sopra i forestieri... per rintracciare i forestieri sospetti, come pure i
vagabondi e i contumaci visiteranno frequentemente le osterie, le bettole e i
pubblici alberghi[29]
Pertanto,
l’attività di sorveglianza era esercitata in tutti i luoghi pubblici - ed in
alcuni in particolare, quelli dove era solita ritrovarsi “la parte meno
educata, e più intemperante e viziosa del popolo” - ed era rafforzata in quelle
occasioni come le fiere o i mercati dove maggiore era la presenza di persone e
quindi più frequente il pericolo di risse o altri disordini, mentre una
barriera era posta dalla legge a tutela delle dimore private che non potevano
essere arbitrariamente violate dalla polizia tranne che in specialissimi casi[30].
Nel
Trattato il Fiani evidenziò
l’importanza e al tempo stesso l’insufficienza delle perlustrazioni notturne
effettuate dalle pattuglie della gendarmeria che, specialmente nelle grandi
città, erano impossibilitate a sorvegliare tutte le strade, cosicché egli
propose l’istituzione di un corpo ausiliario di “vigili notturni”[31] muniti di
trombe (per avvertire i gendarmi di eventuali delitti)[32] e dislocati
nei vari quartieri cittadini.
Se
la gendarmeria nello svolgere tutti i suoi compiti di vigilanza agiva
“scopertamente” , all’opposto, i commessi operavano in segreto[33] e per
questo, probabilmente, si avvalevano con maggiore frequenza rispetto ai
gendarmi dell’operato dei delatori, anche se trovando all’inizio di ogni processo
economico un rapporto scritto di uno dei due corpi non è facile per
l’interprete capire ciò che stava a monte, il reale primum movens.
Però,
diversi processi contengono delle espressioni chiarificatrici: ad esempio nel
processo n° 458[34], nel quale
due donne di Marti furono accusate di abitualità nel furto campestre, il
rapporto della gendarmeria di Palaia si apriva così:
Al seguito delle
ripetute lagnanze avanzate a questa Gendarmeria...[35]
Sembra
corretto, allora, catalogare il procedimento tra quelli causati dalla “pubblica
voce”[36] così come
altri ad esso simili dove è possibile leggere frasi di questo tenore:
Molti sono i
lamenti che si sono elevati nel popolo di Marti...[37]
Talvolta
il topos delle “ripetute lagnanze”, il
quale necessariamente si legava ad un’abitualità di comportamento, forse per
dare una maggiore credibilità, era rafforzato dall’espressione “avanzate da
probe ed oneste persone”[38].
Altre
volte poi, la ‘fonte’ rimane abbastanza oscura in quanto le autorità si
limitavano a dei generici “è venuto a cognizione del sottoscritto”[39], “corre
voce”[40], “si dice”[41], “consta
allo scrivente”[42], mentre in
altri processi ancora, sembra che l’iniziativa partisse dalla gendarmeria
stessa; questo accadeva sicuramente nei casi di flagranza, nei quali il
rapporto al delegato interveniva ex post a
formalizzare e giustificare la misura d’urgenza dell’arresto.
Difatti
si hanno diversi casi nei quali la gendarmeria aveva proceduto ad arrestare
ubriachi molesti nei quali si era imbattuta (in locali pubblici o per le strade)[43] oppure
soggetti accusati di “condotta girovaga e sospetta” in quanto non dimoranti nel
territorio della delegazione e ivi trovati senza mezzi di sussistenza[44].
Altre
ipotesi di uso dello stesso procedimento si riscontrano in quei processi
causati dall’avere i gendarmi sorpreso degli individui in possesso di prodotti
campestri di cui non sapevano giustificare in maniera convincente la
provenienza[45].
Ma
questa “iniziativa di ufficio” poteva sussistere anche in ipotesi di
abitualità: in un rapporto della gendarmeria di Pontedera del 14 gennaio 1859
colui che scriveva:
si sente in
dovere di informare V. S. Illma della condotta scostumata e libertina cui va
dedicandosi la nota donna Fortunata Marinai la quale... si prostituisce
pubblicamente nella propria abitazione[46]
L’ordine
di “attivare le investigazioni” poteva poi provenire direttamente dal delegato
che, per informarsi sul conto di certe persone sospette, prudentemente
preferiva usufruire delle segrete indagini del commesso di vigilanza[47].
Però,
niente vieta di presupporre che anche dietro questi ultimi processi ci fosse la
denunzia di un qualche delatore, dato che le ‘confidenze’ di questi uomini così
vicini al pubblico potere non erano certo conservate per scritto, potendo
allora lo studioso moderno fare solo delle ipotesi su questa pratica allora
considerata un “male necessario”[48] per
combattere “la malvagità degli uomini”[49].
Probabilmente
accanto ad una schiera di delatori ‘professionali’, alle dipendenze delle
autorità di polizia e verso i quali era riposta la massima credibilità,
esisteva un sistema ‘semiufficiale’ attraverso il quale ogni privato cittadino
poteva riferire alle autorità i propri sospetti sulla condotta di chiunque
altro; e ciò non doveva apparire molto strano, anzi rientrava nella normalità
dei rapporti civili come riflesso della mentalità comune.
E
quindi, il gigantesco schema di controlli incrociati che così si doveva essere
stabilito non era altro che il risultato ultimo di quella occhiuta politica del
sospetto inaugurata da Pietro Leopoldo - persona eccessivamente zelante quasi
fino alla paranoia riguardo questi temi[50] - tramite
l’esigere continui rapporti informativi dai funzionari di polizia sul conto dei
propri colleghi di modo che non solo i superiori controllavano i loro sottoposti
ma avveniva anche il contrario.
È
noto, poi, che sotto il regno di Ferdinando III le autorità di polizia per
potere essere puntualmente informate sull’esistenza e sull’attività delle varie
sette di cospiratori usufruirono dell’operato degli “amici segreti” (così erano
chiamati i delatori)[51].
Fortunatamente
il Fiani dedicò alcune (preziose) pagine all’argomento, di cui intimamente
avvertiva la necessità e la ineliminabilità, ma allo stesso tempo, preso da
scrupoli di ordine morale, pareva quasi scusarsi dell’esposizione di un tema
così “tristo”[52] e della sua
sopravvivenza nella realtà.
Dapprima
egli affermò che bisognava saper distinguere i ‘veri’ delatori, prezzolati
agenti del pubblico potere, dalle persone oneste le quali “senza l’idea d’una
ricompensa si fanno rivelatori di progetti criminosi”[53].
Successivamente
egli suddivise i delatori in tre specie diverse:
1°. Quelli,
attaccati dirò così alla Polizia, che hanno colla medesima rapporti continui;
2°. Quelli che
prestan servigii temporarii in certe determinate occasioni;
3°. Quelli
finalmente, che una qualche circostanza spinge alla rivelazione, e che sono da
riguardarsi come istrumenti accidentali, che spariscono prestato il servigio[54]
Mentre
gli appartenenti alla prima categoria erano i ‘professionisti’, veri e propri
ausiliari di Polizia che per la conoscenza dei modi e delle abitudini dei
malviventi si rivelavano utilissimi, i secondi, dalla descrizione fornita dal
Fiani sembravano essere figure di confine tra gli agenti e i malavitosi; i
terzi, infine, non appartenevano affatto alla polizia ma erano delinquenti che
svelavano il nome ed i piani dei complici “o per speculare sull’allettamento
d’una retribuzione per il servigio prestato, o per sottrarsi ad una pericolosa
posizione, e tentare di trarre nello stesso tempo un vantaggio dalla conoscenza
dei fatti ai quali hanno preso parte”[55].
Nei
documenti d’archivio oggetto della ricerca il termine delatore compare
(comprensibilmente) poche volte: una prima, in relazione ad un processo
economico dell’ottobre 1859 riguardante un uomo di Cascina, Ernesto Stefanini,
sospettato di capeggiare un “complotto”[56]
filolorenese; il commesso di vigilanza incaricato dell’indagine ritenne
opportuno allegare al rapporto informativo “alcune carte” che gli erano
“fiduciariamente capitate per le mani”.
Si
trattava di due atti classificati come “reclami” ed avanzati contro lo
Stefanini negli anni precedenti.
Nel
primo veniva dichiarato che lo Stefanini, “nefando pei suoi brutalissimi
principj religiosi e politici, persecutore dei Preti e dei Frati, libertino,
vagabondo, promotore delle discordie fra marito e moglie”, attraverso l’opera
calunniosa di alcuni delatori era solito provocare provvedimenti ingiusti da
parte della Prefettura di Pisa e della Delegazione di Pontedera nei confronti
di onesti cittadini.
Per
convincere il delegato della veridicità di tali asserzioni era ricordato il
basso profilo morale dell’uomo: egli, “bestemmiatore ereticale”, osò persino
comunicare un cane in chiesa proferendo le parole dell’eucarestia; era solito
frequentare le prostitute e le mogli altrui, nonché offendere le autorità e i
regnanti con parole “che rifugge la penna a trascrivere” e che causavano grande
scandalo tra gli abitanti di Cascina.
Nel
secondo reclamo l’estensore si lamentava del fatto che mentre “il paese di
Cascina per le mene di pochi tristi trovasi martoriato con pene preventive
dalla Delegazione di Governo di Pontedera, mentre le vittime della calunnia e
del livore soffrono la immeritata sventura”, i responsabili erano in libertà e
continuavano a sfogare “le loro private animosità col fare da delatori e
testimoni a vicenda”.
Tra
questi, Ernesto Stefanini, “il suddito più ribelle allo stato e al Principe”,
il “rovinatore di famiglie”, il “seminatore di discordie” che, tuttavia, godeva
della “stima e fiducia della Delegazione di Governo di Pontedera”; erano, anche
qui, enunciati vari episodi di empietà che avevano visto l’uomo protagonista.
È
interessante notare la forte insofferenza (per usare un eufemismo) della gente
comune verso coloro i quali avevano l’abitudine di compiere delazioni,
personaggi non a caso ritenuti capaci (a torto o a ragione?) di compiere delle
azioni che erano considerate le più deprecabili nella bigotta campagna pisana
del secolo scorso, quelle contro il comune sentimento etico e religioso.
I
timori reverenziali del Fiani erano più che giustificati...
In
un altro processo, nel rapporto della vigilanza si legge che la formalizzazione
dell’accusa di “condotta irregolare e sospetta in furti campestri”[57] a carico di
tre giovani pontederesi fu possibile grazie all’operato di “persone fiduciarie”[58] ed in una
sola altra occasione, nei numerosi documenti presi in analisi, fu menzionato un
“fiduciario delatore”[59].
Il
caso dello Stefanini mostra anche l’esistenza di un’ulteriore possibilità,
sovente sfruttata, di avviare un processo economico tramite degli atti scritti
provenienti da un privato cittadino che, ricorrendo ad una lunga serie di
sinonimi, erano denominati appunto “reclami”[60] o “memorie”[61] oppure
“esposti”[62] o ancora,
“doglianze”[63], “querele”[64], “denunzie”[65], ma più
spesso “istanze”[66] o “istanze
di richiamo”[67] o, infine,
“istanze ed esposizioni”[68].
Dunque,
si deve pensare ad una fattispecie che in piccola parte ricalcava i tratti del
processo accusatorio, dato che i soggetti operavano scopertamente formalizzando
il proprio atto di accusa e agendo per la tutela dei propri diritti soggettivi
- proprio in questo particolare caso, secondo il Fiani, le accuse assumevano il
nome di “reclami” - o di interessi diffusi - mentre le denunzie contenute nei
rapporti delle autorità di polizia erano sempre a tutela di un pubblico
interesse - come nel caso di esempio o come in un’altra situazione verificatasi
sempre a Cascina nel giugno del 1859[69] quando un
uomo indirizzò un esposto al Delegato di Pontedera per lamentarsi del
comportamento di una ragazza, “il disonore del paese di Cascina”, che
solitamente si prostituiva complice la più totale indifferenza della
gendarmeria locale.
Ma,
eccetto questo diverso modo di introdurre il processo, tutto il resto rimaneva
inalterato, strutturandosi sulla falsariga del processo inquisitorio.
Infine,
per dare inizio alle indagini poteva essere sufficiente persino una semplice e
vigliacca lettera anonima: sebbene “per regola la denunzia anonima non merita
fede... sarebbe contrario alla prudenza politica il trascurare affatto
simiglianti denunzie” e perciò nella documentazione d’archivio sono
rintracciabili alcuni di questi processi dei quali è stato conservata anche la
poco edificante causa[70].
III.2. I testimoni e la
difesa.
Le
uniche prove ammesse nei processi economici erano quelle testimoniali, così
ogni qual volta gli ausiliari del delegato di governo (la gendarmeria e la
commissione di pubblica vigilanza) redigevano un rapporto informativo si preoccupavano
di nominare nel medesimo un buon numero di “fidefacenti”.
Questa
operazione rappresentava una condizione essenziale per la punizione in via
economica dei soggetti tant’è vero che, se in un rapporto qualcuno era
sospettato di un certo comportamento rientrante tra quelli da reprimere
“sommariamente” ma mancavano completamente dei testimoni, il delegato ordinava
di procedere con ulteriori indagini fino a che non si fosse trovato qualcuno
pronto a deporre[71].
Allora,
dato che la misura veniva a dipendere quasi totalmente dalle deposizioni dei
testimoni, si usava ascoltarne, ove possibile, un buon numero (nella maggior
parte dei processi analizzati erano per lo meno quattro) dopo averli intimati a
comparire in giudizio tramite il cursore addetto alla delegazione o l’aiuto
commesso di vigilanza che svolgevano questo compito recandosi ai rispettivi
domicili dei testimoni.
Di
seguito questi funzionari minori redigevano un referto[72] nel quale
davano conto della avvenuta o mancata citazione oppure informavano il
magistrato di polizia che il testimone non si sarebbe potuto presentare (molto
spesso per malanni fisici) e in quest’ultimo caso il delegato poteva anche non
essere pienamente convinto e credendo invece di trovarsi di fronte a delle
scuse inviava (sempre per mezzo dei cursori o degli aiuti commessi) al presunto
inabilitato un atto dove era scritto:
si fa precetto
a... perché... comparisca personalmente avanti al sottoscritto alla pena
mancando di £ 5[73]
Per
arrivare ad una condanna in via economica, d’altronde, erano sufficienti poche
dichiarazioni, anche basate su dei semplici sospetti perché in genere veniva
punita un’abitualità di comportamento; non doveva rappresentare un’impresa
impossibile trovare qualcuno (talvolta nemmeno troppo disinteressato) disposto
a rendere dichiarazioni sfavorevoli all’imputato.
A
volte, però, accadeva che veniva istruito un processo e i testimoni non erano
in grado di dichiarare nemmeno quel minimo bastevole per la punizione di
polizia: tre uomini di Ponsacco, accusati di “condotta sospetta in furti”[74] non poterono
essere condannati in via economica ma furono semplicemente assoggettati a
“serio monito” con la minaccia di più severe misure poiché “non abbia nessun
fidefacente deposto di averli veduti in atteggiamento sospetto ne (sic) a
girovagare di notte”.
È
da chiedersi se in casi come questi esisteva un vero e proprio muro di omertà
dettato dalla paura di ritorsioni o se piuttosto l’insuccesso dipendeva dalla
incapacità dei gendarmi e del commesso a trovare dei testimoni attendibili, ma
la risposta non potrà comunque essere sicura.
Anche
nei già citati casi di flagranza, sebbene il rapporto dell’autorità potesse
astrattamente rappresentare una prova sufficiente, si preferiva fare deporre i
gendarmi che si limitavano a ribadire quanto affermato precedentemente in esso
e qualora non vi fossero stati altri testimoni (come nei casi di arresto di
ubriachi che molestavano gli avventori dei locali[75]) erano
sentite comunque delle persone in grado di rendere delle dichiarazioni non
tanto sul fatto specifico, quanto piuttosto sulla relativa abitualità di quel
comportamento[76].
Negli
atti d’archivio tutte le testimonianze iniziano con la data e la frase di rito
“al seguito dell’unito rapporto... (della gendarmeria o della pubblica
vigilanza) è stato fatto citare e compare personalmente avanti...”, poi, dopo
che il soggetto aveva fornito le proprie generalità, veniva fatto giurare e gli
veniva chiesto (ma sono conservate solo le risposte) se conosceva l’imputato e
se aveva “interessi di sorta” con lui (ed ovviamente si presumeva una risposta
negativa).
Seguiva
la deposizione vera e propria; dopo, “previa lettura” della stessa, il
testimone firmava (se ne era capace) e veniva “licenziato”[77].
I
testimoni erano interrogati singolarmente e il loro nome rimaneva segreto per
l’imputato, il quale era sentito posteriormente alle dichiarazioni dei primi;
in tale modo era gravemente menomato il suo diritto di difesa “posto
nell’impossibilità di eccezionare, o discreditare le deposizioni dei testimoni
a lui contrarii”[78].
In
più esisteva il pericolo che i testimoni, non trovandosi in un regolare
processo e non potendo essere accusati di falsa testimonianza, deponessero il
falso e così, per di più protetti dallo schermo della segretezza ( che però in
vicende ‘clamorose’ avvenute in piccoli paesi di campagna era più apparente che
reale), finivano per “sacrificare l’innocenza ad una privata vendetta”[79].
Il
Fiani riteneva che questo sistema, pur con le accennate pecche, fosse il
migliore possibile, soprattutto se il magistrato di polizia con la propria
prudente azione vi avesse supplito ammettendo le sole testimonianze di persone
“specchiate per onestà e probità”[80] e rigettando
“le deposizioni di quei Protei e Camaleonti... che si danno per presenti a
tutti i fatti, che vantano di tutto sapere, di tutto conoscere, che novelli
taumaturgi, nel medesimo giorno e nell’ora stessa hanno l’abilità di trovarsi
in luoghi diversi, e che spesso altro non sono in sostanza che gli stessi
delatori”[81].
Un’altra
decisa presa di posizione contro i delatori, dunque; ma sarebbe occorso ben
altro che il suggerire questi generici rimedi di stampo moraleggiante per
estirpare la perniciosa abitudine della delazione ‘professionale’.
Inoltre
egli, forte della propria esperienza[82], credeva che
se il nome dei testimoni del processo economico fosse stato conosciuto
dall’imputato, raramente si sarebbe trovato chi “di buona voglia si adattasse a
render testimonianza, o interrogato, volesse sinceramente deporre la verità,
quando questa fosse per riuscire dannosa all’ imputato”[83], mentre
niente di simile avveniva nei processi penali ordinari dove i testimoni non si
preoccupavano affatto di dire la verità, quantunque dannosa per l’imputato.
I
motivi di questa diversità, secondo l’autore, consistevano in ciò: mentre nei
processi ordinari il testimone “è chiamato a deporre d’un fatto realmente
avvenuto.... d’un fatto che ogni uomo onesto deve voler punito”[84], nel
processo economico egli:
é chiamato non
già a deporre sopra un fatto determinato ma sulla generalità d’un oggetto, e ad
esternare il proprio giudizio intorno al medesimo. E se un fatto speciale è il
soggetto della sua testimonianza, non riveste questo gli odiosi caratteri, per
i quali il vero delitto è colpito dalla riprovazione universale. Più di sovente
però nel processo economico il testimone è richiamato a dileguare col suo
detto, o confermare un concepito sospetto; e a dare informazioni secondo la sua
coscienza sulla condotta d’un individuo. La prova quindi che si intende di
raccogliere da tal testimone, non è desunta da materiali di fatto, ma piuttosto
dal modo particolare di pensare, e di sentire del testimone stesso circa
l’oggetto cui si riferisce la sua deposizione, a render la quale più o meno
favorevole, più o meno contraria all’imputato grandemente perciò influiscono le
simpatie, le opinioni, le tendenze e le disposizioni d’animo del testimone
medesimo.
Da ciò avviene
che dove i resultati della prova abbian consigliato una severa misura a carico
dell’imputato, sa il testimone che alla trista di lui sorte hanno grandemente
influito le informazioni che... egli ha date... e che perciò potrebbe incorrere
nel risentimento di lui.[85]
In
questa spiegazione, quindi, il Fiani accostava considerazioni di carattere
morale, quella ‘alta’ dei grandi dottori del diritto, a quell’ ‘etica
dell’utile’ a cui certamente era più sensibile la gente comune data la sua
forte presenza nella vita quotidiana: un bracciante della campagne pontederesi
era sicuramente più spaventato dall’idea di subire delle ritorsioni (molto
frequenti tra gente di bassa cultura e poco rispettosa dell’ordine stabilito)
da un proprio paesano che attirato da quella “riprovazione universale” che a
gran voce ed in ogni tempo richiede la punizione dei delitti.
Per
ciò che riguarda la difesa dell’imputato, il regolamento del 1849 si limitava a
riportare più volte l’espressione “verificazione sommaria”[86] e a
sottolineare la necessità della contestazione nei confronti del reo delle
proprie mancanze e, in definitiva, l’esercizio del diritto di difesa,
gravemente menomato dalle modalità di assunzione delle testimonianze, si
riduceva solamente “alle semplici verbali discolpe”[87] fornite
dall’imputato in risposta alle suddette contestazioni.
L’imputato
era ascoltato anch’egli singolarmente e dopo un periodo di tempo successivo
all’audizione dei testimoni che poteva variare da pochi giorni a qualche
settimana e dipendeva dal numero di testimoni da ascoltare e dal contenuto
delle loro deposizioni: se non vi erano elementi tali da giustificare
l’emanazione di una misura, l’imputato non veniva nemmeno interrogato e,
addirittura, se per la natura dell’imputazione egli non era stato nel frattempo
sottoposto alla custodia preventiva, avrebbe anche in seguito ignorato che
erano state “a di lui carico intraprese verificazioni economiche”[88] e, a maggior
ragione, in questi casi, non sarebbe mai venuto a conoscenza dell’imputazione.
Questa,
normalmente gli era palesata per la prima volta, data la natura segretamente
inquisitoria del procedimento, proprio al momento della sua audizione, dopo che
egli aveva declinato le proprie generalità e ricordato i propri eventuali
precedenti “economici” ed “ordinari”[89] (se cioè era
mai stato condannato all’osservanza di qualche precetto di polizia o era
incappato nelle maglie della giustizia penale ordinaria); solo allora si
sentiva rivolgere l’accusa e successivamente gli era data facoltà di
discolparsi, cosa che avveniva fornendo personali versioni dei fatti o delle
proprie abitudini: e, in sostanza, ciò rappresentava il momento centrale della
difesa, la massima opportunità concessa all’accusato in un processo economico.
In
seguito, l’autorità ribadiva l’accusa, faceva presente all’incolpato che la
fondatezza di essa risultava dalle affermazioni dei testimoni e che per questo
egli sarebbe stato con molta probabilità sottoposto “ad una qualche misura di
polizia”[90] e ascoltava
le sue successive dichiarazioni di replica cui aveva diritto.
Però,
le asserzioni finali degli imputati ormai erano inutili, non avrebbero potuto
influire sulla decisione del delegato e di ciò essi erano ben consapevoli così
come si rendevano perfettamente conto che la loro speranza di impunità in quei
processi dipendeva da eventuali benevole deposizioni dei testimoni, i quali,
comunque, avevano già svolto il loro compito quando venivano ascoltati gli
imputati.
Indi,
costoro tentavano blandamente qualche difesa, ma quando gli veniva comunicata
una probabile futura soggezione ad una qualche misura di polizia, rispondendo
al delegato non potevano fare altro che rassegnarsi o negare disperatamente,
magari affermando di essere vittime di ingiustizie dovute per lo più ad errori
o a calunnie dei testimoni, proprio ciò che secondo il Fiani doveva essere
evitato per non fare scadere questo tipo di processo in uno strumento di vendetta
personale: “cosa le devo dire?”[91], “cosa vuole
che le dica?”[92], “pazienza”[93], erano le
risposte più frequenti che rivelavano la sensazione di impotenza degli
imputati.
Ma,
come detto, c’era anche chi con sdegno rigettava gli addebiti, opera peraltro
vana, negando puramente e semplicemente (“non è vero nulla”[94]) oppure
ascrivendo la responsabilità dell’emanazione della misura alla malafede dei
testimoni (“tanto hanno giurato il falso”[95]) o a un loro
errore[96].
Altri
denunciavano di essere vittime di una non bene definita ingiustizia[97], o
rimanevano increduli[98], mentre
qualcuno candidamente ammetteva la propria colpa[99].
Qualche
volta, poi, avveniva che dietro loro specifica richiesta avanzata al momento
della contestazione, fosse permesso agli accusati di nominare dei “testimoni
defensionali”[100] e che,
quindi, il diritto di difesa fosse leggermente più articolato.
Così
dopo avere ascoltato anche costoro, il delegato faceva richiamare l’accusato e
non era infrequente che gli comunicasse di essere rimasto del parere di
prendere una qualche misura: un giovane di Zambra, essendo venuto a conoscenza
che contro di lui “fu avanzato un rapporto a cotesta Delegazione”[101], decise
addirittura di anticipare i tempi avanzando un’istanza alla delegazione
medesima nella quale affermava che “essendo cotesto rapporto informato
malignamente, si rende necessario di contrapporli una prova per mezzo di
testimonj ineccezionabili”[102].
Ma
nemmeno questa preventiva difesa ebbe esito felice ed il giovane fu sottoposto
a dei precetti di polizia.
In
questi casi, quando qualcuno sapeva di indagini in corso sul proprio conto,
poteva difendersi nell’unica maniera possibile per i processi economici (che
avevano carattere inquisitorio): tramite un atto scritto in cui richiedeva di
procedere all’ascolto di alcuni testimoni a favore[103].
Altre
volte, nei casi in cui gli imputati erano dei giovani, i genitori indirizzavano
delle istanze al delegato nelle quali lo esortavano ad ascoltare dei testimoni
che avrebbero potuto scagionare i loro figli; questi atti potevano sommarsi ad
altri analoghi in cui, al contrario, altre persone chiedevano la punizione
degli accusati e a loro volta nominavano testimoni.
In
simili casi si arrivava ad una sorta di contraddittorio scritto[104].
Altre
volte ancora[105] era il
parroco del paese che tramite un atto scritto intercedeva presso il delegato in
favore degli accusati ricordando la loro onestà e rettitudine ovvero auspicando
una punizione mite e che comunque non fosse di pregiudizio alle loro capacità
lavorative dato che spesso erano accusati uomini “di condizione
miserabilissima”[106] e che
rappresentavano l’unica fonte di sostentamento delle loro numerose famiglie[107].
Il
Fiani, per rendere più equo questo procedimento, consentendo un migliore
esercizio del diritto di difesa, propose di assegnare all’imputato un margine
di tempo dopo la contestazione del fatto, durante il quale egli avrebbe potuto
difendersi nella maniera da lui ritenuta più efficace, anche attraverso memorie
scritte, compilate “da lui stesso, o da speciale suo Procuratore o Difensore
legale” che avrebbe potuto prendere visione delle carte del processo (pur
rimanendo ancora segreti i nomi dei testimoni)[108].
Al
contrario, lasciando le cose come stavano il ruolo del difensore era del tutto
inutile:
su quali dati
potrà questi basare la sua difesa, quando non gli è concesso di esaminare il
processo?[109]
Da
un ricorso presentato al consiglio di prefettura di Pisa si desume l’avversità
dei contemporanei per il processo economico: a seguito di una lunga vicenda il
difensore[110] di alcuni pastori
lamentava oltre a motivi sostanziali, dei vizi di forma ed il principale era
costituito dal fatto che i propri assistiti non avrebbero dovuto essere
condannati “in via economica odiosa sempre perché arbitraria, senza difesa e
contraria al voto sociale”[111] e per quel
particolare caso suggerivano un processo civile “previa la contestazione
dell’accusa di danno dato”[112].
Infine,
notava che la genericità dell’accusa non permetteva una difesa adeguata;
infatti “anche nei processi economici le Leggi Toscane comandano che l’imputati
abbiano il diritto della difesa che si contestino ad essi i fatti speciali ed i
giudizi proferiscano giusti”[113].
La
prefettura, però, oltre a rigettare il ricorso nel merito, si comportò
analogamente per le difese di rito, affermando con decisione, così come aveva
fatto il Fiani, la necessità della così detta “polizia di fatto” e la di lei
arbitrarietà:
... né può dirsi
che il procedimento del potere governativo sia contrario al voto sociale
imperocché in qualunque bene ordinato governo, il potere stesso è
indispensabile per prevenire e punire i capi non contemplati dalla legge, o che
possono sfuggire per pruova non contemplata, al potere ordinario.[114]
Infine,
la prefettura ritenne sufficientemente precisa l’accusa e concluse il proprio
decreto affermando che “i ricorrenti hanno tentato di ingannare il loro
difensore e nulla più”[115].
III.3. Il decreto
economico e i ricorsi.
Innanzi
tutto è bene fare una precisazione: fino ad adesso, per semplicità espositiva
ed in ossequio alla lettera del regolamento di polizia del 1849, è stata
decisamente affermata la distinzione fra polizia preventiva e polizia punitrice
e si è detto, seguendo l’art. 1 di tale regolamento, che le loro rispettive
competenze erano caratterizzate (si perdoni le annominazioni) dalla prevenzione
e dalla punizione delle trasgressioni.
Addentrandosi
nell’analisi della polizia preventiva, questo pur valido assunto di base dovrà
essere valutato con gli opportuni temperamenti dato che, come si vedrà, un’idea
così rigida e così ‘pura’ dei compiti di polizia non scaturisce neppure dallo
stesso regolamento del 1849.
I
delegati di governo in qualità di magistrati inferiori di polizia - incarico
che rivestivano unitamente ai sotto prefetti, mentre i prefetti, avendo nel
proprio compartimento la suprema direzione di polizia si configuravano come
magistrati superiori - potevano emanare una serie di misure di prevenzione,
rappresentanti il fulcro della loro attività, “i mezzi ordinari”[116]: le
ammonizioni ed i precetti[117].
Le
ammonizioni (chiamate dal Fiani nell’Opuscolo
sulla riforma della polizia in Toscana, anche “ingiunzioni economiche”[118]) costituivano le misure minime che
potevano essere prese dalle autorità di polizia e servivano a rimproverare “per
la prima volta”[119] una “men che
lodevole condotta”[120] senza
menomare la libertà di quei soggetti che vi incappavano; il delegato (come gli
altri suoi colleghi) somministrava le ammonizioni verbalmente “senza bisogno di
atti formali”[121] e talvolta
le muniva “della minaccia parimente verbale di un formale precetto”[122].
Ben
si adattava, allora, la definizione di “amorevole paterna reprimenda”[123] escogitata
dal Fiani per questo mezzo di prevenzione.
In
una ipotetica scala di gravità delle sanzioni, alle ammonizioni facevano
immediatamente seguito i precetti i quali erano suddivisi in positivi (aventi
come contenuto un obbligo di fare[124]) e negativi
(caratterizzati dall’obbligo di non fare[125]) e in
naturali e politici: i precetti cosiddetti naturali vietavano o comandavano
“una cosa a norma delle leggi di natura”[126] come poteva
succedere nel caso del precetto di vivere onestamente che era dato alle donne
dai costumi libertini, o nell’altro caso ancora del precetto di comportarsi
pacificamente spesso emanato nei confronti dei giovani dediti alle risse.
Tali
precetti, chiamati anche “ingiunzioni con comminatoria”[127] dal Fiani
nel Trattato con una terminologia
affine a quella usata nella precedente sua opera per le ammonizioni, poiché non
facevano altro che ribadire dei doveri connaturati in ogni uomo dalla retta
moralità, dovevano irrogarsi a tempo indeterminato.
I
precetti politici, invece, imponevano di “fare ciò che potrebbe essere omesso
senza contravvenire ad alcuna legge naturale, morale e civile”[128] oppure
vietavano “di fare una cosa lecita di sua natura”[129].
Così
la naturale libertà dei cittadini veniva ad avere un nuovo limite di diritto
positivo, cosa di per sé stessa biasimevole, ma necessaria per la prevenzione
di “un male maggiore”[130].
I
precetti politici previsti dal regolamento di polizia del 1849 erano elencati
nel lungo art. 12, ricompreso nel titolo III portante la significativa
denominazione “dell’azione preventiva e dei mezzi relativi”, ed erano i
seguenti:
1. Di
rassegnarsi in certi determinati giorni ed ore all’Autorità;
2. Di far noto
all’Autorità il luogo della respettiva dimora;
3. Di non
allontanarsi clandestinamente dal tetto paterno, o coniugale, facendone
richiesta il padre o la madre tutrice, o il tutore o il marito;
4. Di non
portare armi di qualunque specie...
5. Di non
intervenire ai teatri, ai ridotti di giuoco, alle bettole, alle osterie;
6. Di ritirarsi
in casa ad un’ora determinata della sera, e di non uscirne fino ad un’ora
determinata della mattina;
7. Di non
intervenire in certi luoghi di concorso in occasione di fiere, mercato, feste e
pubblici spettacoli;
8. Di non
conversare con certe determinate persone;
9. Di non
recarsi in un dato luogo o di non allontanarsi da un dato luogo oltre una certa
distanza senza permesso dell’Autorità;
10. Di non
introdursi nei fondi altrui senza licenza del possessore, o di chi lo
rappresenta;
11. Di sfratto
dal Gran-Ducato ai Forestieri mendicanti e vagabondi, ed a quelli che per
difetto di legali documenti non hanno da giustificare l’esser loro;
12. Di sfratto
dal Gran-Ducato ai Forestieri, che sono stati riconosciuti, o che resultano
fondatamente sospetti di una condotta, o di qualità morali o politiche, capaci
di porre in pericolo la sicurezza interna ed esterna dello Stato o di turbare
l’ordine pubblico, o la pubblica o privata tranquillità.
Il
Fiani avvertiva che simili precetti, per la loro natura “politica” avrebbero
dovuto essere emanati “per uno spazio di tempo certo e determinato”[131] e molto
opportunamente gli estensori del regolamento del 1849, secondo questo
suggerimento[132], all’art. 10
disposero che essi non avrebbero dovuto oltrepassare la durata di un anno salvo
i casi dei numeri 11 e 12 dell’art. 12.
Poi,
precisarono nell’art. 11 che i precetti:
non possono
prorogarsi, né rinnuovarsi se nel tempo della loro durata non sono stati
trasgrediti e se non sono sopravvenuti fatti imputabili al precettato, pei
quali il nuovo precetto debba essere imposto indipendentemente dal primo.
L’art.
19, invece, si occupava della forma dei precetti che era quella del decreto
motivato “da notificarsi dal Cursore... nei modi e forme prescritte dalla Legge
per la notificazione delle sentenze dei Tribunali Criminali”; avvenuta la
notificazione il cursore doveva renderne atto al delegato tramite un rapporto.
Quelli
che sono stati catalogati come precetti naturali non erano espressamente
menzionati ma l’art. 13, in qualità di elastica norma di chiusura, riguardava
generici “provvedimenti”[133] che le
autorità di polizia potevano prendere qualora fossero stati richiesti “dal
bisogno di mantenere la salute, la sicurezza, la tranquillità, la morale, e
decenza pubblica”[134] e più
esplicitamente la legge del 16 novembre 1852, all’art. 12 autorizzò i delegati
di governo a emanare “indipendentemente dai precetti enumerati nell’Art. 12 del
Regolamento di Polizia... tutte quelle ingiunzioni che la prudenza potrà
consigliare nello scopo di mantenere il buon ordine, e di assicurare
l’esecuzione delle leggi”[135] .
L’arresto,
il “sequestro in Pretorio”[136], l’ “arresto
in casa”[137] e
l’allontanamento provvisorio da un dato luogo erano le ultime misure di prevenzione
previste dall’art. 13 del regolamento di polizia: definite “straordinarie” e
“di urgenza” dal seguente art. 16, terminologia dovuta al fatto che le prime
tre escludevano del tutto la libertà personale degli individui assoggettati,
avevano anch’esse dei limiti temporali che furono successivamente aggravati da
una legge del 1851[138] e potevano
essere “adottate senza formalità di atti”[139], ma
semplicemente basate su “fatti che l’Autorità riconosca sussistenti”[140].
Tutti
i precedenti istituti appartenevano alle misure di prevenzione e
rappresentavano il momento distintivo dell’attività di polizia, il cardine sul
quale ruotavano le altre attribuzioni che avevano però un carattere meno
peculiare in modo da configurarsi al confine col diritto penale.
Conscio
di questa realtà, il Fiani dichiarò che se la polizia raggiungeva direttamente
il proprio fine, cioè la prevenzione dei delitti, con la vigilanza
e
le altre misure rammentate, tuttavia la sua attività non si esauriva in ciò ed
era necessario un secondo modo indiretto di arrivare a questo risultato: “la
correzione del cittadino” [141] che non
poteva essere raggiunta se non attraverso l’irrogazione della pena[142].
Dunque
vacillava quella concezione della polizia preventiva posta in essere dal
regolamento del 1849 che, peraltro, accoglieva al proprio interno delle
disposizioni facenti espressamente menzione di pene che potevano essere
irrogate dalle autorità di polizia nel caso di trasgressioni ai precetti: gli
articoli 23-27 racchiusi nel titolo V (“delle pene per le contravvenzioni ai
precetti”) prevedevano l’arresto e il carcere fino ad un massimo di due mesi -
pena che poteva essere irrogata solo dai consigli di prefettura, mentre la
competenza dei delegati di governo comprendeva le pene fino ad un massimo di
otto giorni - per le trasgressione ai vari precetti, che una volta infranti
erano rinnovati per tutta la loro originaria durata.
Gli
articoli seguenti descrivevano la procedura da seguirsi che era, ovviamente,
quella del processo economico.
Scorrendo
brevemente i casi nei quali la Prefettura di Pisa era chiamata a giudicare
dell’inosservanza di precetto si nota che quello maggiormente infranto - anche
perché era quello che veniva emanato dal delegato di Pontedera con maggiore
frequenza - era l’annuale precetto di non introdursi nei fondi altrui previsto
al n° 10 dell’art. 12 del regolamento di polizia.
I
molteplici trasgressori a questo precetto erano ordinariamente puniti con la
misura minima, cioè con otto giorni di carcere ai quali si aggiungevano il
pagamento delle spese processuali e la rinnovazione del precetto per tutta la
durata originaria[143].
Nei
casi di recidiva poi, (secondo l’art. 25 del regolamento di polizia) la pena
era raddoppiata e così il trasgressore doveva scontare 16 giorni di carcere[144] che potevano
divenire molti di più in caso di reiterazione[145].
Successivamente,
avendo l’esperienza dimostrato che “la Polizia preventiva spogliata di
qualunque facoltà coercitiva era insufficiente ai bisogni del mantenimento
dell’ ordine”[146], il
legislatore toscano volle rivedere le proprie scelte ed ampliò quella piccola
appendice penale riservata alla polizia preventiva dal regolamento del 1849
dapprima timidamente, con la legge del 25 aprile 1851 che concesse ai consigli
di prefettura la facoltà di decretare la dimora coatta e la reclusione in una
fortezza contro “chiunque resulti ad essi essersi reso partecipe di trame
dirette a turbare l’ordine pubblico, o ad attentare alla sicurezza, od alla
libera azione del Governo, o a rovesciare od alterare la religione dello Stato”[147], poi in
maniera più decisa con la fondamentale legge 16 novembre 1852, la quale venne a
rivoluzionare il sistema elaborato tre anni prima.
Se
il primo provvedimento poteva apparire dettato da necessità contingenti di
ordine pubblico (questo sarebbe confermato dalla scelta dei comportamenti da
assoggettare a pena di polizia) il secondo, nonostante le assicurazioni in esso
contenute[148] e i
tranquillizzanti commenti del Fiani[149], pareva
piuttosto orientarsi verso una scelta a tutto campo: quella di restituire a
tutti i magistrati di polizia una (relativamente) ampia “giurisdizione punitiva
e coercitiva” già da loro posseduta prima del regolamento del 1849.
Decisione
definitiva dato che i comportamenti da punire non rientravano in una precisa
tipologia (come nel caso precedente) ma soprattutto perché le competenze così
stabilite rimasero tali fino allo spirare della autonomia toscana.
In
base all’art. 1 della legge 16 novembre 1852 i delegati di governo potevano
decretare “nelle competenze della Polizia amministrativa”[150] la pena del
carcere fino ad un massimo di otto giorni “anche fuori del caso di
trasgressione ai precetti di Polizia”[151] previsti dal
regolamento del 1849, mentre i sotto prefetti ed i prefetti erano abilitati ad
applicare la stessa pena fino rispettivamente ad un mese e a tre mesi. (Artt. 2
e 3).
I
consigli di prefettura (formati dal prefetto e da due consiglieri), infine,
avrebbero potuto decretare la mutazione coatta del domicilio, la detenzione
nella casa correzionale e la reclusione in una fortezza fino a tre anni.
Tutti
i provvedimenti dovevano essere presi dalle autorità di polizia tramite decreto
motivato mentre la compilazione degli atti dei processi economici (che venne
così definitivamente confermato nella sua duplice veste di mezzo apportatore di
misure di prevenzione e di pene vere e proprie) spettava ai soli delegati di
governo[152].
Alcune
norme del regolamento del 1849[153], ribadite ed
ampliate dalla legge del 1852[154], garantivano
ai condannati in via economica un molteplice grado di giurisdizione, sia nel
caso in cui il provvedimento avesse avuto ad oggetto misure di prevenzione, sia
che fossero state irrogate sanzioni penali.
Cosicché,
dopo l’emanazione di questi due importanti atti normativi si aveva questa
situazione: contro i decreti dei delegati di governo era consentito ricorrere
ai consigli di prefettura entro tre giorni dalla notificazione ed i ricorsi non
avevano effetto sospensivo delle misura di prevenzione, ma, qualora fossero
state emanate delle pene, servivano a paralizzarne temporaneamente l’efficacia;
contro le risoluzioni dei sotto prefetti era previsto il ricorso ai prefetti i
cui atti decisionali, insieme a quelli del consiglio di prefettura potevano
essere impugnati presso il ministero dell’interno.
Riguardo
questo sistema il Fiani pareva scettico, paventando il pericolo di un’autorità
suprema ‘ammazza sentenze’:
Per tal modo un
solo può disfare quello che tre hanno fatto. Vero è che nel Magistrato di rango
superiore sta la presunzione d’una maggior sapienza; ma è vero altresì che
nell’opinione dei più sta la presunzione della minor fallibilità di fronte
all’opinione dei meno.[155]
Probabilmente
egli riteneva che una eccessiva macchinosità del sistema dei ricorsi avrebbe
annullato quella speditezza del processo economico che rappresentava da sempre
la sua caratteristica principale, anche se è da notare che la legge del 1852
consentiva il ricorso contro le pene emanate dalle autorità di polizia solo
quando oltrepassavano un certo limite.
III.4. I processi e gli
affari politici.
Una
parte consistente dei processi economici tenutisi nei due anni precedenti
l’annessione della Toscana al Regno di Sardegna riguarda questioni politiche.
Nel
Granducato lo strumento del processo economico era già stato usato in passato
per reprimere (vere o pretese) defezioni in materia politica e come al solito
fu Pietro Leopoldo ad imprimere una svolta alla disciplina.
Egli
dapprima, con l’art. LXII della “Leopoldina” volle ridurre i delitti di lesa
maestà a “delitti ordinari della loro classe respettiva”[156] e
successivamente un altro articolo dello stesso provvedimento[157] tolse la
competenza ai giudici ordinari riguardo la punibilità del dissenso politico
affidandola appunto ai magistrati economici.
I
primi casi da reprimere economicamente si verificarono negli anni ottanta del
diciottesimo secolo e riguardarono le proteste popolari contro le riforme
economiche e religiose di Pietro Leopoldo; in tali occasioni l’applicazione del
procedimento previsto dalla “Leopoldina” dimostrò i suoi pregi in quanto la sua
sommarietà, evidenziata anche dal divieto di ricorrere a difensori, e l’ampia
discrezionalità del giudice di modo che la punizione potesse essere irrogata
secondo le più disparate circostanze, erano l’ideale in una materia dove
dovevano essere represse leggere infrazioni.
Quasi
tutte le condanne, poi, furono relativamente miti.
La
procedura economica, per gli stessi motivi, fu largamente usata alla fine del
settecento per punire le manifestazioni sovversive dei “giacobini”, che in
genere consistevano in semplici manifestazioni di pensiero[158] e venne
mantenuta anche durante l’età della restaurazione come strumento di difesa
contro le associazioni massoniche e dei carbonari.
Molto
spesso però, coloro che erano attratti da questi ‘ideali sovversivi’
appartenevano ai ceti dominanti ed in virtù di questo fatto unito alla mancanza
di una reale offesa ad un bene giuridico, caratteristica tipica dei reati di
opinione, quelle volte (non molte) che incappavano nelle maglie della giustizia
economica, erano trattati con grande tolleranza cosicché potevano perseverare
nel manifestare i propri pensieri:
senza che mai
potesse balenare alla loro fantasia né l’immagine di un capestro, né di una
cella di galeotto, e si sentivano anche al sicuro perfino da una semplice
paternale da parte del presidente del Buongoverno. E ciò avveniva quando a
pochi chilometri dalla Toscana era senza pietà mandato a morte o seppellito
nelle prigioni chi non aveva commesso altro delitto che amare la patria[159].
La
delicata materia dei reati politici in qualsiasi ordinamento dovrebbe essere
trattata con intelligenza e competenza particolari giacché il pubblico potere
dovrebbe sempre essere in grado di valutare quali manifestazioni sediziose
possono essere realmente pericolose e fare proselitismo per distinguerle da
altri episodi che, per la loro irrilevanza sociale o per la grossolanità del
loro estrinsecarsi oppure ancora perché dettati da un costruttivo spirito
critico tendente a restituire al dibattito politico quel dinamismo necessario
per evitare un appiattimento generale dei valori, non recano minaccia alcuna al
mantenimento dello statu quo.
La
natura stessa di quelli che il Fiani chiamava “reati di Stato”[160] non facilita
questa distinzione perché per poterne efficacemente valutare la reale portata
offensiva, quasi sempre si dovrebbe aspettare che da semplici manifestazioni di
pensiero o tuttalpiù da delitti tentati si mutassero in delitti consumati, tali
però da travolgere l’integrità delle stesse istituzioni e quindi, a questo
punto del loro iter, difficilmente
punibili.
C’è
quindi l’esigenza, basata su semplici presunzioni di offensività, di stroncare
sul nascere un comportamento che, amplificato o portato a termine, potrebbe
essere letale per la società e per svolgere questo compito, oltre che ad
apposite leggi per la tutela della personalità dello stato, l’ordinamento deve
disporre di corpi speciali aventi quella precipua funzione e che nel loro agire
sappiano individuare le persone ed i fatti veramente nocivi alla comunità,
senza scadere in una indiscriminata repressione del dissenso politico tipica
dei regimi totalitari[161].
Nel
Granducato di Toscana, invece, non esisteva un apposito corpo di polizia
politica ma era la stessa polizia ordinaria che operava come tale; d’altronde
pensare che la polizia si possa limitare ai suoi compiti ordinari “è strana ed
irragionevole pretensione”[162].
Infatti,
queste funzioni secondo il Fiani sono ineliminabili perché come la sicurezza
dei cittadini è protetta dalla polizia ordinaria a maggior ragione la polizia
politica deve tutelare “la sicurezza dello stabilito Governo qualunque siane la
forma”[163].
Egli,
proseguendo nella sua lineare analisi, descriveva l’avversione dei comuni
cittadini per la polizia politica a causa della sua tendenza “di dare in certe
circostanze soverchio valore al sospetto, di agire con preoccupazione, di veder
dappertutto nemici” e saggiamente avvertiva che in certi particolari momenti
storici il potere politico, se vuole mantenersi saldo, è costretto ad affidare
alla polizia politica competenze tali da renderla ancora più ‘forcaiola’ del
solito:
Lo stato di
violenza in cui il Potere è talvolta costretto a porsi colla Nazione suol
essere uno stato di transizione, che cessa, cessato il pericolo. Infelici i
paesi e i governi dove quello stato fosse permanente![164]
Da
esperto funzionario di polizia, costretto ad affrontare quei problemi che
spesso l’ “alta politica” trascura e minimizza, il Fiani credeva che quando un
agente patogeno penetra nella società in maniera tale da minarne le fondamenta
il ricorso a tutti i mezzi, non ultima la forza, è giustificato.
Tutto
questo riguarda solo marginalmente gli atti di archivio consultati: dai
processi economici e dai carteggi vari non emergono particolari preoccupazioni
di natura politica fino all’insediamento del governo provvisorio cosicché le
autorità di polizia del morente Granducato erano impegnate negli affari
ordinari come la repressione dei danneggiamenti campestri e la concessione di
licenze e permessi vari.
Dopo
il 27 aprile del 1859 iniziarono a celebrarsi in via economica i primi processi
politici i quali, una volta avvenuto il cambiamento istituzionale, ebbero
soprattutto come soggetti passivi i simpatizzanti dei Lorena, i “codini”.
Nei
giorni immediatamente precedenti e seguenti il 27 aprile non si verificarono
nel territorio della Delegazione di Governo di Pontedera ‘avvenimenti politici’
tali da dover essere giudicati mediante processo economico, anzi il mutamento
di regime si fece sentire ‘a scoppio ritardato’ giacché la maggioranza di
questi processi si concentrarono nell’estate del 1859 quando nel nord Italia
erano combattute le decisive battaglie per l’indipendenza e nel borgo
arrivavano i bollettini di guerra[165] che spesso
causavano accese discussioni tra “liberali” e “codini” (fomentate anche dalle sempre
più insistenti voci di un prossimo ritorno di Leopoldo II a capo di un esercito
di austriaci) e nell’autunno dello stesso anno quando fu eletta l’assemblea
toscana e inviata la deputazione a Vittorio Emanuele ed il principe Eugenio di
Savoia-Carignano fu nominato reggente della Toscana[166].
Non
bisogna pensare comunque a sconvolgimenti di particolare gravità: molti
“codini” si limitavano a spargere la notizia che Leopoldo II sarebbe tornato
“di giorno in giorno”[167] e talvolta
aggiungevano crudeli propositi di vendetta nei confronti dei liberali, una
volta ristabilita la legittima dinastia dei Lorena[168].
Questo
dimostra, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, il carattere squisitamente
elitario della “rivoluzione” toscana del 1859 - e benché molti vogliano affermare
il contrario per pregiudizi ideologici, molte altre rivoluzioni sono state
opera di pochi intellettuali ‘illuminati’ - e l’assoluta estraneità di
Pontedera dalle decisioni politiche importanti di quel periodo[169].
Pare
piuttosto che una certa parte di popolazione - quella maggiormente incolta e
più ‘romanticamente’ attaccata alla vecchia dinastia, tra cui contadini e
braccianti ma anche piccoli artigiani come falegnami, calzolai, seggiolai -
messa di fronte al fatto compiuto avesse reagito con manifestazioni grossolane
di pubblica avversione e tramite piccole manifestazioni sediziose che nei
documenti erano definite “discorsi allarmanti” oppure “provocatori” comunque
incapaci a creare un’efficace opposizione al nuovo che stava avanzando.
Rientrano
in questa tipologia vari processi tra quelli presi in esame aventi per oggetto
le “gare politiche” fra i contadini che battevano il grano[170], l’esposizione
pubblica della bandiera del Granducato[171], il cantare
stornelli in onore di Leopoldo II[172], le dispute
tra i giovani delle opposte fazioni in un caffè,[173] il
ritrovamento di una sgrammaticatissima lettera anonima nella quale i liberali
erano dileggiati, imputata ad un bracciante di S. Lorenzo a Pagnatico sotto
l’altisonante e spropositata accusa di “scritti capaci a turbare l’ordine
pubblico”[174], addirittura
la scommessa di alcuni pennuti sul ritorno del Granduca[175] oltre
naturalmente a tutti quei casi di “discorsi sovversivi” nei quali il “titolo
della procedura” (che corrispondeva all’accusa) era formulato nelle seguenti maniere:
“contegno irregolare”[176], “contegno
imprudente in rapporti politici”[177],“discorsi
sovversivi e capaci di disturbare l’ordine pubblico”[178], “contegno
provocante per partito politico e capace a produrre disordini”[179], “discorsi
avversi sull’attuale ordine di cose”[180] e così via.
In
queste situazioni poi, le autorità di polizia si preoccupavano soprattutto di
verificare che gli imputati non avessero alcuna influenza sulla popolazione in
maniera da non fare proseliti e poi li punivano con delle semplici ammonizioni
o con qualche giorno di carcere nei casi più gravi (e per questo rientravano
quasi sempre nella competenza del Delegato di Pontedera) che erano quelli in
cui si verificava la abitualità del comportamento sovversivo e in definitiva si
concretizzavano in un semplice e reiterato screditare pubblicamente il nuovo
governo: un bracciante di S. Prospero nell’ottobre del 1859 fu accusato di
“contegno urtante e provocante per passione politica”[181] perché era
solito offendere pubblicamente i liberali; la delegazione tenuto conto della
tendenza ad ubriacarsi, della “limitata intelligenza”[182] e della
“niuna influenza”[183] dell’uomo
ritenne opportuno condannarlo a 5 giorni di carcere e all’ammonimento di
“astenersi da discorsi politici provocanti”[184].
La
misura più onerosa in casi simili fu presa contro un calzolaio di Pontedera
accusato di “discorsi sovversivi e allarmanti, capaci a produrre disordini”[185]: nel decreto
emanato dalla Prefettura di Pisa furono menzionate le numerose occasioni in cui
egli aveva manifestamente esposto le sue idee filolorenesi e come solo il buon
senso degli avversari politici avesse evitato disordini, quindi nonostante la
considerazione della “di lui piccolissima intelligenza... e mancanza di
influenza”[186] fu
condannato ad un mese di carcere e al pagamento delle spese processuali.
Il
Delegato di Pontedera avrebbe in seguito adottato “quelle misure di prevenzione
che crederà opportune”[187].
Ed
ancora: un uomo di Castel del Bosco che era solito “screditare in luoghi
pubblici” il governo provvisorio dichiarando che esso non era “un Governo
probo, né stabile, da non dover riconoscerlo per legittimo” fu punito con venti
giorni di carcere sebbene nel decreto della prefettura si legga che egli “è
universalmente tenuto per giucco e... non può avere alcuna influenza sulla
popolazione, ed è incapace a farsi un partito dal quale possa rimanere
disturbato l’ordine pubblico”[188].
Nei
casi appena esaminati il delegato di governo era solito fare uso delle facoltà
coercitive affidategli dalla legge del 16 novembre 1852; infatti, con frequenza
egli applicava la pena del carcere fino al limite della propria competenza e se
irrogava delle misure di sicurezza queste non erano mai precetti, ma semplici
ammonizioni accompagnati dalla minaccia di prendere misure più severe in futuro.
Altri
reazionari furono ammoniti per avere manifestato pubblicamente le loro idee in
occasione della sottoscrizione pubblica promossa da Garibaldi per l’acquisto di
un milione di fucili.
Questo
obolo stava molto a cuore ai patrioti che si organizzarono per raccogliere la
cifra più alta possibile e al tempo stesso solennizzare l’avvenimento: varie
feste da ballo furono organizzate nel territorio della delegazione, ma l’evento
più rilevante si verificò il 4 marzo 1860 a Pontedera quando la popolazione fu
invitata a fare le offerte in una cerimonia pubblica.
Secondo
il programma, questa ‘giornata della patria’ si sarebbe svolta in tale modo:
Alle ore 11 le
Popolazioni della Rotta, Calcinaia, Montecastello, Palaia, e i Coloni delle
fattorie dei contorni ricevuti dalla Banda del Paese e dalle Deputazioni
incaricate faranno il loro ingresso in Pontedera e saranno condotti sul
Piazzone. Ricevuti i suddetti Popoli la Banda si porterà alla Chiesa Nuova per
porsi a capo dei Pontederesi e condurli egualmente sul Piazzone dove pure le
altre Deputazioni incaricate condurranno gli altri popoli giunti a quell’ora.
Udito il discorso del Molto Reverendo Cappellano Vivarelli apriranno la Marcia
i Rottigiani seguitando tutti gli altri popoli, e chiudendola i Pontederesi, e
si porteranno per la Via Ferdinanda al Municipio a depositare le offerte in
Danaro ...[189]
Da
un atto successivo[190] si viene a
conoscenza che “la festa riuscì brillantissima e popolatissima” e l’ incasso
totale fu di £ 4865.4 (di cui £ 1525.9 offerte dalla popolazione di Pontedera).
Di
fronte a tanta pompa si registrò, appunto, qualche lieve intemperanza da parte
dei conservatori, ma nulla più: non venne dato l’obolo, fu consigliato ai
giovani di tenersi lontano dalle feste da ballo e Garibaldi venne additato come
“proscritto”[191], “brigante”[192] e
scomunicato dal papa[193].
Fino
ad ora si è potuto notare che il legittimismo filo lorenese si manifestava in
maniera dozzinale attraverso singole e sterili iniziative, ma questo era solo
il livello più basso di un fenomeno che, comunque, continuò a palesarsi come
semplice malcontento o come “cospirazione” e non degenerò in violenze.
Intanto
una opposizione più consapevole ed organizzata sembra che si ravvisasse nel
piccolo centro di Alica, a detta delle stesse autorità, roccaforte della
reazione nella campagna pontederese: nell’ottobre del 1859 alla Prefettura di
Pisa pervenne una denunzia che poi fu allegata ad una comunicazione di questo
ufficio alla Delegazione di Pontedera.
Il
contenuto della denuncia era il seguente:
Ad Alica,
Fattoria della Principessa Conti, è un partito fortemente audace in favore di
Leopoldo II, capitanato dal fattore Pacini e dal Proposto Pietro Scaletti,
spinti ed animati dalla Principessa... Il parroco, scaltrissimo, dall’altare
grida equivocamente, ma a voce colle persone, anima ed incita a fare
diversamente.È Alica piccolo paesucolo in stato di anarchia non essendovi dalla
delegazione fatto nulla, e se danni forti non sono avvenuti fin qui dipende
dalla poca importanza del paese[194].
Molti
altri paesani, poi, manifestavano in maniera più evidente la loro fede per i
Lorena.
Nell’atto
che accompagnava la denunzia, la prefettura esortava il delegato di Pontedera a
verificare la veridicità di queste asserzioni in maniera sollecita e pochi
giorni più tardi un rapporto del commesso di vigilanza a seguito delle
praticate indagini prontamente confermò che nel paese di Alica “i rozzi ed
incolti agricoltori” si mantenevano devoti ai Lorena.
Tuttavia
egli non fu capace di raccogliere prove certe o testimoni attendibili di questo
atteggiamento generale perché nessuno ad Alica era disposto a tanto; nel
rapporto poi egli menzionò alcuni individui “di grossolana ed incolta
educazione” i quali si diceva fossero “i più fanatici”.
Si
diceva che la principessa Adelaide Corsini, vedova del conte Conti, il quale
sotto il precedente ordinamento ricopriva la carica di “Maggiordomo Maggiore”,
ospitasse nella sua villa un certo conte tedesco “già ajo per quanto si dice
degli Arciduchi di Toscana”.
Confermò
che anche i sentimenti del parroco e del fattore della principessa parevano
essere ostili al governo, ma costoro riuscivano a mascherare bene le loro
simpatie politiche e comunque il commesso non aveva una prova certa;
nell’impossibilità di trovare altrimenti sicuri riscontri furono nominati
alcuni testimoni abitanti nei paesi finitimi ed alcuni rappresentanti della
famiglia Agostini, che si diceva fosse l’unica di fede liberale ad Alica.
Concludendo,
il commesso si proponeva di sorvegliare in maniera più assidua il “paesucolo”
per avere notizie più sicure.
Dopo
alcuni giorni la montagna partorì il topolino: un uomo di Alica fu “sottoposto
a serio monito” per “discorsi sovversivi”.
Però,
la Prefettura di Pisa ordinò al Delegato di Pontedera di riporre tutta la
documentazione “tra gli affari sospesi”.
Altre
(sporadiche) preoccupazioni per attività sovversive di un certo rilievo
provennero da Cascina[195], da S.
Romano[196], da Forcoli
e da Peccioli, dove, nel marzo del 1860 la maggior parte della popolazione votò
contro l’annessione[197]; in queste
ed in altre simili occasioni la preoccupazione fondamentale delle autorità di
polizia era il mantenimento dell’ordine, perciò vi era un’attenzione maniacale
anche per le più insignificanti manifestazioni provocatorie, sia da parte dei
“codini” sia dei “liberali”, di modo che non si verificassero pericolosi
tumulti[198].
Forse
l’eccessivo rigore con cui furono puniti certi episodi minimi era giustificato
proprio dallo scopo di impedire a qualunque costo delle violenze che sarebbero
potute scoppiare, se dalla stessa autorità centrale non fossero partiti saggi
ordini di “sdegnare i tripudi troppo rumorosi”[199], indegni
della civiltà del popolo toscano e “della grandezza degl’Eventi”[200], onde non
esacerbare troppo gli animi.
Dopo
tutto, la Storia insegna che in queste circostanze “la migliore saggezza è
quella che non vi abbandona dopo la vittoria”[201].
Ancora
a Cascina e in luoghi finitimi, nel dicembre 1859 si temevano tumulti in
occasione della solenne festa indetta per l’inaugurazione della Botte sotto
l’Arno, la quale rappresentava un sistema di essiccamento della palude di
Bientina.[202]
Proprio
perché i lavori furono progettati ed iniziati sotto il regno di Leopoldo II e
anche a causa di dissidi politici scoppiati in precedenza tra i molti
lavoratori impiegati nella realizzazione dell’opera, le autorità credevano che
gli abitanti del piano volessero trasformare l’evento festivo che si sarebbe
tenuto il 18 dicembre, in un amarcord
leopoldino, se non qualcosa di più grave.
Perciò
fu ordinato al commesso di vigilanza e ai carabinieri delle varie stazioni di
indagare preventivamente e di stendere dei rapporti sullo spirito pubblico.
Le
risposte evidenziarono l’infondatezza dei dubbi poiché sembrava mancassero del
tutto persone capaci a promuovere disordini.
Poi,
in occasione della visita toscana di Vittorio Emanuele, effettuata nell’aprile
del 1860 dopo l’avvenuta annessione, ad una trentina di soggetti (tra cui
rientravano molti protagonisti degli precedentemente nominati) fu ingiunto di
non allontanarsi dal circondario governativo per tutta la durata del soggiorno
del Re[203].
III.5. Il partito
reazionario leopoldino.
Dopo
il 27 aprile del 1859 oltre all’assenza di sommovimenti violenti non si formò
mai un vero e proprio partito antiunitario nel senso moderno del termine, ma
accadde che il clero alimentò il malcontento diffuso tra certe frange della
popolazione e cercò di ingigantirlo attraverso un’opera di propaganda:
l’espressione che designò questa attività, presente per tutti gli anni ‘60, fu
“partito leopoldino” o “legittimista”.
Il
clero si batteva non solo a favore del ritorno dei Lorena ma anche e
soprattutto pro domo sua, cioè “per
conservare i privilegi della Chiesa e per mantenere l’egemonia sui ceti
popolari che liberali e democratici tentavano di scalzare” [204].
Nelle
carte d’archivio si trovano alcuni interessanti esempi di questo atteggiamento:
partendo dagli avvenimenti di minore importanza si può ricordare che il pievano
di S. Giorgio a Bibbiano si oppose a dei giovani del paese che lo volevano
costringere a suonare le campane a festa per celebrare il voto per l’adesione
al Piemonte,[205] oppure la
difesa scritta del proposto di S. Frediano nei confronti di due uomini di S.
Casciano processati in via economica per avere manifestato pubblicamente
propositi criminali contro i liberali, dove i due sono presentati come persone
dabbene[206], od ancora i
pubblici giudizi poco lusinghieri su Vittorio Emanuele del sacerdote di Marti
alla vista di un manifesto a favore dell’indipendenza[207], sacerdote
che in altra occasione fu sospettato dalla “pubblica voce” di avere imbrattato
“con materie escrementizie” un cartello che, come avverte con altisonante
magniloquenza (e grande spreco di maiuscole) il rapporto dei carabinieri,
rappresentava il “Glorioso Stemma della Casa di Savoia”[208].
In
altri processi invece, i religiosi furono accusati di tenere un comportamento
più “attivo” contro i liberali: in un rapporto dei carabinieri di Navacchio del
novembre del 1859 si legge che “quasi tutta la popolazione si lagna del cattivo
pessimo ed allarmante contegno che tiene il... reverendo curato”, il quale
andava dicendo che presto Leopoldo sarebbe tornato e che “con un suo fischio ha
molte migliaia di uomini per far fronte ai Liberali”[209].
Il
delegato, volendo vederci più chiaro, ordinò al commesso di vigilanza di
compiere delle investigazioni; dal rassicurante rapporto di questa autorità si
desume la poca importanza del problema politico in quei luoghi:
non può
dissimularsi che il sacerdote Don Ranieri Bucchi abbia sempre la devozione ed
attaccamento alla cessata Dinastia Lorenese in forza della gratitudine che
sente per le onorificenze e vantaggi da essa ottenuti; e non si può del pari
dissimulare che la devozione medesima predomini per quelle campagne. Nonostante
ciò...non sembra che lo stesso prete profitti, come è stato supposto, della sua
qualità ed influenza per spargere massime contraria al presente ordinamento
politico;...anzi si rileva che nelle frequenti contumelie che si verificano tra
qualche Liberale piuttosto esaltato e supposto Codino (sic) si è egli
adoperato per ricondurli alla concordia.
Inoltre,
le supposte idee reazionarie del prete avrebbero potuto fare ben pochi
proseliti dato che il commesso di vigilanza riteneva che non vi fossero
soggetti:
che possono
azzardare di prendere la iniziativa, talché si ritiene che la tranquillità
pubblica non sia punto compromessa e tutto al più potrebbe temersi una qualche
rappresaglia... ma anche questo caso si ritiene assai remoto giacché dagli
amanti dell’ordine, che sono i più, si cerca lodevolmente di eliminarlo.
Alla
fine il prete fu “seriamente ammonito in proposito”.
Una
misura abbastanza grave fu presa nei confronti del prete di Visignano che fu
condannato dalla Prefettura di Pisa a 50 giorni di reclusione nel convento dei
Passionisti presso il monte Argentario[210].
Dalla
motivazione del decreto di condanna emerge che il sacerdote fosse solito
leggere “un periodico destinato ad eccitare il fanatismo politico” e contenente
principî “avversi all’attuale ordinamento italiano”; inoltre l’uomo (che in un
precedente rapporto era accusato di fare proselitismo per il “suo partito
retrogrado”) non aveva molti seguaci tra i paesani, anche se il suo abituale
comportamento incrementava notevolmente il dissidio fra le due diverse fazioni.
Quindi,
in questo caso, la mano pesante del magistrato di polizia era giustificata non
tanto dall’avversione del prete all’unità d’Italia e alle dominanti idee
liberali ma piuttosto dal pericolo di fare nascere tumulti.
Nel
periodo che va dalla caduta dei Lorena all’annessione al Regno di Sardegna, i
casi più interessanti riguardo gli ecclesiastici hanno per oggetto non solo la
difesa del vecchio ordine ma anche la loro preoccupazione (segnalata
precedentemente dal passo del Cerri) di mantenere una posizione privilegiata
anche all’interno della nuova entità giuridica.
A
questo proposito è da segnalarsi la levata di scudi di alcuni preti, i quali,
nel gennaio del 1860 prendendo spunto da una circolare emanata dal vescovo di
S. Miniato, difesero con passione davanti ai fedeli il potere temporale del
papa e minacciarono di scomunicare chiunque lo avesse messo in discussione[211].
Infatti
i religiosi fiutando il nuovo corso giurisdizionalista che stava per prendere
piede e che avrebbe finalmente liberato la penisola dal millenario giogo
papale, donandole alcuni decenni di guida politica interamente laica,
esortarono i villici a pregare per il papa “cui si pretende di togliere il
dominio temporale col pretesto di non sapere amministrare quelle Province.. che
gli furono regalate ed a nissuno è dato di levargliele senza incorrere nella
scomunica”[212].
La
menzione del ‘regalo’ dei territori papali non era casuale: probabilmente il
prete in questione alludeva alla così detta ‘donazione di Costantino’ ed il
fatto che nel documento in questione non fosse specificato altro fa pensare che
questa leggenda fosse ben radicata tra quei campagnoli.
Se
queste supposizioni sono giuste sarebbe alquanto singolare come i preti,
sfruttando l’ignoranza della popolazione, ancora nel secolo scorso facessero
ricorso a questa ignobile ed antichissima truffa dato che la falsità della
‘donazione di Costantino’ era stata dimostrata da Lorenzo Valla circa
quattrocento anni prima!
Inoltre,
per impressionare i fedeli, i parroci ricordarono che nel recente passato,
nonostante le umiliazioni cui la chiesa fu sottoposta da Napoleone, i papi
furono pienamente ristabiliti nel loro dominio temporale e spirituale nell’età
della restaurazione.
Qualcuno
poi, per rafforzare la fede dei paesani e manipolarne efficacemente le
coscienze, escogitò lo stratagemma di indire una festa religiosa straordinaria.
La
polizia non lasciò impuniti i religiosi che furono accusati - una volta tanto
con un titolo della procedura adatto e proporzionato all’entità dei fatti - di
abusare del loro “nobile Ministero Ecclesiastico”; così mentre il parroco di
Palaia, nonostante meritasse “grave reprensione” fu semplicemente sottoposto “a
serio monito” in considerazione della sua “decrepita età” e del fatto che “nel
suo lungo esercizio parrocchiale” non avesse mai dato occasione di richiami[213], l’arciprete
di Ponsacco fu condannato a due mesi di carcere espiabili in un convento[214], il
sacerdote di Capannoli che era accusato di “fare dei discorsi sovversivi per
eccitare i contadini alla rivolta”, ma che nel decreto della prefettura apparve
parzialmente ‘riabilitato’ fu dichiarato “bastamente punito” con l’arresto
cautelare[215] e solo nei
confronti del parroco di S. Pietro si decretò “non esser luogo a procedere”[216] .
Il
nuovo governo da subito si era preoccupato di arginare l’influenza del potere
ecclesiastico ritenendolo così legato al vecchio sistema da potere
compromettere la pubblica tranquillità in futuro, ma, nonostante le precauzioni
prese dalle autorità di polizia, i religiosi presenti nel territorio della
Delegazione di Pontedera non si esposero più di tanto per difendere la causa
dei Lorena, intenti come erano a seguire con apprensione le vicende relative al
sommo pontefice.
Già
nel maggio del 1859 la Prefettura di Pisa aveva comunicato al Delegato di
Pontedera[217] che il governo
voleva “conoscere con precisione” e “con la maggior sollecitudine possibile” il
numero dei sacerdoti “esteri” presenti nel circondario e quello delle “Monache
o Suore che... si sono specialmente dedicate alla pubblica o privata
istruzione”; analoga richiesta fu fatta due mesi più tardi per sapere se
esistevano “sette o affiliazioni Gesuitiche”[218].
Nell’agosto
dello stesso anno uno scambio di informazioni tra le due autorità rivelò che la
situazione nelle campagne era abbastanza sotto controllo: la prefettura, in un
scrittura qualificata “riservata”[219] voleva “con
prontezza” sapere:
1. Se i Vescovi
e i Preti si siano astenuti dal render voto nella circostanza delle Elezioni
dei Rappresentanti della Toscana...
2. Se i Vescovi
abbiano ordinato ai Preti di non rendere quel voto.
3. Se i Preti e
i Frati abbiano imposto o consigliato ai fedeli di non prender parte a tali
Elezioni...
4. Se essi
medesimi abbiano detto, o fatto dire, o anche vadano dicendo o facendo dire
essere peccato il votare contro la Dinastia di Lorena...
Pochi
giorni più tardi, in risposta, un rapporto della commissione di vigilanza
informava che:
Avendo con tutta
riservatezza e circospezione interpellate diverse probe ed oneste persone... si
verifica che... pochi furono i Preti che si presentarono a votare (forse col
pretesto di dovere in quel giorno festivo accudire ai loro obblighi di Uffici
delle respettive chiese)... Non consta che l’Arcivescovo e Vescovi abbiano
ordinato ai Preti a non rendere quel Voto e nemmeno che i Preti e Frati abbiano
imposto e consigliato ai fedeli di non prendere parte a tali Elezioni e di non
votare; e non consta parimente che abbiano detto, o fatto dire, e anche vadano
dicendo o facendo dire essere peccato il Votare contro la Dinastia di Lorena...
Che
la situazione da quel punto di vista fosse abbastanza tranquilla fu confermato
nel novembre del 1859 da una informazione della pubblica vigilanza[220] a cui era
stato ordinato di vigilare sul “ben noto Parroco di S. Prospero” di tendenze
reazionarie: “soggetti amanti dell’ordine e devoti alla causa Nazionale”
affermarono che il prete dopo la battaglia di Solferino aveva cessato di
procurare “qualunque bega”.
Tuttavia,
le autorità erano chiamate a vigilare con la massima attenzione perché di
quando in quando, sotto la (vera o presunta) spinta dei parroci si riaccendeva
la passione legittimista che si manifestava soprattutto attraverso cartelli e
lettere anonime affissi pubblicamente (spesso nei pressi delle chiese).
In
questi sgrammaticati documenti[221] gli autori
avevano parole di elogio per i Lorena e per il papa e tutta la chiesa
contrapponendoli all’empio (in quanto “protestante”[222] e
“scomunicato”) Vittorio Emanuele II e all’odiata sua dinastia.
Un
episodio simile si verificò ad esempio a Ponsacco nel settembre 1859.
Il
ritrovamento dei cartelli preoccupò molto la Prefettura di Pisa, la quale
riteneva che un tale episodio denunciasse la mancanza di polso del gonfaloniere
e che buona parte della popolazione professasse “principj assolutamente
contrarj all’attuale ordinamento politico”[223].
III.6. I nuovi
protagonisti.
Un
esiguo numero di processi economici analizzati riguarda i sostenitori del
governo sorto dopo il 27 aprile 1859: i liberali o patrioti che dir si voglia.
Importa
sottolineare una volta di più che nell’anno precedente alla caduta dei Lorena
non si trovano processi che hanno come protagonisti i sostenitori di Vittorio
Emanuele, mentre sotto il governo provvisorio negli atti dei processi,
riguardanti l’una o l’altra fazione, si legge di calorosi sostenitori del “nuovo
ordine di cose” animati da violenta passione di vendetta contro i “codini” che
a loro volta ricambiavano questi sentimenti.
Ma
prima del 27 aprile dove erano questi “patrioti”?
Perché
il loro nome non compare nei processi economici?
Si
deve forse pensare che le loro azioni sovversive fossero di una gravità tale da
essere giudicate tramite processi ordinari e che nell’avvicinarsi del famoso
giorno non vi sia stato alcuno che meritasse di essere ripreso ‘paternamente’
per una qualche bagattella, come un discorso, un grido o un cartello a favore
dell’indipendenza?
O
forse erano così astuti da non farsi scoprire?
O
forse ancora la tolleranza delle autorità era così estesa da non ritenere
opportuno prendere delle misure contro questi perturbatori dell’ordine?
O
piuttosto è da credere, come spesso succede nei cambiamenti epocali, che un
buon numero di pusillanimi “morto il tiranno” si siano messi a fare “gli eroi
della libertà”,[224] salendo sul
carro dei vincitori e arrogandosi meriti non propri?
I
liberali che si trovarono ad affrontare dei processi economici sotto il governo
provvisorio toscano furono quasi tutti semplicemente ammoniti o subirono pochi
giorni di carcere.
Comunque,
se si confrontano questi processi con quelli precedentemente analizzati ed
aventi come soggetti passivi i “codini”, si nota che (ed è ovvio) nessun
liberale fu giudicato per avere pubblicamente esposto la propria fede; ciò non
era sufficiente, come per i “codini”, ma serviva anche un contegno minaccioso
(ma non in maniera generica) che le più volte si rivolgeva ai preti e ai
possidenti, considerati i più legati al vecchio regime.
Così
un uomo, pochi giorni dopo l’instaurazione del nuovo governo, minacciò il prete
di Marti affinché innalzasse la bandiera nazionale[225]; dei giovani
di S. Giorgio (imitati da dei coetanei di Marti[226] ) avrebbero
voluto suonare le campane per festeggiare il voto per l’adesione al Piemonte e,
oppostosi il parroco, si creò del disordine[227]; due giovani
minacciarono di morte un certo cavalier Manetti e la moglie in quanto “codini”[228]; anche l’ex
ministro Baldasseroni, ritiratosi in una villa presso Palaia pochi giorni dopo
la caduta dei Lorena, fu oggetto del malcontento popolare che cessò solamente
quando egli decise di andarsene[229].
Il
Delegato di Pontedera, forse timoroso di dover prendere delle misure contro i
“patrioti”, spedì degli atti con i quali domandava alla Prefettura di Pisa come
si sarebbe dovuto comportare nei confronti di alcuni uomini di Castel del
Bosco, i quali durante i festeggiamenti “della accettazione per parte di S. M.
il Re di Sardegna del voto dell’Assemblea Toscana” affissero un cartello
recante la scritta “fuoco ai codini” e minacciarono di morte i suddetti codini.
La
risposta della prefettura fu molto chiara:
Il Governo
attuale è il Governo dell’ordine e vuole che sia osservato ad ogni costo...il
Ministero dell’Interno ha sempre fatto sentire che il disordine dev’essere
indistintamente ed energicamente punito qualunque sia la causa o la persona che
lo suscita. I promotori del disordine devono essere colpiti con tutto il rigore
della Legge a qualunque classe di cittadini appartengano, e qualunque sia la
opinione politica che professano.
Ciò
premesso, riguardo più specificamente ai fatti di Castel del Bosco, il Delegato
di Pontedera avrebbe dovuto “adottare immediatamente quei provvedimenti che
erano imposti dalle leggi vigenti anziché richiedere autorizzazione di ciò che
dovesse farsi”; poi il prefetto continuò la sua rampogna affermando che col suo
comportamento il delegato dimostrava “o che poco apprezza” la propria
competenza o che aveva costantemente bisogno di qualcuno a guardia del suo
operato senza volersene assumere “una ancorché apparente responsabilità”.
Concludendo, l’autorità pisana si augurava che in futuro non accadessero simili
episodi, altrimenti sarebbe stato costretto a “rassegnare l’affare al Ministero
dell’Interno”.
Belle
parole, indubbiamente, ma in seguito i responsabili dei fatti in questione
furono semplicemente ammoniti.
Questo
episodio starebbe a dimostrare che alle autorità di polizia durante il governo
provvisorio era ordinato di giudicare tutti in egual misura negli affari
politici, ma poteva succedere che, a causa dell’arbitrarietà connaturata a
questi compiti, i liberali avessero un trattamento più favorevole.
Le
stesse autorità erano cambiate in alcuni casi: in una circolare della
prefettura indirizzata al Delegato di Pontedera[230] era
affermato che:
Dopo il mutato
ordine di cose tra noi, importa procedere a dei cambiamenti nel personale della
Commissione della Vigilanza Pubblica...
perciò
la prefettura invitava il delegato ad “avanzare le proposizioni che ravviserà
necessarie”.
Poi,
a partire dai processi celebrati verso la fine di maggio del 1859, nei
documenti di archivio si può notare come la grafia di chi doveva scrivere la risoluzione
(che corrispondeva alle decisioni prese dal delegato) fosse cambiata, anche qui
ci furono delle epurazioni?
Degli
sconvolgimenti si verificarono sicuramente a livello delle cariche politiche
locali, dato che ai gonfalonieri di Pontedera e di Capannoli nell’estate del
1859 fu concessa dal governo toscano “la implorata dispensa” dal loro ufficio,
mentre in un’altra occasione era la stessa autorità centrale che si preoccupava
di fare rimuovere i funzionari minori non in linea con il nuovo corso politico:
Importa che per
le variate condizioni dei tempi trovasi a Capi delle Rappresentanze Comunali
persone le quali alla capacità di bene amministrare le cose del Comune
riuniscano uno spirito ed una volontà ferma da secondare in ogni rapporto le
vedute del Governo. Ella perciò... procuri con la maggior sollecitudine ed
esattezza di informazioni se veramente negli attuali Gonfalonieri compresi nel
di Lei Circondario concorrano gli accennati requisiti prescindendo da quelli
che possono essere stati nominati dopo la attuazione del presente ordine di
cose. Ed ove creda conveniente che a quelli attuali debbano sostituirsene dei
nuovi, la invito ad indicarmi le persone che potrebbero completamente
corrispondere all’indicato scopo.[231]
Parzialmente
in contrasto con questo documento si pone l’altro del novembre 1859[232] nel quale la
prefettura comunicava al delegato che il governo toscano aveva scelto i
gonfalonieri delle comunità presenti nel territorio pontederese tra i
consiglieri delle stesse eletti pochi giorni prima.
Infatti,
mentre per Pontedera fu scelto il notaio Maglioli indicato come “buonissimo” in
una precedente lista[233] dove il
delegato, su richiesta della prefettura, aveva dato informazioni “sulle qualità
morali, sulla opinione politica, sulla capacità, idoneità ad amministrare la
cosa pubblica... stima e simpatia” dei consiglieri eletti, all’effetto proprio
di facilitare la nomina governativa, altrove non fu così.
A
Cascina, ad esempio, fu confermato il vecchio gonfaloniere anche se dalle
osservazioni sul suo conto pareva non molto affidabile (“gode la pubblica
estimazione quantunque i suoi principj politici siano pel cessato Governo”) e
anche a Capannoli fu di nuovo nominato l’ultimo titolare della carica che
nell’elenco dei giudizi relativi ai consiglieri eletti era stato definito
“liberale apparente”, “avaro” e “non ben visto”.
Per
giustificare le misure prese dal governo in questi ultimi due casi però bisogna
ricordare che i gonfalonieri confermati erano tra quelli che il governo
provvisorio aveva designato dopo il 27 aprile in sostituzione dei “codini” e
quindi, si presumeva, fedeli al nuovo ordine.
In
una situazione politica precaria il governo preferì scegliere il terreno della
continuità istituzionale, affidandosi ad uomini esperti (anche il gonfaloniere
di Palaia fu confermato) nei quali era riposta la speranza di sapere meglio
gestire eventuali disordini rispetto a degli homines novi.
Comunque,
scorrendo la lista dei giudizi sui consiglieri eletti in quell’occasione a
Pontedera, Palaia, Cascina e Capannoli non è infrequente trovare degli
individui considerati “di sentimenti retrivi”, “devoti al cessato Governo”,
“retrogradi” a dimostrazione che nell’esiguo numero degli aventi diritto[234] (e che
sicuramente non erano braccianti o contadini, i più ciecamente devoti alla
tradizione), vi erano non pochi “codini”.
E
proprio l’ex Gonfaloniere di Capannoli, pochi giorni dopo la cessazione dalla
carica, fu autore di una memoria[235] indirizzata
al Delegato di Pontedera e volta a difendere il donzello comunale accusato di
avere diffuso idee reazionarie tra la gente.
L’ex
gonfaloniere nella difesa del suo vecchio sottoposto indirettamente palesò le
loro comuni idee politiche e non lo scagionò affatto dalle accuse in quanto
ammise che il donzello:
ha sempre
rispettato il Governo e qualunque altra Autorità, e non è persona capace di
sparlare in nessun conto né del Governo né di altri superiori avendolo ormai
sperimentato nel corso di anni quattro, che ho tenuta la carica di
Gonfaloniere.
Tutto
ciò non significava necessariamente che il donzello fosse fedele anche al nuovo
governo e poi la difesa era traballante proprio perché proveniva da un ex
funzionario che aveva chiesto la destituzione in quei giorni e quindi, si
suppone, fedele ai vecchi regnanti.
III.7. Il nemico comune.
La
lotta politica non si esauriva semplicemente nella dicotomia
“liberali”-“codini”; infatti, in quegli anni è documentata l’attività a
Pontedera di quello che dalle autorità era chiamato il “partito demagogico”[236] o dei
“protestanti”[237].
Costoro
furono i destinatari degli unici provvedimenti a carattere politico trovati nei
documenti relativi al periodo precedente alla caduta dei Lorena.
Sulla
consistenza numerica di tale associazione, in mancanza di studi più
approfonditi, si possono fare solamente delle supposizioni, dato che anche il
materiale d’archivio è alquanto contraddittorio; infatti si vedano due rapporti
di polizia stilati verso la fine dell’anno 1859 a poche settimane l’uno
dall’altro: nel primo era affermato che “il partito del Protestantesimo e demagogico
che da anni si è formato in Pontedera è piuttosto numeroso... circa settanta
individui della classe dei braccianti e artisti”[238], mentre
l’estensore del secondo credeva che i protestanti di Pontedera fossero “sedici
o diciotto”[239].
Comunque,
l’attività sovversiva di matrice politica era intimamente legata a quella
antireligiosa e sebbene si possa pensare che, specialmente nel periodo del
regno dei Lorena, quando molto forte era la connessione fra il trono e
l’altare, il minimo dissenso politico doveva essere associato alle più turpi
qualità morali e religiose e che quindi la qualifica gratuita di “protestante”
serviva ad amplificare il discredito sociale di una categoria di ‘diversi’[240], i dati
d’archivio confermano indubbiamente la presenza in quei luoghi di seguaci della
religione Evangelica.
Certo,
è difficile scindere il piano religioso da quello politico e soprattutto capire
come mai gli appartenenti al partito demagogico erano protestanti e come questa
eresia fosse arrivata nelle cattolicissime campagne pisane ed è altrettanto
difficile capire se proprio tutti i protestanti erano anche ‘demagogici’ e
viceversa: proprio una mancata coincidenza numerica tra i due gruppi
giustificherebbe la disomogeneità delle su citate fonti.
In
tale caso lo studioso dovrebbe interpretare le informazioni rese dai funzionari
di polizia a seconda del carattere del procedimento (‘politico’ o ‘religioso’)
in cui si inseriva quel dato rapporto di polizia; ma gli elementi sono pochi e
non permettono di stabilire una distinzione sicura, per cui si continuerà a
parlare genericamente di “protestanti” appartenenti al “partito demagogico”
tenuto conto anche che altri indizi archivistici sono poco probanti, come nel
caso di un rapporto di polizia del settembre del 1858 dove, in riferimento a
dei presunti “agenti della setta mazziniana”, si narrava di una “gran moda
invalsa nella maggiorità dei settarj e cospiratori di abiurare il
Cristianesimo”[241].
L’autore
di questo documento, poi, si contraddiceva o dimostrava di avere le idee poco chiare
affermando anche che gli “agenti” e le loro famiglie professavano “tutti il
protestantesimo o meglio nessuna religione”[242].
In
via ipotetica potrebbero avere avuto un ruolo rilevante nell’intera vicenda
quelle famiglie di mercanti svizzeri[243] che nella prima
metà del secolo scorso si erano stabilite a Pontedera; forse furono proprio
loro ad avvicinare gli elementi più insofferenti alla tradizione clerical
reazionaria ad un nuovo modo di pensare: come è noto l’etica protestante
alimenta lo spirito del capitalismo ed é connessa nella sua accezione
calvinista ad una forma di governo repubblicana perciò non è improbabile che
gli emigrati svizzeri trovassero un ‘terreno fertile’ a Pontedera data la
vocazione mercantile del borgo e le relazioni che da sempre esso aveva con la
piazza multietnica e multiconfessionale di Livorno.
Tutto
ciò, poi, potrebbe avere attecchito sui residui della tradizione giacobina ed
anticlericale dei primi del secolo unita alla recezione delle posteriori idee
mazziniane.
D’altronde
in uno stato dove l’influenza delle pratiche tradizionali religiose era
fortissima, specialmente tra le classi incolte dove talvolta la maschera del
fanatismo religioso celava ataviche superstizioni, era naturale che gli
individui di inclinazioni ‘progressiste’ che avevano potuto ricevere un barlume
di istruzione ripudiavano quella ontologia dogmatica tanto cara alla chiesa.
Ne
consegue un filone di pensiero, lontano dal main
stream, e da tutte le verità ‘ufficiali’, portato avanti da pochi,
coraggiosi personaggi che dovevano apparire alle autorità come degli ‘utopisti’
che si battevano non tanto per finalità concrete, quanto per ‘demagogia’ (e da
qui lo sprezzante attributo riferito alla loro attività).
Pur
con l’avvertenza di non attribuire eccessiva importanza a figure di secondo
piano e di non eccelsa levatura culturale poiché l’indiscusso ‘capo’ del
movimento, Scipione Barsali, era il custode del teatro di Pontedera, bisogna
storicizzare la vicenda ed inserirla in quel modesto panorama provinciale dove
gli alfabetizzati rappresentavano una rarità.
Così,
se si compara l’attività di opposizione politica svolta dal “partito
leopoldino” - che si concretizzava soprattutto nelle prediche dei preti e
nell’esposizione di sgrammaticati cartelli offensivi - a quella dei
“protestanti”, la seconda ci appare maggiormente articolata e svolta con una
certa consapevolezza: si hanno notizie di riunioni tenute a Pontedera alle
quali partecipavano individui provenienti da altre città[244], di
diffusione di libri[245] e
addirittura sappiamo che Scipione Barsali e Valentino Fantozzi (un altro leader “protestante”) il 29 aprile 1859,
scrissero una lettera al governo provvisorio di Ubaldino Peruzzi nella quale si
resero garanti del mantenimento dell’ordine a Pontedera e responsabili dell’organizzazione
di feste di giubilo per la caduta della dinastia dei Lorena[246].
Stupisce
leggere in questa lettera che tali compiti non furono arbitrariamente avocati
dai due uomini bensì:
Il Delegato ci
esorto (sic) a continuare la missione affidataci e noi crediamo dovere di buon
cittadino il sobbarcarci un tale peso.[247]
Improvvisamente,
“dopo dieci anni di persecuzione promossaci dal clero e dal Governo passato”[248], il Barsali
ed i suoi seguaci potevano uscire allo scoperto ed assaporare quei brevi
momenti di gloria.
Infatti,
oltre a non assistere al trionfo degli ideali repubblicani, costoro avrebbero
dovuto subire ancora il disprezzo e l’odio della gente comune anche sotto il
nuovo ordinamento.
Nel
settembre del 1859 la prefettura inviò un atto alla delegazione di Pontedera
nel quale chiedeva di indicare “gli Ordini Religiosi, o le Società o
Aggregazioni religiose esistenti in cotesto Governativo Circondario” e ordinava
che gli “Ecclesiastici Cattolici ed i Ministri delle altre Religioni”
obbedissero alla “Suprema Autorità dello Stato”; nella relativa informazione
della commissione di vigilanza fu affermato che il Barsali ed i suoi seguaci:
abiurata la
Religione Cattolica, abbracciando invece il protestantesimo, portano ora in
trionfo senza alcun velo questa apostasia e procurano di accrescere il numero
dei proseliti, lo che incontra quasi la generale disapprovazione.[249]
Ed
un altro atto del Novembre dello stesso anno[250] ci conferma
che questi uomini, pur palesando “senza alcun freno” pubblicamente le proprie
idee, faticavano a farsi un consistente seguito, anzi erano decisamente
avversati dalla maggioranza dei pontederesi ed in primo luogo dai preti: un
uomo “della Religione Evangelica” morì dopo una breve agonia rifiutandosi di
convertirsi fino all’ultimo, nonostante la presenza di un frate cappuccino.
Il
parroco del paese non poté così concedergli la “Sepoltura Ecclesiastica” nel
cimitero di Pontedera ma “per salvare un poco l’onore della famiglia” si
impegnò a cercare un luogo “meno noto al pubblico”.
Nei
giorni precedenti i “bigotti Cattolici” avevano manifestato il proposito “di
insultare al di lui cadavere” e in un rapporto fu affermato che:
Qualora il Suo
Cadavere venisse associato alla Chiesa Cattolica... e quindi tumulato nel Campo
Santo Comune, avverrebbero gravi disordini, poiché in generale lo spirito
pubblico ne è totalmente contrario e vi è perfino la voce che prescende a dire
che se ciò avvenisse vi sarebbero molte Persone che abbiurerebbero il
Cattolicesimo per abbracciare il protestantesimo.
Saggiamente,
le autorità decisero di autorizzare la tumulazione del defunto nel “Cimitero
degli Evangelici” di Livorno o di Firenze.
Sotto
questo punto di vista non era cambiato molto da quando il parroco di Pontedera
aveva inoltrato un reclamo al Granduca nel quale lamentava che “si lascino
impuniti coloro... che avversano la Religione Cattolica e danno opera a far
proseliti alla Protestante”[251], o meglio,
dal punto di vista giuridico il Barsali ed i suoi seguaci non correvano più il
rischio di dovere subire un nuovo processo penale per avere “attaccato la
religione dello Stato”[252], ma
socialmente rimanevano degli outsiders messi
ulteriormente in disparte dal soccombere dell’opzione repubblicana.
Accanto
a questo nucleo di ‘veri’ oppositori doveva esistere un gruppuscolo di persone
in qualche modo vicine a quegli ideali, ma mancanti di quel minimo di
strumentazione teorica e di educazione politica per giustificare le loro
azioni; insomma, si trattava di quei delinquenti comuni sempre presenti nei
momenti di grande stravolgimento istituzionale della Storia e che,
trincerandosi dietro lo schermo della lotta politica, e approfittando del
generale sbandamento sociale, commettono soprusi e angherie spesso motivate da
vendette personali e da ideali molto più ‘prosaici’ rispetto alla conquista
della libertà e alla lotta all’oppressore.
E
anche a Pontedera, in quel tempo, simili individui non mancavano.
Si
consideri ad esempio il processo 704 del luglio 1859 in cui tre uomini si erano
resi colpevoli di violenze e minacce ai danni di un negoziante di Pontedera:
gli annessi rapporti di polizia sugli imputati dimostrarono che costoro, che
avevano avuto una lunga serie di precedenti “economici” e “ordinari” e che
appartenevano al “partito del Protestantesimo e demagogico” detto anche
“Mazziniano”, erano “nella ferma credenza, per l’andamento dei tempi che
corrono, di potere agire con piena prepotenza, commettendo ogni sorta di
disordine” senza essere puniti dalla giustizia.
Uno
degli uomini, ritenuto “il maggior temibile di tutti gli altri affiliati nella
Setta, e il più audace”, il giorno seguente la caduta di Leopoldo II si era
presentato alle abitazioni dei più abbienti cittadini di Pontedera chiedendo
con arroganza delle somme di denaro, credendo che il cambiamento istituzionale lo
avrebbe legittimato a comportarsi in tale maniera.
Usando
le parole di un’istanza presentata al Delegato di Pontedera in quegli stessi
giorni e riguardante un caso di depredazioni campestri potremmo affermare che
questi piccoli episodi in quel contesto storico erano sintomatici e non bisogna
ora come allora “trascurare nemmeno le cose apparentemente minime, poiché
racchiudono il germe delle gravi, nella concitazione degli animi ignoranti,
quali scambiano la licenza per la libertà, l’indipendenza col diritto di far
proprio l’altrui”[253].
Così,
nella motivazione del decreto di condanna - che fu molto dura per un processo
economico, in quanto i tre furono condannati rispettivamente ad un mese di
carcere, sei mesi ed un anno di casa correzionale, indipendentemente
dall’esercizio dell’azione penale ordinaria - la Prefettura di Pisa colse la
vera natura di questi personaggi, solo nominalmente legati all’opposizione
politica di Scipione Barsali, anche se si deve notare, che alla luce dei loro
comportamenti, la qualifica di appartenenti al “partito demagogico” gli si
addiceva più che al Barsali stesso.
In
particolare un condannato fu opportunamente definito “nemico dei ricchi...
cattivo soggetto, e che ha l’infernale spirito del disordine, rissajuolo,
nemico di qualunque Governo”.
Sulla
base delle (poche) conoscenze non possiamo nemmeno escludere che questi
individui avessero un proprio compito peculiare nell’ambito dei ‘protestanti’ e
costituissero una componente particolarmente animosa e socialmente
insubordinata dell’organizzazione e che quindi i rapporti col Barsali fossero
più stretti di quanto supposto in precedenza, comunque non si può fare a meno
di notare il notevole divario comportamentale ed ideologico tra i due gruppi di
‘dissidenti’.
III.8. La criminalità rurale
quotidiana.
Su
407 processi economici presi in esame e coprenti il biennio che va dalla
primavera del 1858 a quella del 1860, ben 116 trattano di furti o depredazioni
campestri.
I
protagonisti assoluti di questo tipo di illecito erano i braccianti; infatti,
nei processi dove è possibile leggere (perché specificato e scritto in una
grafia sufficientemente chiara) la professione dell’accusato si trova una tale
situazione: 108 imputati erano braccianti, 8 fra cellai, mattonai, motai e
fornai, 6 contadini, 3 barrocciai, 1 possidente e 1 non ben definita
“campagnola”.
Il
fenomeno era quindi molto diffuso e ad appannaggio quasi esclusivamente di una
classe sociale i cui componenti, lavorando a giornata, vivevano
nell’instabilità, per cui nelle giornate non lavorative si arrangiavano come
potevano, anche usando metodi non leciti.
La
notevole estensione dei furti campestri rappresentava la principale
manifestazione del disagio sociale: la necessità, ergo, la fame spingeva le classi subalterne a superare i limiti del
consentito così che la sottrazione di pochi prodotti agricoli assumeva il
significato di una scelta quasi obbligata per potere mangiare.
I
furti di legna poi, avevano lo scopo di provvedere al riscaldamento delle
abitazioni mentre l’erba e il fieno servivano a nutrire gli animali domestici,
centro motore della povera economia bracciantile.
Oltre
alle cause ‘fisiologiche’ bisogna però enunciare anche quelle di tipo
consuetudinario: ha rilevato Sbriccoli che i furti campestri nel periodo
considerato possono essere considerati anche come il risultato di un residuo
storico basato su privilegi di tipo feudale a cui finalmente fu deciso di porre
fine:
La
disobbedienza, talmente reiterata, diffusa e tollerata da essere diventata un
uso, una prassi, quasi un ‘diritto consuetudinario’, ridiventa furto, perché lo
Stato smette di consentirla: smette poco a poco, ma smette.[254]
Con
questa interpretazione, lo studioso tende a mettere in secondo piano la diffusa
teoria secondo la quale il furto campestre in quegli anni avrebbe rappresentato
una forma di lotta di massa condotta dai braccianti nei confronti dei
possidenti e dei loro contadini: questa affermazione aderisce perfettamente
alla realtà presente nella campagna pontederese del periodo preso in esame.
La
diffusione delle idee socialiste infatti avvenne qualche anno più tardi e
comunque il fenomeno dapprima interessò il settore industriale; per questo
motivo nella ricerca delle motivazioni che spingevano i braccianti a
delinquere, accanto all’impellenza alimentare si deve affiancare quel tipo di
‘consuetudine’ ricordata da Sbriccoli.
Le
sue osservazioni ci permettono di entrare nell’ottica dei braccianti del tempo
e di dare un senso alle loro espressioni di stupita meraviglia quando in sede
di contestazione dell’addebito si sentivano accusare di “spiegata tendenza alle
depredazioni campestri”[255].
Non
pensavano infatti di avere disubbidito a delle leggi o comunque di avere
commesso qualcosa di una tale importanza da meritare una punizione e la stessa
amplissima diffusione del furto campestre accoppiata al fatto che in
proporzione era raramente punito[256], li
invogliava a chiedere la conferma di quell’immunità nei confronti
dell’ordinamento giuridico che tacitamente e inconsciamente ritenevano di avere
acquisito.
E
così, guardando i documenti d’archivio ci si accorge che nella famiglia
bracciantile tutti, uomini e donne si dedicavano ai furti campestri, dai
bambini di dieci-undici anni[257] ai giovani,
i quali in quell’età in cui l’aggregazione con i coetanei è naturale, spesso operavano
in ‘bande’ e grazie a questa forza, se scoperti si permettevano di minacciare
violenze[258], agli
adulti, fino agli anziani[259].
Talvolta
addirittura succedeva che il delegato di governo richiamasse l’intera famiglia[260] (altre volte
padri e figli oppure madri e figlie) per sottoporla a precetto; frequenti anche
le misure contemporanee nei confronti di coniugi[261] e di gruppi
di dieci-quindici persone, composti di uomini e donne di varie età, tutti di un
dato luogo[262].
Insomma,
un panorama vastissimo che non fa altro che confermare quanto detto in
precedenza: il bisogno e la diffusione del comportamento, intrecciandosi a
vicenda, producevano una quotidiana ripetizione dell’illecito per cui doveva
essere difficile da parte delle autorità di polizia organizzarsi per
un’efficace repressione.
Gli
individui riconosciuti meritevoli di punizione dal potere economico venivano
assoggettati alla fondamentale misura di prevenzione prevista al n° 10
dell’art. 12 del regolamento di polizia del 1849: il “divieto di introdursi nei
fondi altrui senza la apposita licenza del proprietario o suo rappresentante”.
Se
nel settore degli illeciti politici i delegati esercitavano soprattutto le
facoltà punitive affidategli dalla legge del 1852, in questo campo preferivano
ricorrere ai mezzi di prevenzione, gli strumenti loro tipici.
Questo
perché il pubblico potere, quando avvertiva l’esigenza di colpire i dissidenti
politici, lo voleva fare nel modo più celere possibile senza correre il rischio
di arenarsi nelle pastoie di un processo ordinario nel quale gli imputati
avrebbero potuto esercitare il loro diritto di difesa in maniera più piena e
dove gli avvocati avrebbero potuto avere buon gioco.
La
scelta era ancor più giustificata se si pensa che molti processi politici
avevano per oggetto accadimenti di poco conto per i quali appariva veramente
spropositato adire la giustizia ordinaria ma che comunque dovevano in qualche
maniera essere censurati affinché il ‘cattivo esempio’ non fosse imitato.
Così,
considerato anche che l’interesse leso, o meglio ancora messo in pericolo,
consisteva nell’integrità dell’ordinamento giuridico, si preferiva ricorrere a
delle leggere penalità piuttosto che a delle misure di prevenzione (che
talvolta seguivano le prime).
Non
bisogna dimenticare che questi comportamenti, fino a qualche decennio addietro,
e cioè fino all’avvento al trono di Pietro Leopoldo, rientravano nella nozione
di lesa maestà ed erano puniti duramente senza alcun rispetto del principio di
proporzionalità, in special modo fuori dal Granducato, dove ancora a quel tempo
persisteva questa pratica.
Nel
caso dei furti campestri il discorso era diverso: la scelta di usare le misure
di prevenzione era lineare perché non si puniva un furto vero e proprio o dei
danneggiamenti bensì si cercava di porre un freno a quella che era ritenuta da
coloro che se ne lagnavano (i possidenti o i gendarmi) l’abitualità di un
comportamento, talvolta fondata sulla base di semplici sospetti.
Insomma,
mancava qualcosa affinché la fattispecie del furto campestre si perfezionasse e
si potesse adire la giustizia ordinaria[263]: ad esempio
in caso di flagranza il ricorso a misure penali era certamente giustificato.
A
dire il vero anche l’articolo 205 del regolamento della polizia punitiva del
1853 ricorreva a delle presunzioni per la punibilità nei confronti di chi
veniva trovato in possesso di prodotti campestri dato che rinviava a
“circostanze di luogo, di modo, e di persona che ne rendano fondatamente
sospetta la provenienza”.
In
quei casi, se l’accusato non sapeva fornire la prova della legittimità del
possesso soggiaceva alla pena del carcere per un massimo di un mese.
Lo
stesso trattamento era riservato agli acquirenti dei prodotti campestri di
provenienza sospetta.
Il
codice penale poi, all’art. 374 prevedeva il delitto di furto, il quale secondo
la lettera g dell’art. 377 se era
commesso “all’aperta campagna su prodotti del suolo, tanto aderenti che
distaccati”, era aggravato ed il suo autore soggiaceva alla pena del carcere
che a seconda del valore delle cose rubate, era emanata fino ad un massimo di
cinque anni a cui bisognava aggiungere un altro periodo né “minore di un mese,
né maggiore di un anno” derivante dall’aggravamento.
Infine,
il legislatore aveva stabilito delle misure penali anche per i danneggiamenti
in generale, i così detti “danni dati”, tra i quali rientravano quelli
campestri.
L’art.
448 del codice del 1853, puniva “chiunque dolosamente guasta, disperde,
distrugge, o altrimenti danneggia cose altrui, o delle quali non ha diritto di
disporre” con il carcere fino a tre anni, in relazione all’entità economica del
danno.
In
una società dove l’agricoltura era la primaria fonte del benessere, per
tutelarne la prosperità c’era bisogno di tutte queste restrittive misure di
polizia rurale che agissero a più livelli contro la microcriminalità che allora
imperversava nelle campagne.
Perciò
non poteva essere sufficiente la semplice repressione penale del furto ancorché
aggravato; bisognava veramente incidere su quell’attitudine secolare[264] ai
danneggiamenti e cercare di estirparla anche facendo ricorso a presunzioni e
sospetti, nell’impossibilità di operare altrimenti, pur sempre tenendo presente
che chi rubava lo faceva perché era costretto dalle precarie condizioni
economiche, ma, senza, per questo motivo, giustificare quei gesti.
Ovviamente,
come visto, nei casi in cui le autorità basavano le loro decisioni sul semplice
sospetto, l’afflittività della sanzione era minore, di modo che nei casi in cui
non sussistevano gli elementi per punire alla stregua del codice penale, si
poteva rientrare nella fattispecie prevista dal regolamento di polizia ed
emanare ugualmente una misura coercitiva e nel caso neanche questo fosse stato
possibile, si ricorreva alle misure di prevenzione nella forma del precetto di
non introdursi nei fondi altrui.
L’ultima
soluzione aveva il non trascurabile vantaggio di potersi emanare in difetto di
quelle prove necessarie di fronte al giudice ordinario così che è da ritenere
che anche nei ‘casi dubbi’ le autorità preferissero servirsi del mezzo del
processo economico perché portava ad una veloce soluzione (il precetto) che
avrebbe potuto servire da intimidazione per il futuro nei confronti dei ladri e
depredatori campestri.
Questo
sarebbe confermato anche dai dati emersi dalle carte d’archivio poiché anche in
certi casi di flagranza si ricorreva al processo economico: questa era
sicuramente la soluzione più semplice nei casi ad esempio in cui i proprietari
o i contadini sorprendevano degli estranei sui loro terreni[265] dato che in
un processo ordinario vi sarebbero state difficoltà probatorie e l’applicazione
del principio in dubio pro reo avrebbe
permesso agli imputati di farla franca.
Invece
in un processo economico veniva assunta la testimonianza del danneggiato
insieme a quella di altri soggetti pronti a fare fede di un comportamento
abituale e l’eventuale misura preventiva era decretata con celerità.
Sorprende
piuttosto che la medesima procedura sia stata seguita anche nei casi in cui la
stessa gendarmeria si era imbattuta (magari a tarda notte) in persone in
possesso di prodotti campestri di cui non sapevano spiegare in maniera
convincente la provenienza[266].
Questa
era proprio la fattispecie prevista dall’art. 205 del regolamento di polizia
punitiva del 1853; evidentemente, ricorrendo ad una sorta di depenalizzazione
di fatto, le autorità decidevano di ricorrere all’emanazione del precetto di
“non introdursi dei fondi altrui” anche in casi come quelli sopra descritti per
arrivare velocemente ad una qualche misura sanzionatoria.
Per
adire la giustizia ordinaria probabilmente serviva un caso limite come il
seguente[267]: un ragazzo
fu sorpreso a rubare delle pannocchie da alcuni contadini che lo portarono alla
gendarmeria dove gli fu sequestrata la refurtiva e dove egli confessò il
proprio crimine e la presenza di un complice.
Gli
fu imposto il consueto precetto “senza pregiudizio dell’azione del potere
ordinario” mentre, non a caso, il complice, che nessuno aveva veduto in azione,
fu semplicemente ammonito.
Qualche
volta la misura era stata preceduta dal carcere o dal sequestro decretati in
qualità di provvedimenti di urgenza specialmente nei confronti di quei soggetti
che erano soliti accompagnare ai furti campestri minacce e violenze nei
confronti dei proprietari[268].
Inoltre,
quando i testimoni asserivano di avere visto le persone dedite alle
depredazioni campestri in azione nottetempo, queste ultime erano anche
sottoposte al precetto del ritiro serale[269].
Più
raramente erano decretati altri precetti come il de non conversando nei casi in cui l’illecito era stato commesso da
una pluralità di soggetti[270], o il
divieto di portare armi per i sospetti di violenze[271] o il divieto
di allontanarsi dal distretto governativo[272].
Infine,
per i giovani colpevoli di furti e depredazioni campestri spesso, in aggiunta
al precetto, il delegato emanava l’ingiunzione di “non abbandonarsi
volontariamente all’ozio”[273] ben sapendo
che la natura di questa misura di prevenzione si confaceva a quei soggetti
(anche se poi, in molti casi, si rivelava inutile): avrebbe forse avuto senso
fare una paternale ad un adulto da sempre avvezzo alla criminalità rurale?
Trascorso
un anno dalla statuizione del precetto senza violazione alcuna da parte di chi
vi era sottoposto, tutto rientrava nella normalità ed un nuovo comportamento
che avesse ad oggetto furti o depredazioni campestri coercibile in via
economica era di nuovo sanzionato con il precetto annuale di non introdursi nei
fondi altrui[274].
I
furti e le depredazioni campestri si verificavano senza interruzione
moltiplicandosi in quei periodi in cui le varie colture vengono a maturazione:
così in autunno erano talmente frequenti i furti d’uva che la gendarmeria di
Navacchio chiese al delegato il permesso di far uso del “Vestiario alla
Borghese”[275] per
sorprendere qualche ladro in flagranza di reato, mentre il ministero
dell’interno, ogni anno, era solito rilasciare ai cittadini interessati il
porto d’armi provvisorio per la “speciale tutela sul raccolto delle Uve”[276].
Meno
frequente la punizione in via economica dei ‘normali’ furti: probabilmente, per
castigare i ‘veri’ ladri, si preferiva ricorrere alla rigorosità della
giustizia ordinaria, lasciando al procedimento sommario tutti quei casi che si
basavano semplicemente sui sospetti[277].
La
misura di prevenzione più usata in questi casi era il ritiro serale poiché la maggior
parte dei furti avveniva di notte.
III.9. Gli altri
processi.
Le
misere condizioni in cui viveva la quasi totalità della popolazione della
campagna pisana in quegli anni sono attestate da un buon numero di processi
economici aventi ad oggetto la “condotta scostumata” delle popolane.
Queste
donne, incapaci a procurarsi il necessario per vivere in altra maniera,
praticavano la vetusta arte del meretricio, qualche volta perfino con l’assenso
del coniuge.
Esemplare
é il caso riportato nel processo n° 598, in cui una bracciante di Treggiaia era
incoraggiata a persistere nella prostituzione dal marito che, secondo la
pubblica voce, aveva intenzione di costruire una casa con i proventi della
moglie; da un’annessa lettera del parroco locale si desume che i coniugi non
possedevano “beni alcuni” e si trovavano “in stato veramente miserabile”[278].
Il
commercio carnale, che avveniva nelle private abitazioni, o nei campi era
quindi molto diffuso e più che un illecito caratterizzato dalla presenza di
individui uniti in associazione a delinquere tesa allo sfruttamento della
prostituzione stessa, esso sembrava manifestazione ‘spontanea’ di singole
persone - anche se qualche volta dagli atti pare emergere l’esistenza di
qualche ben organizzato postribolo[279] - ridotte a
tali indecenti pratiche dall’estrema povertà.
Il
delegato, nella maggioranza dei casi non poteva fare altro che condannare le
donne additate dalla pubblica voce come prostitute ad alcuni giorni di carcere
e al precetto di non ricevere nelle proprie abitazioni persone di sesso
maschile[280] che non
fossero i parenti, ma le medesime spesso tornavano a prostituirsi.
Gli
estensori del codice penale, consci dell’ineliminabilità di questa piaga
sociale,[281] con scelta
opportuna avevano deciso di non perseguire la prostituzione come tale,
prevedendo invece all’art. 300 la repressione del lenocinio inserita tra i
“delitti contro il pudore e contro l’ordine delle famiglie” e l’annesso
regolamento di polizia amministrativa all’art 55 confermava la tendenza alla
laicizzazione della materia criminale:
I provvedimenti,
intesi a far desistere dalle pratiche disoneste, e la disciplina delle donne
tollerate, spettano alle autorità di polizia amministrativa.
Merita
di essere sottolineata questa lodevole politica di depenalizzazione nei
confronti di un comportamento esclusivamente a sfondo etico, in maniera tale da
separare (per lo meno per questa fattispecie) la sfera dei delitti da quella
dei peccati ed affermare il principio penalistico secondo il quale mala sunt quia prohibita.
Per
apprezzare ancora di più questa circostanza non bisogna dimenticare che
l’influenza della chiesa della chiesa nel Granducato era notevole, sia nei
confronti della famiglia granducale e degli alti dignitari, sia nei confronti
delle devote popolazioni rurali.
Però
non si può dire che tutto questo si affermasse compiutamente nella pratica
perché, come più volte notato, alle autorità di polizia amministrativa, con le
leggi successive al regolamento del 1849 erano affidate anche potestà
coercitive e in sostanza spettava alla discrezionalità dei funzionari decidere
se irrogare delle misure penali oppure dei precetti od ancora sottoporre ad un
semplice monito le donne che erano solite prostituirsi.
Quindi
l’entusiastico giudizio di cui sopra è da riferire ad una intenzione del
legislatore piuttosto che a dei risultati, che anzi, la pratica quotidiana
poteva dimostrare di segno totalmente opposto come nei casi in cui le autorità
di polizia ricorrevano all’emissione di gravi ed eccezionali misure repressive
per stroncare il fenomeno del meretricio[282].
A
conferma di ciò si deve notare che le stesse preoccupazioni di stampo morale
stavano alla base di quei provvedimenti presi nei confronti di coloro che erano
accusati di tresca scandalosa: si trattava di persone che avevano relazioni con
rappresentanti dell’altro sesso senza essere vincolati tra loro per mezzo del
matrimonio (giovani amanti che qualche volta erano costretti ad un matrimonio
‘riparatore’,[283] vedove,
uomini sposati).
Talvolta
era proprio il parroco locale[284] che, per
fare cessare il pubblico scandalo e affermare l’ortodossia religiosa, segnalava
questi casi alle autorità.
Gli
imputati riconosciuti colpevoli erano condannati ai precetti annuali di non
conversare tra loro e di non recarsi nelle rispettive abitazioni[285].
Tra
i vari comportamenti abituali da castigare mediante i precetti (ma si faceva
frequentemente ricorso anche alla pena del carcere) c’era l’ubriachezza
molesta, diffusissima tra la popolazione di sesso maschile in una regione così
generosa in materia di vini[286].
Chiaramente
il precetto emanato in casi come questi era quello del divieto annuale di
frequentare bettole ed osterie e, nei casi meno gravi (cioè quando
l’ubriachezza non aveva i caratteri della abitualità) il delegato decretava la
semplice ingiunzione di “non abusare di sostanze spiritose”.
Fino
ai fatti del 27 aprile le penalità più onerose nei confronti degli ubriachi
erano rappresentate da 3 giorni di carcere (misura raramente irrogata);
successivamente il delegato iniziò a sfruttare al massimo la potestà punitiva
attribuitagli dalla legge del 1852 e perciò ci furono delle condanne ad otto
giorni di carcere.
Proprio
una di queste condanne decretata il 30 aprile 1859 sembra fornire la
motivazione dell’intervenuto mutamento:
Attesoché in
questi frangenti nei quali l’ordine e la pubblica e privata tranquillità non
deve possibilmente esser disturbata, ma energicamente mantenuta...[287]
Insomma,
c’era la paura che ogni piccolo pretesto potesse scatenare una sorta di guerra
civile tra i due partiti avversi dei “codini” e dei “liberali”.
La
conferma ci giunge da un processo di poco successivo in cui un uomo, come tanti
altri fino ad allora, era accusato di avere ingiuriato diverse persone in stato
di ubriachezza: niente di speciale, dunque, tranne il fatto che egli aveva una
lunga lista di precedenti, sia col potere economico che con la giustizia
ordinaria.
Ebbene,
egli fu condannato dalla Prefettura di Pisa a ben un mese di carcere e nella
motivazione si legge:
Attesoché
l’attuale ordine politico imperiosamente esiga che le Autorità Governative
procurino di allontanare qualunque fomito di disordini onde la pubblica
tranquillità sia mantenuta inalterata...[288]
Agendo
in tale maniera le autorità di polizia amministrativa, in pratica, da quel
momento in poi si sarebbero sovrapposte alla giustizia ordinaria rendendo
inutile la previsione dell’art. 60 del regolamento di polizia punitiva secondo
il quale:
Chiunque in
luogo pubblico o aperto al pubblico si mostra in stato di ubriachezza
colpevolmente contratta, è punito con la carcere aggravata da tre a quindici
giorni.
Al
solito, era molto più semplice e veloce punire con lo strumento del processo
economico.
Succedeva
poi che i padri di famiglia che avevano questo riprovevole vizio si
abbandonassero molto spesso a sevizie nei confronti delle loro mogli e degli
altri congiunti[289].
Dai
rapporti della polizia esce fuori un quadro veramente poco edificante della
condizione femminile in quegli anni: percosse e minacciate dai propri uomini
(anche quando erano sobri[290]), non
trovavano quella soddisfazione che avrebbero meritato nei provvedimenti dei
magistrati di polizia, che in certi casi si limitavano semplicemente a
sottoporre il marito violento a un serio monito ed incredibilmente parevano più
preoccupati della “pubblicità scandalosa” che tali atti procuravano rispetto
alla tutela della salute e della dignità di quelle poverette.
Anche
i figli usavano aggredire fisicamente e verbalmente le madri[291] (e qualche
volta i padri): la causa era rappresentata dal rifiuto dei genitori di
corrispondere loro delle somme che avrebbero sperperato nei molti giochi
d’azzardo diffusi in quelle campagne: questi erano organizzati in abitazioni
private o in stanze annesse ad esercizi pubblici e principalmente consistevano
nei giochi delle carte e delle bocce.
I
giovani poi, erano ripresi (più o meno severamente a seconda dei casi: si
partiva da un semplice monito a non abbandonarsi alla vita oziosa fino ad
arrivare al carcere, passando per i vari precetti tra i quali quello di non
allontanarsi dal tetto paterno) per altre loro tipiche manifestazioni, non
molto dissimili a quelle dei loro odierni coetanei: le liti e le risse tra loro
che di solito scoppiavano alle feste, nei caffè o, appunto nei luoghi dove
erano praticati giochi d’azzardo[292] ed anche per
essere soliti riunirsi la sera e schiamazzare maleducatamente fino a tardi[293].
Da
ultimo rimangono da considerare i processi per vagabondaggio rappresentanti
un’ulteriore dimostrazione di una realtà rurale in profonda depressione
economica.
Gli
accusati di “vagabondaggio sospetto” in quanto privi di mezzi di sussistenza,
erano condannati al precetto dell’espulsione annuale dal distretto governativo
di Pontedera ed erano fatti accompagnare davanti al delegato di governo cui
erano sottoposti per luogo di dimora per ulteriori misure[294].
Parallelamente
i pontederesi allontanati dagli altri distretti, erano accompagnati innanzi al
Delegato di Pontedera che infliggeva loro il precetto di non allontanarsi dai
confini del distretto per un anno[295].
Questo
continuo vagare da una terra all’altra era appunto motivato dal fatto che i
soggetti in questione (che in altri periodi dell’anno potevano essere impiegati
giornalmente come braccianti) non avevano un occupazione e si dedicavano alla
questua e ai piccoli furti per sopravvivere.
I
vagabondi che non erano toscani, infine, erano sottoposti al precetto dello
sfratto dal Granducato secondo il numero 11 dell’art. 12 del regolamento di
polizia del 1849[296].
III.10. La
sottoposizione alla vigilanza della polizia.
Si
è visto precedentemente[297] che l’art.
28 del codice penale prevedeva tra le pene accessorie la sottoposizione alla
sorveglianza della polizia[298].
E’
evidente che la pena accessoria ne presupponeva una principale; così i giudici
penali al momento dell’emanazione della sentenza decretavano che il condannato,
una volta espiata la pena principale, fosse assoggettato ad una generica
sorveglianza della polizia.
Successivamente
era compito delle autorità di polizia specificare questa misura che, come
avvertiva l’art. 30 del codice penale, non poteva essere più breve di un anno,
né più lunga di cinque ed era divisibile solamente per anni.
Queste
disposizioni confermavano pienamente quelle stabilite nel regolamento di
polizia del 1849 agli artt. 34 e 35, mentre i successivi artt. 36 e 37
contenevano una descrizione più particolareggiata della misura ed erano diretti
alla polizia amministrativa che, nella sua discrezionalità poteva imporre ai
destinatari qualsiasi precetto tra quelli elencati nell’art. 12 “anche senza
nuovi atti di verificazione”[299]; tuttavia la
durata della misura era stabilita dalla giustizia criminale nella sentenza di
condanna.
Il
sottoposto alla vigilanza della polizia era obbligato poi a comunicare il luogo
del proprio domicilio che non poteva mutare senza il preventivo assenso
dell’autorità che altrimenti avrebbe mancato al suo compito principale.
Gli
studiosi contemporanei criticarono duramente la sottoposizione alla vigilanza
della polizia: innanzi tutto si premurarono di precisare che non si trattava di
pena, bensì di un “espediente cautelativo”[300] giacché per
il principio del ne bis in idem sostanziale
lo stesso illecito non può essere punito due volte.
Poi
ne misero in luce i molteplici difetti: se lo scopo della sanzione, che era
quello di prevenire la recidiva, era lodevole, i modi con cui veniva perseguito
erano inefficaci ed in più procuravano “imbarazzo”, “disgusto” e “irritazione”
ai sorvegliati.
Le
limitazioni di libertà a cui costoro dovevano soggiacere - e dai commenti
dottrinali si evince che erano molteplici dato che nella sua invadenza la
polizia doveva “seguire i passi di ciascun condannato” e “spiare ogni di lui
atto”[301] - li
screditavano presso la moltitudine rafforzando i pregiudizi cui andavano
incontro e compromettendo definitivamente ogni speranza di risocializzazione.
Inoltre
il Fiani riteneva che la decisione di emanare la misura non dovesse essere
lasciata alla competenza della giustizia ordinaria, ma era preferibile che se
ne occupasse la polizia perché essa aveva gli strumenti (tra i quali erano
menzionati la conoscenza dei precedenti e del carattere e delle tendenze
dell’individuo) per valutare meglio l’opportunità del provvedimento stesso.
A
completare il quadro, il medesimo autore narrava di umilianti vessazioni
perpetrate ai danni dei sorvegliati da parte degli stessi agenti di polizia;
ecco che dunque la correzione del reo appariva un’impresa veramente ardua, anzi
le statistiche criminali avevano dimostrato che nel corso del tempo il numero
dei delitti commessi dagli “invigilati” non era affatto diminuito.
Perciò
il legislatore avrebbe dovuto rivedere questo istituto pur mantenendone
inalterato il fine e la migliore soluzione da adottare era quella della
cauzione personale: poiché il condannato, allo stesso modo dei minori, dei
prodighi e degli insani di mente, era stato posto dalla sentenza di condanna in
uno stato di incapacità, egli aveva bisogno di un tutore, un soggetto, “che si
fa garante delle azioni di un uomo, assume una vera tutela, s’impone l’obbligo
di vegliare sovra di lui, d’esserne il sostegno”[302]. Questo
sistema avrebbe eliminato qualsiasi traccia di sorveglianza della polizia e
avrebbe evitato che il condannato per questo fosse perennemente “votato ad
un’infamia di fatto”[303].
Il
garante, “un cittadino onesto e dabbene”[304], secondo la
dottrina, che in tal modo rifuggiva da una aberrante responsabilità penale per
fatto altrui, sarebbe stato civilmente obbligato a risarcire i danni che il
garantito avesse cagionato con la propria eventuale nuova condotta criminosa.
La
cauzione personale non doveva confondersi con quella pecuniaria, inammissibile
in questi casi perché contraria “al gran principio della eguaglianza di tutti
davanti alla legge, il quale non consente che col danaro si possa comprar
l’esenzione da una pena comunque accessoria”[305].
L’applicazione
dell’istituto della sottoposizione alla vigilanza della polizia nell’esperienza
della Delegazione di Governo di Pontedera evidenzia che in otto casi[306] i
sorvegliati erano stati tutti precedentemente condannati per furto.
I
precetti a cui furono assoggettati erano tipicamente quelli del ritiro serale,
di non introdursi nei fondi altrui e di non allontanarsi dal distretto
governativo senza il permesso della delegazione; più rari il divieto di
frequentare le fiere e le bettole.
III.11. Altre
manifestazioni dell’attività di prevenzione.
Per
completare l’analisi dei compiti di polizia affidati alla delegazione di
governo si deve gettare uno sguardo ai vari carteggi; fino ad ora è stata presa
in considerazione quella che all’epoca era chiamata “polizia di fatto” le cui
funzioni erano prevalentemente delineate nella prima parte del regolamento del
1849, dedicata alla “polizia amministrativa”.
Si
è visto, però, che l’ufficio, oltre a svolgere una fondamentale attività
preventiva mediante l’irrogazione di ingiunzioni e di precetti vari[307], aveva anche
attribuzioni punitive, soprattutto in virtù della legge del 1852.
Adesso,
tralasciando la repressione delle trasgressioni della polizia punitrice che era
affidata alla giustizia criminale ordinaria, si prenderà in considerazione
un’attività che, usando l’accezione moderna del termine, era di carattere
amministrativo, in quanto si concretizzava essenzialmente nel rilascio di
permessi, patenti e autorizzazioni varie[308].
Una
delle attività che più si legava al concetto di prevenzione, in quanto mirante
al mantenimento dell’ordine pubblico, era la concessione delle necessarie
autorizzazioni per le numerose feste e pubbliche attività ricreative varie.
In
queste occasioni, in cui si radunava un grande numero di persone, l’autorità di
polizia cercava di tutelarsi anticipatamente tramite dei rapporti informativi
della gendarmeria onde impedire risse, tumulti ed altri spiacevoli incidenti.
E
così, per organizzare feste da ballo (molto frequenti nel periodo carnevalesco),
era necessario il consenso della delegazione che giungeva solo dopo due pareri
positivi, uno della locale gendarmeria riguardante le qualità morali degli
organizzatori e l’altro di un “maestro muratore” che attestasse la sicurezza
dei locali[309].
Molte
richieste che giungevano all’ufficio riguardavano poi il permesso di potere
“incendiare dei fuochi d’artificio” e di potere fare suonare delle bande
musicali in occasione delle principali feste religiose[310]; in tali
giorni qualche volta erano organizzate delle corse di cavalli che parimenti
dovevano avere il nulla osta della polizia[311].
Le
medesime autorizzazioni erano necessarie per le rappresentazioni teatrali[312] e canore[313] ed era lo
stesso capo comico che compilava la richiesta che era accompagnata dal solito
rapporto della gendarmeria o del commesso di vigilanza.
Sotto
i Lorena era allegato anche il parere positivo del parroco del luogo dove si
sarebbe dovuto svolgere la rappresentazione[314].
Altre
occasioni di svago non sfuggivano all’inflessibile controllo delle autorità di
polizia: ogni abitudine oziosa era giustamente vista con sospetto perché
ritenuta sintomo di rilassatezza dei costumi, ma l’invadenza nelle sfere
private dei sudditi da parte di un governo “paternalmente illuminato” non era
sempre così benevola ed in questo poco era cambiato dalle grandi teorizzazioni
Wolffiane dei tempi di Pietro Leopoldo.
A
questo proposito, oltre gli esempi precedenti, si scorrano i documenti
d’archivio e si notino le preoccupazioni dei funzionari riguardo l’opportunità
o meno di aprire dei biliardi e di tollerare certi giochi nei locali pubblici[315].
È
vero che anche oggi, riunioni, spettacoli e divertimenti vari devono essere
sottoposti a controlli ed autorizzazioni (anche se uno stato autenticamente
liberale dovrebbe farne quasi a meno), ma ciò che caratterizzava quei modelli
ottocenteschi era quell’insopportabile patina di perbenismo clerical
reazionario talvolta fuori luogo e quella politica del sospetto così cara ai
Lorena: ogni riunione di persone era considerata come un possibile pericolo,
perciò il pubblico potere doveva controllarne minuziosamente gli scopi,
analizzare la moralità dei soggetti più in vista, assicurarsi che non
circolassero idee sovversive sia dell’ordinamento politico che di quello
religioso e così via.
Numerose
carte d’archivio riguardano, poi, le istanze presentate al delegato per aprire
o trasferire rivendite di sali e tabacchi[316] oppure
osterie e bettole[317].
Anche
in queste occasioni il delegato era l’anello di congiunzione fra i semplici
cittadini e le più alte sfere della burocrazia: gli affari riguardanti le
rivendite di sale e di tabacco ad esempio venivano decisi dalla Direzione
Generale delle R. R. Aziende dei Sali e Tabacchi.
Ovviamente
il delegato di governo aveva il compito di attivare le informazioni “sulla
condotta morale, religiosa e politica” dei postulanti e sull’eventuale
vicinanza di esercizi affini.
Simili
notizie erano necessarie anche sul conto di coloro che richiedevano il permesso
di aprire delle scuole private (maschili o femminili)[318]; l’iter era
il seguente: l’interessato compilava una domanda scritta e la faceva pervenire
alla Prefettura di Pisa che successivamente richiedeva le informazioni al
Delegato di Pontedera il quale per svolgere il suo compito si serviva della
gendarmeria o del commesso di vigilanza.
La
decisione finale era presa dal ministero della pubblica istruzione che la
comunicava alla prefettura, che a sua volta avvertiva la Delegazione di
Pontedera, ultimo tramite per arrivare ai richiedenti.
Sotto
il Granducato i libri di studio dovevano anche essere approvati dalla
“competente Autorità Ecclesiastica”, pratica di cui si perdono le tracce dopo
il 27 aprile 1859; i testi per i ragazzi erano principalmente l’abbecedario, la
storia greca e quella romana, il Nuovo e il Vecchio Testamento mentre le
ragazze oltre alle pratiche del “cucire di bianco”, e della calza, avevano
quasi esclusivamente materie religiose.
Un’altra
attività cui il delegato era frequentemente chiamato era costituita dai
procedimenti di esonero dai precetti[319], in
particolar modo quello del ritiro serale: gli interessati erano soliti fare
istanza al delegato (che stavolta era l’autorità a cui era discrezionalmente
affidata la delibera) perché le loro attività lavorative, spesso sopravvenute
alle pronunce delle misure di prevenzione, non potevano essere svolte in
maniera ottimale stanti quelle sanzioni limitative della libertà personale.
Di
fronte a questa realtà, il delegato, fatte prendere le opportune informazioni,
preferiva concedere l’esonero della misura piuttosto che confermarla e
rischiare che i richiedenti perdessero il posto di lavoro o delle occasioni di
guadagno e si gettassero definitivamente in braccio ad attività criminose.
Esisteva
anche un altro tipo di esonero che veniva richiesto costantemente ed era anche
questo legato alle necessità materiali: molti genitori supplicavano la
delegazione affinché i propri figli fossero dispensati dal servizio militare
perché questo avrebbe rappresentato un danno gravissimo[320].
La
commissione di pubblica vigilanza allora, era incaricata di accertare le
miserabili condizioni dei richiedenti e le eventuali infermità ai danni del
capo famiglia o di altri parenti conviventi con il coscritto; nei rapporti
comparivano anche giudizi sulla condotta morale, religiosa e politica di queste
persone.
In
secondo luogo, la richiesta era inoltrata ai vertici dell’organizzazione
militare cui spettava la risoluzione finale.
Ma
altre attività ancora contribuiscono a confermare lo stato di indigenza in cui
viveva la popolazione come le incessanti richieste di “caritatevoli sussidi”[321] in gran
parte opera di vedove e di ex militari o le liste mensili dei battezzati “figli
di genitori poveri o miserabili” ed abitanti nelle varie comunità del
territorio della delegazione[322].
La
maggior parte delle carte contenute in queste filze, però, ha ad oggetto le
comunicazioni da una delegazione di governo all’altra; in queste si
richiedevano i pregiudizi riportati da varie persone “tanto in via governativa
che in via criminale”, oppure informazioni sulla condotta “morale, religiosa e
politica” od ancora la fede di nascita[323].
Come
introduzione alla documentazione d’archivio proposta più oltre in appendice,
valga ora in questa sede, a titolo conclusivo, sommariamente ricordare le altre
pratiche amministrative che erano solite giacere sul tavolo del delegato di
governo e che egli qualche volta risolveva nell’ambito della propria
competenza, mentre in altre occasioni trasmetteva l’intero incartamento
all’ufficio immediatamente superiore (la Prefettura di Pisa), aspettando delle
decisioni (che potevano provenire anche dai vari ministeri) da comunicare agli
interessati: così si hanno atti riguardanti operazioni di reclutamento militare[324], concessioni
di carte di soggiorno[325], nomine,
promozioni e vacanze per i funzionari dell’amministrazione[326], concessioni
di porto d’armi[327], operazioni
di polizia mortuaria[328], notizie
fatte pervenire alle famiglie dei detenuti[329],
provvedimenti nei confronti dei malati di mente[330] e degli
orfani[331].
[1] ASPI, filze 229-234 intitolate indifferentemente “processi economici” oppure “processi sommari” e raggruppate sotto il nome di “affari economici”.
[2] Questa generica dizione vuole ricomprendere le varie filze riunite sotto i nomi di “circolari e lettere ministeriali e della prefettura”, “lettere e affari diversi”, “carte sciolte, lettere, rapporti diversi, circolari” nelle quali i contatti fra la Prefettura di Pisa e la Delegazione di Governo di Pontedera erano frequentissimi in virtù del rapporto gerarchico che poneva la prima quale ufficio immediatamente superiore alla seconda. Sono state sommariamente scorse anche le filze 111 e 112 relative ai “rapporti settimanali”.
[3] Sulla quale vedi infra, III, 10.
[4] Art. 2 del regolamento di polizia del 22 ottobre 1849, lo si veda supra (2.4).
[5] B. FIANI, Trattato, cit.p. 93.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Art. 17 del regol. di pol. del 22 ottobre 1849. La istituzione di questo principio risale all’art. XLVIII della “Leopoldina” il quale stabili che nei processi economici non era consentito infliggere “verun castigo anche per cosa di pura pulizia a veruna persona senza prima averli contestato le sue mancanze e sentite le sue discolpe”.
[10] Art. 16 del regol. di pol. del 22 ottobre 1849. Questa era la procedura relativa alle semplici ammonizioni verbali.
[11] È da preferirsi questa definizione (contenuta nel Trattato a p. 185) rispetto a quella data dal repertorio del diritto patrio, la quale, oltre ad essere precedente ai regolamenti di metà secolo, aveva il difetto di ripetere ciò che il medesimo testo aveva asserito riguardo la specificazione del concetto di polizia. Infatti sotto la voce “potestà economica” si legge: “Appellano a questo titolo tutte le disposizioni dirette a prevenire i delitti mediante la modica repressione di coloro che vi s’ incamminano”. ( Repertorio del diritto patrio toscano, p. 102 ). Cfr. la voce “polizia” nel medesimo testo riportata supra (2.5).
[12] L. GALEOTTI, Delle leggi e dell’amministrazione della Toscana. Della Consulta di Stato. Discorsi due, Firenze, 1847, pp. 29-30. Già la circolare del Presidente del Buon governo del 13 febbraio 1787 aveva stabilito che “i provvedimenti potranno prendersi non solo quando si averà una piena e concludente prova, ma altresì quando vi saranno soltanto dei fondati sospetti”.
[13] Relazione del commissario francese Reinhard del 1799 in ASFI Buon Governo, 220, n. 74.
[14] Ibidem.
[15] Ibidem.
[16] L. 30 novembre 1786, art. 49.
[17] B. FIANI, Trattato, cit.p. 185.
[18] Ibidem.
[19] Ibidem.
[20] L. 30 novembre 1786, art. 49. Il chiarimento di questa apparente contraddizione stava particolarmente a cuore sia a Pietro Leopoldo che al figlio Ferdinando, i quali più volte cercarono conforto nelle sapienti opinioni dei loro collaboratori, nonché alti funzionari di polizia. Scriveva a questo proposito il Presidente del Buon Governo Giuseppe Giusti in una lettera a Ferdinando III: “La celebre legge criminale del 30 novembre 1786... proibì sotto qualsivoglia titolo gli atti segreti o camerali, che erano fra loro sinonimi, significando il camerale un processo segreto senza ascoltar l’imputato, in tal guisa compilato in certi casi per prendere contro di esso una economica resoluzione. Ma non proibì gli atti sommarii e non formali, anzi al § 49 espressamente li permesse, purché non mai si mancasse alla massima fondamentale di contestare e ricevere la risposta...”. (ASFI, Segreteria di Gabinetto, 157 n. 9).
[21] B. FIANI, Trattato, cit.p. 185.
[22] Ibidem, p. 186. L’art. 49 del regolamento di polizia del 1849 prescriveva che i commessi di pubblica vigilanza dovessero rendere conto “all’Autorità con speciali rapporti dei singoli fatti che per la loro gravità reclamano particolari provvedimenti”, mentre l’art. 107 del regolamento della gendarmeria toscana affermava che “ogni Comandante... un distaccamento di Gendarmeria... ha l’obbligo di riferire senza ritardo all’Autorità Politica locale ogni notizia e avvenimento interessante in qualunque modo le sue attribuzioni”.
[23] Poteva accadere che su uno stesso fatto, per completezza di informazione, si avessero sia i rapporti della gendarmeria che quelli della commissione di pubblica vigilanza. Cfr. ad esempio il proc. 47 in cui ai rapporti delle due autorità si aggiunse quello dell’ “Accademico di Ispezione del teatro dei Risorti”. (ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 232). La numerazione dei processi (che sono riportati in appendice) è quella originaria.
[24] Ciò fu duramente criticato dal Fiani, il quale pensava che in questo modo l’istituzione dei commessi di vigilanza fosse assolutamente inferiore ai bisogni della polizia.
[25] B. FIANI, Trattato, cit.p. 437.
[26] Ibidem.
[27] Ibidem. Questa “logica di uno Stato che entra sempre di più nei comportamenti quotidiani dei sudditi, alla ricerca di pericoli da sventare o di potenziali minacce all’ordine politico da impedire prima ancora che possano prendere corpo” si era formata già nell’età comunale e si era definitivamente affermata nei secoli XVII e XVIII quando “le classi pericolose della società” come i mendicanti, le prostitute, i frequentatori di bettole e tutti coloro che tenevano un comportamento avverso alla morale e alla religione, erano costante oggetto dell’attività di vigilanza della polizia, a scopo preventivo. Cfr. M. SBRICCOLI, voce “Polizia” (diritto intermedio), su Enciclopedia del diritto, cit.p. 115). Si veda, poi, per i precedenti nel diritto toscano l’istruzione per i giusdicenti provinciali del 28 aprile 1781 nella quale Pietro Leopoldo raccomandava la più sollecita vigilanza sulle osterie, sui teatri e su tutti i soggetti viziosi, dediti al gioco e alla lussuria, violenti, immorali o “male inclinati”. Questi concetti furono ribaditi nel 1784 da una circolare del Presidente del Buon governo, nella quale fu ordinata la vigilanza su “vagabondi, avventurieri, questuanti forestieri, pellegrini..., procuratori, mozzorecchi, venditori di fumo, imbroglioni, torcimani, compratori di robe furtive... le persone poi prepotenti e arbitrarie...”.
[28] Cfr. gli artt. 45-46-47-48 del regolamento del 1849 riuniti sotto il Titolo VIII, “Del subalterno servizio di pubblica vigilanza, ed investigazione di cui dispongono la Autorità di Polizia Amministrativa”.
[29] Cfr. gli artt. 123-124-127-139-140 del regolamento della gendarmeria del 1851.
[30] Secondo gli artt. 126 e 136 del regolamento della gendarmeria ciò era possibile solamente per controllare la permanenza domiciliare dei vincolati di precetto serale (sul quale vedi infra ), quando l’intervento della gendarmeria era richiesto da un abitante della casa e qualora dall’esterno venissero uditi strepiti urla e simili tali da far presumere un qualche disordine.
[31] B. FIANI, Trattato, cit.p. 440.
[32] Il Fiani ricordò che all’epoca in alcuni paesi europei esistevano corpi di guardie notturne con compiti analoghi: i Sereni in Spagna e i Ratelwaghts in Olanda ad esempio. (Cfr. B. FIANI, Trattato, cit.p. 441, nota 1).
[33] Questa fondamentale differenza non è specificata da alcuna legge ma è attestata dal Fiani nel Trattato a p.439.
[34] ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 230.
[35] Anche in altri rapporti della gendarmeria si legge di “ripetute lagnanze”. Si vedano ad esempio i proc.. 607 e 674 f. 231.
[36] B. FIANI, Trattato, cit.p. 24.
[37] ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 230, proc. 470.
[38] Ibidem, f. 230, proc. 514, f. 229 proc. 582, f. 233 proc. 684, f. 232 proc. 39.
[39] Ibidem, f. 230, proc. 434.
[40] Ibidem, f. 232 proc. 97, f. 234, proc. 177.
[41] Ibidem, f. 234, proc. 117.
[42] Ibidem, f. 234, proc. 155 e 180.
[43] Si vedano i processi proc. 645 e 662 f. 231, nella f. 229 il proc. 564, nella f. 230 i proc. 435, 462 e 499, nella f. 232 il proc. 76 (tutti abbastanza simili).
[44] Due esempi su tutti: il proc. 66 f. 232 e il proc. 468 f. 230.
[45] Si vedano ad esempio i proc. 438 e 454 f. 230 e il proc. 21 f. 233.
[46] F. 231, proc. 608.
[47] Cfr. ad esempio il proc. 542 f. 229.
[48] B. FIANI, Trattato, cit.p. 84.
[49] Ibidem.
[50] D’altronde, è stato da più parti sostenuto che Pietro Leopoldo per controbilanciare il proprio garantismo in campo penale doveva necessariamente potenziare l’efficienza dell’attività preventiva stringendo le maglie dell’organizzazione di polizia. P. NAPOLI in Polizia d’Antico Regime, cit.p. 29, sostiene che “il ruolo di vigilanza e di prevenzione pedagogica” della polizia leopoldina fu disegnato come “contrappeso all’addolcimento delle pene”. Analoga tesi è esposta da G. ALESSI in Le riforme di polizia, cit. p. 417.
[51] Cfr. A. BARETTA, Le società segrete in toscana nel primo decennio dopo la restaurazione, cit. nel quale sono ben descritti i compiti del più famoso degli “amici segreti”: Giuseppe Valtancoli.
[52] B. FIANI, Trattato, cit.p. 85: “Tristo argomento é questo, la cui esposizione rivela al nudo una brutta piaga della società, ma che l’indole del mio lavoro non consente che io trascuri”.
[53] Ibidem.
[54] Ibidem.
[55] Ibidem pp. 85 - 86.
[56] ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 232, proc. 68.
[57] Ibidem, f. 234, proc. 145.
[58] Ibidem.
[59] Ibidem, f. 93, carteggio diverso.
[60] Ibidem, f. 230, proc. 455.
[61] Ibidem, f. 231, proc. 623. Più precisamente in questo caso le suddette memorie non fungono da atto introduttivo, bensì l’ una da appoggio alle dichiarazioni contenute in un rapporto del commesso di vigilanza e l’ altra, invece, alla confutazione di ciò, assumendo, allora quest’ ultima la veste di preventiva difesa scritta proveniente da un soggetto il quale sapeva che presto sarebbe stato chiamato a rispondere di un proprio comportamento di fronte alla delegazione di governo.
[62] Si veda ad esempio il proc. 624 f. 231.
[63] Proc. 655 f. 231.
[64] Ibidem.
[65] Proc. 81 f. 232.
[66] ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 230, proc. 478, f. 231 proc. 620, f. 233 proc. 22 e 695.
[67] Ibidem, f. 234, proc. 142 e 149.
[68] Ibidem, f. 230, proc. 450, f. 232 proc. 44, f. 234 proc. 127. Ma in questi ultimi due casi le “esposizioni ed istanze” non sono altro che delle difese scritte portate rispettivamente da un parente e dal diretto interessato.
[69] Proc. 677 f. 231.
[70] Si veda ad esempio il proc. 690 f. 232.
[71] Un tale sistema fu usato nel proc. 532 f. 229: in un rapporto della gendarmeria del luglio 1858 dei barrocciai, proprio per il loro girovagare da un posto ad un altro, erano sospettati di commettere dei furti. Logicamente non potevano essere puniti in via ordinaria, ma se il sospetto delle autorità avesse trovato appoggio, ci sarebbe stata una sanzione economica. Un mese più tardi un altro rapporto entusiasticamente informò dell’esistenza di alcuni testimoni (gli stessi gendarmi) i quali avevano sorpreso gli accusati in giro a tarda notte con fare sospetto. Nell’ottobre dello stesso anno furono reperiti altri testimoni di questo girovagare notturno: questi semplici sospetti furono sufficienti per assoggettare a delle misure di polizia tre degli accusati, mentre nei confronti di altri due l’addebito non aveva trovato “sufficiente appoggio”.
[72] Cfr. il proc. 15 f. 233 e il proc. 43 f. 232.
[73] ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 232, proc. 86.
[74] Ibidem, f. 231, proc. 646.
[75] Cfr. proc. 564 f. 229; proc. 645 e 662 f. 231; proc. 76 f. 232.
[76] Cfr. proc. 438 f. 230 e proc. 21 f. 233.
[77] Cfr. proc. 588 e 594 f. 229.
[78] B. FIANI, Trattato, cit.p. 187.
[79] Ibidem, p. 188.
[80] Ibidem, p. 190.
[81] Ibidem, p. 190.
[82] “Ma per altra parte è un fatto indubitato, del quale io stesso nella mia pratica ho avuto assai frequentemente la prova”. (B. FIANI, Trattato, cit.p. 188.)
[83] Ibidem.
[84] Ibidem, p. 189.
[85] Ibidem.
[86] Compare negli artt. 17, 29 e 30.
[87] B. FIANI, Trattato, cit.p. 192.
[88] Ibidem p. 190. Si veda ad esempio il proc. 609 f. 231. Due uomini furono accusati di “condotta sospetta in materia di furti”, ma dopo le deposizioni (infruttuose) di tre testimoni, furono prosciolti (con la formula “attesoché non fu rimasto provato... dichiara non procedere oltre”) senza nemmeno essere sentiti. Per un altro caso analogo si veda il proc. 471 f. 230. Mentre in altri casi l’imputato compariva, era interrogato ma non veniva sottoposto a misure di polizia in quanto “dagli atti non è rimasto provato l’addebito”. (Cfr. il proc. 610 f. 231).
[89] In quasi tutti i processi della filza 231 (quella maggiormente leggibile riguardo alle testimonianze e alla difesa dell’imputato) è ricordato questo aspetto. Delle volte erano annessi agli atti del processo dei documenti che contenevano sia i precedenti “risultanti dai protocolli economici” sia la “fede di specchietto” (cioè gli eventuali precedenti con la giustizia penale ordinaria). Si veda ad es. il proc. 82 f. 232.
[90] ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 229, proc. 594. Per il descritto procedimento si vedano anche i proc. 583 e 584 della stessa filza.
[91]Ibidem, f. 229, proc. 583.
[92] Ibidem, f. 229, proc. 594.
[93] Ibidem, f. 231, proc. 607. Si veda anche il proc. seguente 608 e i proc. 634 e 635 sempre della stessa filza.
[94] Ibidem, f. 231, proc. 607. Si vedano anche nella stessa filza i proc. 611, 621, 627, 640 e 660 e il proc. 585 f. 229.
[95] Ibidem, f. 231, proc. 610. Si vedano anche i proc. 607, 619, 630, 644 e 653 f. 231, il proc. 600 f. 229 e il proc. 145 f. 234.
[96] Cfr. i proc. 613 e 619 f. 231.
[97] Cfr. i proc. 584 f. 229 e 637 f. 231.
[98] Cfr. il proc. 638 f. 231 e il proc. 591 f. 229. Ma su questo aspetto, poi, si veda infra.
[99] Cfr. i proc. 615 e 632 f. 231.
[100] ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 231, proc. 655.
[101] Ibidem, f. 229, proc. 524. Si confrontino anche altri processi nei quali l’audizione di nuovi testimoni nominati dall’imputato non portò a risultati per lui favorevoli: proc. 530 f. 229, proc. 655 e 668 f. 231.
[102] Ibidem, f. 229, proc. n° 524. Anche nel proc. 127 f. 234 un uomo cercò di difendersi preventivamente attraverso la presentazione di una “esposizione e istanza”.
[103] Cfr. il proc. 86 f. 232 dove questo atto viene definito “scritto difensivo”.
[104] Cfr. il proc. 44 f. 232.
[105] Si veda il proc. 627 f. 231, il proc. 94 f. 232, i proc. 4 e 685 f. 233 e il proc. 166 f. 234.
[106] ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 233, proc. 685.
[107] I parroci, poi, erano in costante contatto con la delegazione di governo dato che erano chiamati con frequenza ad attestare se gli imputati apparivano sul proprio libro dei battezzati. Cfr. ad esempio i proc.430, 432 e 502 f. 230, i proc. 523 e 598 f. 229.
[108] B. FIANI, Trattato, p. 192.
[109] Ibidem.
[110] Nonostante il parere del Fiani si può supporre che nei processi economici più importanti o più articolati (come quello in esame) caratterizzati da molti atti (tra cui i ricorsi alla prefettura) che implicavano una buona conoscenza tecnica, uno o più avvocati assistettero gli imputati. Questi però, nella maggioranza dei casi non dovevano avere alcuna assistenza: il processo si chiudeva celermente con l’irrogazione di una misura preventiva e l’eventuale intervento di legali ne avrebbe snaturato le caratteristiche oltre ad essere infruttuoso. In molti casi, poi, (come nei processi per furti e depredazioni campestri che avevano come protagonisti i braccianti) gli accusati non si sarebbero potuti nemmeno permettere una difesa tecnica che comunque, si ripete, sarebbe stata molto difficile.
[111] ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 233, proc. 15.
[112] Ibidem.
[113] Ibidem.
[114] Ibidem.
[115] Ibidem.
[116] Art. 8 del regolamento di polizia del 22 ottobre 1849.
[117] Si veda il suddetto art. 8.
[118] B. FIANI, Opuscolo, cit.p. 15.
[119] B. FIANI, Trattato, cit.p. 137.
[120] Ibidem. L’autore dichiarava che gli effetti benefici della misura si facevano sentire ad esempio sui “giovani traviati” e nelle liti familiari.
[121] Art. 15 del regol. di pol. del 22 ottobre 1849.
[122] Ibidem. Scorrendo l’appendice si troveranno molti casi di ammonizioni accompagnate da minaccia di precetto.
[123] B. FIANI, Trattato, cit.p. 137.
[124] Es: il precetto del ritiro serale ex art. 12 (n° 6) del regol. di pol. del 1849.
[125] Es: il precetto di non conversare con certe determinate persone ex art. 12 (n° 8) del regol. di pol. del 1849.
[126] B. FIANI, Trattato, cit.p. 138.
[127] Ibidem, p. 137.
[128] Ibidem, p. 139.
[129] Ibidem.
[130] Ibidem.
[131] B. FIANI, Opuscolo... p. 16.
[132] È l’autore stesso che ci informa che prima del 1849 anche i precetti politici erano emessi a tempo indeterminato. (B. FIANI, Trattato, cit.p. 141, nota 1).
[133] Art. 13 del regol. di pol. del 22 ottobre 1849.
[134] Ibidem.
[135] Art. 12 della legge 16 novembre 1852.
[136] Art. 13 del regol. di pol. del 22 ottobre 1849.
[137] Ibidem.
[138] Secondo il citato art. 13 il sequestro in pretorio non poteva eccedere lo spazio di 48 ore, mentre l’arresto in casa e l’allontanamento da un luogo determinato non potevano essere superiori a 8 giorni. L’art. 1 della legge del 25 aprile 1851 in vista delle “circostanze speciali nelle quali trovasi attualmente il paese” autorizzò le autorità di polizia a sottoporre “le persone sospette di criminosi propositi” al sequestro in pretorio fino ad una durata massima di 8 giorni, e all’allontanamento da un dato luogo fino ad un mese.
[139] Art. 16 del regol. di pol. del 22 ottobre 1849.
[140] Ibidem.
[141] B. FIANI, Trattato, cit.p. 143-144.
[142] Egli raccomandava che nell’uso dei mezzi penali l’azione della polizia fosse “tranne quando intenda correggere... sempre momentanea e provvisoria”. Poi, dedicava un breve commento ai tipi di pena che “i codici d’Europa” ponevano a disposizione della “polizia preventiva”: “la carcere, la fustigazione, l’esilio, il domicilio coatto, la reclusione nelle case di correzione, la sottoposizione coatta alla disciplina militare e la detenzione nelle fortezze”. Particolarmente dure furono le sue parole contro la fustigazione giudicata crudele, umiliante ed inutile per la rieducazione del reo in quanto ergeva “una barriera morale” fra di lui e la società, nonché contraria a uno dei principi fondamentali di ogni “buon codice di Polizia”: quello secondo il quale le pene di polizia non dovessero essere infamanti. (B. FIANI, Trattato, cit.p. 136, 144-149).
[143] Cfr. i proc. 425, 464, 482, 498 e 510 f. 230. Ma anche nelle altre filze vi sono numerosi altri casi simili.
[144] Cfr. i proc. 441 e 497 f. 230 e il proc. 546 f. 229.
[145] Dai 24 giorni dei proc. 485 f. 231, 23 f. 233, 654 f. 231 fino ai 38 giorni del proc. 516 f. 230 e ai 46 giorni di carcere del proc. 561 f. 229 decretati nei confronti di un uomo della Rotta colpevole di “pertinace contravvenzione al precetto”.
[146] B. FIANI, Trattato, cit.p. 145.
[147] Art. 2 della legge del 25 aprile 1851.
[148] Si legge nel proemio: “Ci siamo... persuasi del pressante bisogno che le Autorità di Polizia Amministrativa vengano provvedute, fino a nuove e diverse disposizioni, di poteri proporzionati alla eccezionale gravità del tempo e delle circostanze, si ché, senza disturbo della libera azione dei Tribunali Ordinarj, ad Esse non manchino i mezzi necessari a prevenire i disordini ed a frenare le sinistre tendenze dei mali intenzionati”.
[149] Anch’egli teneva a sottolineare la provvisorietà di questa legge, la quale, bisogna ricordarlo, era da poco stata emanata quando l’autore scriveva il Trattato così da giustificare le sue rosee speranze per il futuro: “è da riflettersi che la legge suddetta nacque in tempi poco tranquilli, ed è perciò da considerarsi come legge di circostanza, e di transizione”. B. FIANI, Trattato, cit.p. 139, nota 1.
[150] Art. 1 della legge 16 novembre 1852.
[151] Ibidem.
[152] Cfr. art. 6 della legge 16 novembre 1852.
[153] Gli artt. 20, 21, 22, 32 e 33.
[154] Si vedano gli artt. 7, 8, 9 e 10 di questa legge.
[155] B. FIANI, Trattato, cit.p. 195, nota 3.
[156] Art. LXII della legge 30 novembre 1786.
[157] Art. LXIII della legge 30 novembre 1786. I magistrati del potere economico avrebbero giudicato a proposito di “libelli, o piuttosto cartelli contenenti semplici maldicenze” e “maldicenze verbali... contro il governo, suoi magistrati e ministri”.
[158] Si veda ad esempio M. MONTORZI, I processi contro Filippo Mazzei ed i liberali pisani del 1799. (Ragguagli bio-bibliografici su un ritrovamento archivistico), in Giustizia in Contado, cit. pp. 289-300. Il Mazzei fu accusato di “giacobinismo” e processato in via economica ma, sia per l’irrilevanza della pericolosità sociale del suo comportamento, sia per la figura stessa dell’imputato (egli era in età avanzata e godeva di un certo prestigio per il proprio passato di dignitario di corte presso i reali di Francia e di Polonia), il risultato fu che egli ricevette una semplice ammonizione con la minaccia di misure più severe se in futuro avesse mostrato di nuovo “sentimenti favorevoli per la democrazia”. (Cfr. Biblioteca Comunale “Guarnacci”, Volterra, Arch. Maffei, 102).
[159] A.BARETTA, Le società segrete in Toscana, cit. p. 58. L’accenno agli spropositati provvedimenti contro i patrioti riguardava lo stato pontificio: “era troppo stridente il contrasto tra la quieta Toscana, dove il Governo lasciava in pace i sudditi col solo patto che non proclamassero troppo forte le loro idee, e quell’ambiente di oppressione che impediva qualsiasi manifestazione del proprio pensiero”. (Ibidem, p. 13). Sulla repressione attuata dai papi si rimanda al cap. I. Comunque, sull’argomento non sarà inutile la lettura del romanzo storico Cronache romane di Stendhal e segnatamente il racconto Vanina Vanini.
[160] B. FIANI, Trattato, cit.p. 78.
[161] La storia è piena di questi esempi ma forse il più perfetto apparato di repressione di opinioni politiche divergenti da quelle ufficiali rimane la Ceka, la polizia politica bolscevica, “il braccio armato della dittatura del proletariato” secondo la definizione di uno dei suoi primi funzionari. (Cfr. S. COURTOIS, N. WERTH, J.L. PANNE, A. PACZKOWSKI, K. BARTOSEK, J.L. MARGOLIN, Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, Milano, 1998, pp. 37-252).
[162] B. FIANI, Trattato, cit.p. 78.
[163] Ibidem.
[164] Ibidem, p. 80.
[165] Alcuni sono riportati in appendice.
[166] Anche R. Cerri nota che a Pontedera “nella seconda metà del 1859... più vivace si sviluppò la lotta tra legittimisti e liberali”. ( R. CERRI, Pontedera tra cronaca e storia, cit.p. 75).
[167] ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 233, proc. 685. Si vedano anche i proc. 688, 2 e 11 f. 233 e i proc. 41, 50, 51, 54, 61, 63, 65 e 86 f. 232.
[168] Nel proc. 75 f. 232 un uomo fu accusato di avere pubblicamente minacciato di volere tagliare la testa ai liberali al ritorno di Leopoldo II. Per un altro caso simile si veda il proc. 51 della stessa filza e il proc. 4 f. 233.
[169] Se ne ha una conferma scorrendo la voce “spirito pubblico” nei rapporti settimanali del commesso di vigilanza: fino al 23 aprile 1859 non venne segnalato alcunché, poi, nel rapporto del 30 aprile il commesso annotò: “seguita tuttora la calma e la tranquillità pubblica per tutto questo governativo distretto. La partenza del Granduca dal Territorio Toscano ha fatto dell’impressione a molte persone, e biasimano oltremodo questa sua risoluzione per l’attaccamento verso di lui”. Poi, fino all’annessione, non venne rilevato assolutamente niente che potesse assomigliare ad un tumulto o a dei disordini; solo retoriche frasi riguardanti i sentimenti della popolazione che, secondo questi documenti, specialmente a partire dal 1860, erano a favore dell’unione col Piemonte. L’unico rapporto sullo spirito pubblico parzialmente negativo fu compilato nel maggio 1859, ma la causa era solo indirettamente politica: “... si ascoltano lamenti per parte dei braccianti e delle famiglie indigenti per la mancanza di lavori, per essere non poco invogliato il commercio, atteso la Guerra dell’Indipendenza Italiana”. Cfr. la voce “spirito pubblico” nei rapporti settimanali del commesso di vigilanza in ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 111 e 112, Rapporti settimanali.
[170] ASPI, Delegazione di Pontedera, proc. 689 f. 233.
[171] Ibidem, proc. 38 f. 232.
[172] Ibidem, proc. 38 f. 232 e proc. 129 f. 134.
[173] Ibidem, proc. 64 f. 232.
[174] Ibidem, proc. 89 f. 232.
[175] Ibidem, proc. 65 f. 232.
[176] Ibidem, proc. 694 f. 233.
[177] Ibidem, proc. 1 f. 233. Cfr. anche il proc. 26 f. 233 e i proc. 85 e 86 f. 232.
[178] Ibidem, proc. 2 f. 233. Cfr. anche i proc. 51 e 54 f. 232 e i proc. 129 e 181 f. 234.
[179] Ibidem, proc. 4 f. 233. Simile titolo della procedura anche nel proc. 9 f. 233 e nei proc. 57 e 63 f. 232.
[180] Ibidem, proc. 49 f. 232. Cfr. anche i proc. 38 e 50 della stessa filza.
[181] Ibidem, proc. 63 f. 232.
[182] Ibidem, proc. 63 f. 232.
[183] Ibidem, proc. 63 f. 232.
[184] Ibidem, proc. 63 f. 232.
[185] Ibidem, proc. 75 f. 232. Per altri casi nei quali l’autorità, prima di irrogare la misura, si accertava dell’eventuale influenza dell’imputato si vedano i proc. 688 e 9 f. 233 e il proc. 181 f. 234.
[186] Ibidem, proc. 75 f. 232.
[187] Ibidem, proc. 75 f. 232. Anche in un’altra occasione ad un uomo di Ponsacco accusato di “manifestazioni sovversive e capaci a compromettere l’ordine pubblico” (in realtà l’uomo si era limitato ad appendere in paese dei cartelli sui quali aveva scritto dei motteggi nei confronti di Vittorio Emanuele) furono ingiunti 30 giorni di carcere più l’ammonizione successiva del delegato. (Proc. 129 f. 234).
[188] Ibidem, proc. 668 f. 231.
[189] Ibidem, f. 44, carteggio della prefettura.
[190] Ibidem.
[191] Ibidem, proc. 136 f. 234.
[192] Ibidem.
[193] Ibidem, proc. 158 f. 234. Cfr. anche il proc. 160 della medesima filza.
[194] Ibidem, proc. 81 f. 232.
[195] Dove fu denunziata l’esistenza di un “Circolo Politico” filolorenese del quale facevano parte anche uomini di una certa cultura ed educazione. Il relativo processo si concluse con l’allontanamento di un individuo dal distretto della delegazione per la durata di tre mesi. (Cfr. ASPI, Delegazione di Pontedera, proc. 68 f. 232).
[196] Nel luglio del 1859, la prefettura ordinò al delegato la più assidua sorveglianza sul paese e su tutta la bassa valle dell’Arno.e di “reprimere energicamente” gli eventuali tumulti.
[197] ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 44, carteggio della prefettura.
[198] Si veda ad esempio un atto spedito dalla Prefettura di Pisa al Delegato di Pontedera dell’ottobre 1859 nel quale, in occasione dell’ “innalzamento della Bandiera Sabauda”, l’ufficio pisano esortava al mantenimento dell’ordine: “Rispetto a tutti, rispetto agli Ecclesiastici ai quali non deve farsi violenza sotto alcun pretesto per benedizione di Bandiere o altro. Guai a chiunque a turbar l’ordine...”. (ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 41, carteggio della prefettura ).
[199] Telegramma di Ricasoli del 15 agosto 1859 contenuto nella f. 41.
[200] Ibidem.
[201] Discorso alla Camera dei deputati di Benito Mussolini del 16 novembre 1922.
[202] ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 93, carteggio diverso.
[203] Ibidem, proc. 190 f. 235.
[204] R. CERRI, Pontedera tra cronaca e storia, cit.p. 74.
[205] ASPI, Delegazione di Pontedera, proc. 36 f. 232. Un analogo rifiuto proveniente da un ecclesiastico si verificò al momento di raccogliere le oblazioni per la sottoscrizione promossa da Garibaldi. (Cfr. il proc. 136 f. 234).
[206] Ibidem, proc. 4 f. 233.
[207] Ibidem, proc. 43 f. 232.
[208] Ibidem, proc. 119 f. 234. In effetti, era sufficiente essere sospettati dalla “pubblica voce” come autori di gesti plateali a carattere filolorenese per ricevere dure sanzioni: cfr. ad esempio il proc. 160 f. 234.
[209] Ibidem, proc. 41 f. 232.
[210] Ibidem, proc. 61 f. 232.
[211] Cfr. i proc. 121, 124, 125 e 128 f. 234.
[212] ASPI, Delegazione di Pontedera, proc. 121 f. 234.
[213] Ibidem.
[214] Ibidem, proc. 124 f. 234.
[215] Ibidem, proc. 125 f. 234.
[216] Ibidem, proc. 128 f. 234.
[217] Ibidem, f. 41, carteggio della prefettura.
[218] Ibidem, f. 41, carteggio della prefettura.
[219] Ibidem, f. 41, carteggio della prefettura. Si ebbero altre simili richieste da parte della prefettura: nel settembre del 1859 volle sapere “i nomi dei Preti e Frati che in codesto Circondario Governativo sono stati sottoposti per condotta politica a qualunque Misura di Polizia non escluso il semplice monito”. (Cfr. la f. 41). Nei primi mesi del 1860 due analoghe richieste si occuparono della questua dei religiosi (Cfr. la f. 44).
[220] Ibidem, f. 41, carteggio della prefettura.
[221] Questa pratica resistette per diversi anni, anzi, una volta che la Toscana fu inserita nello stato unitario, costituirono la principale manifestazione del dissenso politico. Alcuni di questi cartelli, reperibili presso ASPI, sono riportati da R. CERRI in Pontedera tra cronaca e storia, cit. pp. 75-79.
[222] Cfr. ad esempio il proc. 50 f. 232 e il proc. 132 f. 234.
[223] ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 41, carteggio della prefettura. Cfr. anche il proc. 129 f. 234.
[224] L’espressione fu usata da un ‘vero’ oppositore politico: C. MALAPARTE, La pelle, Milano, 1949, p. 157.
[225] ASPI, Delegazione di Pontedera, proc. 659 f. 231. L’uomo “partigiano dichiarato del regime costituzionale” fu semplicemente ammonito anche se il suo comportamento provocatorio tenuto “mentre sortiva il Popolo dalle Sacre Funzioni” avrebbe potuto fare nascere dei tumulti.
[226] Ibidem, proc. 25 f. 233.
[227] Ibidem, proc. 36 f. 232. Per un altro caso simile cfr. il proc.165 f. 234.
[228] Ibidem, proc. 36 f. 232.
[229] Ibidem, proc. 641 f. 231.
[230] Ibidem, f. 41, carteggio della prefettura.
[231] Circolare dalla Prefettura di Pisa alla Delegazione di Governo di Pontedera del 13 luglio 1859 in ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 41, carteggio della prefettura.
[232] Ibidem.
[233] Ibidem. Simili liste furono compilate anche per le altre comunità di Cascina, Ponsacco, Capannoli e Palaia.
[234] A Pontedera erano 537 (di cui solo 281 votarono), mentre la comunità contava 7000 abitanti; a Cascina erano 2132 (465 e 328 furono coloro che parteciparono attivamente alla prima e alla seconda votazione) a fronte di una comunità di 2300 abitanti; a Palaia votarono 235 elettori (195 in seconda votazione) su 552 aventi diritto e a Capannoli 154 su 284. I dati relativi alla popolazione sono desunti dalle stesse carte d’archivio alle filze 41 e 44. Tutti i dati reperibili su quelle lezioni si trovano nella f. 41.
[235] ASPI, Delegazione di Pontedera, proc. 690 f. 233.
[236] Cfr. f. 40, carteggio della prefettura e il proc. 704 f. 233.
[237] Cfr. proc. 477 f. 230, proc. 704 f. 233, f. 40, 41 e 44 carteggio della prefettura.
[238] ASPI, Delegazione di Pontedera, proc. 704 f. 233.
[239] Ibidem, f. 44, carteggio della prefettura.
[240] Come si è visto (nota 207) anche Vittorio Emanuele non sfuggiva alla qualifica di “protestante” nei discorsi della gente comune ancora affezionata ai Lorena.
[241] ASPI, Delegazione di Pontedera, proc. 477 f. 230.
[242] Ibidem.
[243] Sono nominati anche in un’informazione del comm. vigil. del 4-9-1859 contenuta nella f. 44. Il giudizio sulla loro condotta era ottimo: “vivono a se intenti a prosperare le loro finanze col commercio dei generi coloniali e di bevande spiritose e senza mai avere dato a che ridire sulla loro condotta”. Perciò è da escludere che, oltre a professare la religione protestante (nel documento erano menzionati tra le “associazioni non Cattoliche”), avessero simpatie politiche sovversive e quindi un forte legame col “partito demagogico”. È più probabile un’influenza culturale.
[244] ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 40, carteggio della prefettura.
[245] Ibidem.
[246] ASFI, Carte Bianchi-Ricasoli, busta 0, inserto A.
[247] Ibidem.
[248] Ibidem.
[249] Si veda l’intera documentazione nella f. 44.
[250] ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 41, carteggio della prefettura.
[251] Ibidem, f. 40, carteggio della prefettura.
[252] Ibidem.
[253] Ibidem, proc. 695 f. 233.
[254] M. SBRICCOLI, Il furto campestre nell’Italia mezzadrile. Un’interpretazione, in Annali dell’istituto “A. Cervi”, II, Bologna, 1980, pp. 375-376.
[255] Cfr. i proc. 591 e 597 f. 229 e i proc. 634 e 638 f. 231.
[256] Il furto campestre, dice Sbriccoli, era “molto diffuso anche perché raramente punito e raramente punito anche perché molto diffuso”. Cfr. M. SBRICCOLI, Il furto campestre nell’Italia mezzadrile, cit. pp. 375-376.
[257] Cfr. i proc. 173 e 174 f. 234.
[258] Cfr. il proc. 37 f. 232 e il proc. 492 f. 230.
[259] Cfr. il proc. 684 f. 233 e il proc. 98 f. 232.
[260] Cfr. il proc. 452 f. 230 e il proc. 166 f. 234.
[261] Cfr. i proc. 429 e 519 f. 230.
[262] Cfr. il proc. 503 f. 230.
[263] Sintomatico a questo proposito è l’incipit del proc. 53 f. 232: “Non potendo avere avuto sfogo il presente rapporto per la via del potere ordinario perché mancante di alcune circostanze, ed è però che il sottoscritto lo rimette a V.S. Illma all’oggetto di far conoscere...”.
[264] A partire dall’età medicea gli statuti pontederesi furono costretti ad occuparsi del diffuso fenomeno dei “dannaioli”. Cfr. M. MONTORZI, Pontedera e le guerre del contado, cit.pp. 113-117, dove egli afferma che la pratica del danno dato era l’unica risorsa disponibile per quegli “affamati” e “sbandati” che non avevano trovato tutela nel sistema delle corporazioni.
[265] Succedeva molto spesso. Si veda ad es. il proc. 425 f. 430.
[266] Cfr. il proc. 438 f. 230 e il proc. 21 f. 233.
[267] Proc. 693 f. 233.
[268] È il caso dei proc. 492 e 513 f. 230, del proc. 37 f. 232 e del proc. 152 f. 234. La carcerazione preventiva fu assai frequentemente usata anche per i “normali” furti campestri nel periodo ottobre-novembre del 1859. Cfr. i proc. 31 e 33 f. 233, e i proc. 39, 46, 52, 53 f. 232.
[269] Cfr. i proc. 421 e 439 f. 230, i proc. 39, 52 e 53 f. 232, i proc. 33 e 698 f. 233.
[270] Cfr. il proc. 46 f. 232, i proc. 173 e 180 f. 234, il proc. 619 f. 231.
[271] Cfr. il proc. 46 f. 232.
[272] Cfr. il proc. 46 f. 232.
[273] Cfr. i proc. 147, 161, 163, 173, 174 e 177 f. 234.
[274] Cfr. i proc. 456 e 518 f. 230.
[275] ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 92, carteggio della prefettura.
[276] Ibidem, f. 93, carteggio della prefettura.
[277] Cfr. i proc. 532, 536 e 567 f. 229, i proc. 609, 622, 627 e 646 f. 231, i proc. 82 e 96 f. 232.
[278] ASPI, Delegazione di Pontedera, proc. 598, f. 229. Per un caso analogo si veda il proc. 608 f. 231.
[279] Secondo un rapporto della gendarmeria di Ponsacco, in quel paese esisteva un bordello detto “il Palazzaccio” molto noto anche ai forestieri che vi accorrevano dalle altre province toscane. Cfr. il proc. 446 f. 230. Si veda anche il proc. 110 f. 232.
[280] Cfr. il proc. 484 f. 230 e il proc. 584 f. 229. Per altri processi aventi ad oggetto la “condotta scostumata” di donne si vedano i proc. 443 e 490 f. 230, i proc. 548, 577 e 600 f. 230, i proc. 697 e 3 f. 233, i proc. 111 e 179 f. 234.
[281] Anche il Fiani era convinto che la prostituzione fosse un male inevitabile e perciò la società doveva tollerarla dato che non aveva i mezzi per impedirla. Tuttavia questo “mostro proteiforme” doveva essere sottoposto a non ben precisate regole che ne garantissero il minor danno sociale possibile. (Cfr. B. FIANI, Trattato, cit. pp. 382-383).
[282] Cfr. il proc. 58 f. 232. Una donna di Marti , che aveva reiteratamente violato il precetto di non allontanarsi dal distretto governativo perché sospettata di mal costume, fu condannata dalla prefettura di Pisa alla “grave e straordinaria misura” di due anni di casa correzionale. Questa decisione fu motivata dal fatto che, secondo la prefettura, la donna aveva deciso di “stancare i tribunali dei quali si fa giuoco proferendo contro i medesimi parole ingiuriose”. In tale caso, quindi, la sanzione era dovuta non solo alla pratica del meretricio ma anche alla spavalderia della donna. Per altri casi in cui furono irrogate misure eccezionali di polizia (secondo il tenore della legge del 25 aprile 1851 e di quella del 16 novembre 1852) si veda un prospetto riassuntivo del maggio 1860 in cui quattro individui si trovavano al momento assoggettati alla misura punitiva della casa correzionale, da un minimo di un anno ad un massimo di quattordici mesi. Come già rilevato, questi provvedimenti avevano ben poco del carattere della prevenzione, essendo vere e proprie pene, astrattamente emanabili nell’ambito di un giudizio criminale ordinario.
[283] Si veda il proc. 104 f. 232 e il proc. 486 f. 230.
[284] Si veda il proc. 533 f. 229.
[285] Proc. 426, 501 e 517 f. 230, proc. 533, 571 e 590 f. 229, proc. 117 f. 234.
[286] Si possono vedere i proc. 444, 462 e 449 f. 230, i proc. 538, 539, 560, 564, 592, 596 f. 230, i proc. 613, 628, 632, 640, 643, 645, 657 f. 231, i proc. 47 e 87 f. 232, i proc. 120, 138, 140, 141, 150, 155, 170 f. 234.
[287] ASPI, Delegazione di Pontedera, proc. 640 f. 231.
[288] Ibidem, proc. 643 f. 231.
[289] Si vedano i proc. 435 e 496 f. 230, i proc. 553 e 595 f. 229, i proc. 610, 615, 630 e 671 f. 231, i proc. 48 e 59 f. 232, il proc. 133 f. 234.
[290] Cfr. i proc. 450, 457 e 494 f. 230 e i proc. 655 e 669 f. 231.
[291] Due esempi su tutti: il proc. 433 f. 230 e il proc. 524 f. 229.
[292] Cfr. i proc. 460, 472 e 473 f. 230, i proc. 530 e 604 f. 229, i proc. 614 e 629 f. 231, i proc. 127, 148 bis e 154 f. 234.
[293] Cfr. i proc. 573, 586 e 602 f. 229, il proc. 12 f. 233.
[294] Cfr. i proc. 612 e 666 f. 231, i proc. 42, 66 e 91 f. 232, i proc. 114 e 134 f. 234.
[295] Cfr. i proc. 691, 692 e 27 f. 233, il proc. 664 f. 231, i proc. 62 e 92 f. 232, il proc. 169 f. 234.
[296] Cfr. il proc. 148 f. 234.
[297] Vedi supra (II. 4).
[298] Questo era un istituto largamente applicato in Francia dove era stato previsto per la prima volta dall’art. 131 del senatus consulto del 28 floreale dell’anno XII e successivamente modificato dal codice penale del 1810 e dalla legge del 28 aprile 1832.
[299] Art. 36 del regolam. di pol. del 22 ottobre 1849.
[300] B. FIANI, Trattato, cit.p. 124.
[301] I. Buonfanti, Teoria del regolamento di polizia, cit.p. 134.
[302] Ibidem, p. 140.
[303] Ibidem, p. 139.
[304] B. FIANI, Trattato, cit.p. 130. IL Buonfanti aggiunse che se il condannato non avesse potuto reperire alcun garante, avrebbe dovuto essere sottoposto alla tutela della società di patrocinio distrettuale. (Cfr. I. BUONFANTI, Teoria del regolamento di polizia, cit.pp. 145-146).
[305] B. FIANI, Trattato, cit.p. 130.
[306] Quelli relativi al periodo in esame: il proc. 467 f. 230, i proc. 528, 550, 554 f. 229, il proc. 637 f. 231, il proc. 74 f. 232 e i proc. 144 e 159 f. 234.
[307] Con un’ulteriore complicazione terminologica il Fiani affermò che la polizia di fatto nel decretare queste misure di prevenzione si comportava da “polizia punitrice”. (B. FIANI, Trattato, cit. pp. 442-444).
[308] Si veda la documentazione in appendice.
[309] ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 92, carteggio della prefettura.
[310] Ibidem.
[311] Ibidem, f. 92 e f. 40, carteggio della prefettura. In alcuni di questi casi la decisione era presa dalla Prefettura di Pisa e il Delegato di Pontedera, a cui era presentata la richiesta, aveva il compito di comunicare la decisione finale ai postulanti.
[312] Ibidem, f. 92, f. 40 e f. 41, carteggio della prefettura. Anche qui pare che la decisione vera e propria dovesse essere presa dalla prefettura di Pisa. Per una breve storia del teatro di Pontedera e delle sue rappresentazioni in età sette-ottocentesca si veda M. MONTORZI, Pontedera e le guerre del Contado, cit. pp. 117-120.
[313] Ibidem, f. 92, carteggio della prefettura.
[314] Ibidem.
[315] Ibidem, f. 41, carteggio della prefettura. La preoccupazione di correggere le persone oziose e di distoglierle dal frequentare bettole e dal praticare giochi d’azzardo traspare nella Relazione sul Vicariato di Pontedera del Vicario Luigi Comparini del dì 1° Giugno 1795 (ASFI, Segreteria di Gabinetto, 316, ins. 22).
[316] ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 41 , carteggio della prefettura e f. 93, carteggio diverso.
[317] Ibidem, carteggio della prefettura e f. 269, carte sciolte.
[318] Ibidem, f. 40, 41 e 44 , carteggio della prefettura, f. 93, carteggio diverso e f. 269, carte sciolte.
[319] Ibidem, f. 92 , carteggio della prefettura.
[320] Ibidem, f. 40 e 41, carteggio della prefettura e f. 269, carte sciolte.
[321] Ibidem, f. 40, 41 e 44 , carteggio della prefettura.
[322] Ibidem, f. 40 e 44 , carteggio della prefettura e f. 269, carte sciolte.
[323] Ibidem, f. 40, 41 e 44 , carteggio della prefettura e f. 269, carte sciolte.
[324] Ibidem, f. 269, carte sciolte.
[325] Ibidem, f. 40 e 41, carteggio della prefettura e f. 93, carteggio diverso.
[326] Ibidem, f. 40, 41 e 44 , carteggio della prefettura e f. 93, carteggio diverso.
[327] Ibidem, f. 40, 41 e 44 , carteggio della prefettura.
[328] Ibidem, f. 41 , carteggio della prefettura.
[329] Ibidem, f. 93, carteggio diverso.
[330] Ibidem, f. 92 , carteggio della prefettura.
[331] Ibidem,
f. 40, 41 e 44 , carteggio della prefettura.