CAPITOLO III

III.1. I processi economici e i modi in cui erano introdotti.

Il materiale di archivio oggetto della ricerca può essere suddiviso in due grosse parti di cui la prima è quella concernente i processi economici o sommari[1] verificatisi nel territorio della Delegazione di Governo di Pontedera tra il 1858 e i primi mesi del 1860, precisamente fino all’annessione del Granducato al Regno di Sardegna, avvenuta il 22 marzo 1860, mentre la seconda riguarda il carteggio[2] intrattenuto con la Prefettura di Pisa, all’incirca nel medesimo periodo di tempo.

Il processo economico era appunto il mezzo principale di cui si servivano le autorità di polizia per irrogare delle particolari misure specialpreventive ante o praeter delictum (anche se in un caso eccezionale, cioè la sottoposizione alla sorveglianza della polizia[3], erano applicate post delictum) dotate di una certa elasticità di applicazione in maniera da adattarsi alle molteplici circostanze che si presentavano.

Invece, le “pene di polizia”, come notato[4], appartenevano a quella sezione di essa denominata “punitrice” o “punitiva” oppure “di diritto” corrispondente ai giudici ordinari ed essenzialmente non si discostavano dalle punizioni previste dal codice penale per i reati.

Per descrivere efficacemente questa distinzione il Fiani affermò che sia la polizia di diritto che quella di fatto facevano uso di “espedienti penali”[5] e questi, se nel primo caso conservavano il carattere di pene vere e proprie “perché si irrogano per un fatto commesso od omesso in disprezzo della Legge che l’ha litteralmente proibito”[6], nell’altro dovevano più specificamente denominarsi “mezzi di prevenzione”[7] perché destinati, non tanto a punire un’azione illegale, quanto ad “allontanare un fatto nocivo di cui è probabile l’avvenimento, o per correggere tendenze e abitudini turbolenti e viziose, che in progresso di tempo potrebbero condurre al delitto”[8].

Non trattandosi di un processo ordinario, le suddette misure potevano essere prese semplicemente tramite una “verificazione sommaria, e la contestazione dei fatti e dei motivi che giustificano la misura”[9] oppure addirittura “senza bisogno di atti formali”[10].

Un’appropriata definizione del processo economico ci è stata lasciata dal Fiani nel Trattato di polizia:

Il Processo economico è un processo che si compila in scritto, ed in segreto, per il quale, abbreviate le forme, ed omesse le solennità che si richiedono nel processo criminale, sommariamente si ricerca se un fatto denunziato sia veramente avvenuto, se fondati siano i timori d’un supposto pericolo sovrastante alla pubblica sicurezza, e tranquillità, e se meritevole di repressione sia un individuo, indicato come infesto e pericoloso all’ordine per le sue tendenze, e per le sue abitudini[11].

I fatti oggetto del processo economico potevano essere indicati dalla legge solo genericamente ed essere “anche di mero sospetto o di mera intenzione”[12] dato che non si trattava di veri e propri crimini puniti alla stregua del codice penale, ma piuttosto di “piccoli delitti”[13], “piccole offese”[14] o “azioni immorali” recanti “scandalo o mal esempio alla società”[15].

La potestà economica era, dunque, l’elemento caratterizzante l’attività di prevenzione della polizia e, sotto questo punto di vista, le sue competenze ricalcavano più o meno quelle stabilite dalla riforma di Pietro Leopoldo, mentre la principale differenza si riscontrava dal punto di vista soggettivo, una volta eliminata la figura del vicario regio come titolare dei poteri ordinari e di polizia e ristabilite le mansioni nei modi sopra descritti.

Ecco che allora per spiegare il significato dell’espressione usata dal Fiani “processo che si compila... in segreto” possiamo servirci delle disposizioni contenute nella “Leopoldina” e dei suoi primi commentatori: l’art. 49 della legge del 30 novembre 1786, per amore di garantismo, aveva proibito gli “atti segreti o camerali su dei quali si presumesse di prendere contro qualcheduno qualsivoglia risoluzione, benché stimata di leggiero momento”.[16]

Questa soluzione si sarebbe armonizzata coll’esistenza del processo economico stesso, caratterizzato proprio dalla mancanza di quelle “solennità che si richiedono nel processo criminale”[17] e quindi dall’essere “spedito”[18] e “semplice”[19], dalla obbligatorietà della contestazione e dalla possibilità offerta all’incolpato “di portare le sue discolpe pettoralmente davanti al Ministro”[20].

Il processo economico era tipicamente inquisitorio giacché l’azione del magistrato di polizia provocata da una delazione segreta o dalla pubblica voce o da semplici sospetti, procedeva d’ufficio nel raccogliere le prove sui fatti in questione e sulle complessive abitudini degli individui verso i quali, molto spesso sarebbe stata successivamente applicata una qualche misura[21].

Nella stragrande maggioranza dei processi analizzati l’incipit era rappresentato da un rapporto del sergente della gendarmeria (la quale, a partire dall’agosto del 1859 sarebbe stata sostituita dal corpo dei carabinieri) del capoposto del picchetto della stessa o del commesso di pubblica vigilanza, indirizzato al Delegato di Pontedera: come evidenzia il Fiani questo atto era semplicemente enunciativo dato che “il denunziatore si limita ad annunziare, o segnalare un fatto, o una persona sospetta”[22] lasciando all’arbitrio del delegato la valutazione se procedere con ulteriori investigazioni[23] per verificare la reale sussistenza dei fatti che, è bene ricordarlo, nella quasi totalità dei casi non costituivano un illecito penale o una trasgressione di polizia punitiva.

Questi rapporti contenevano l’indicazione di alcuni testimoni (dove era possibile e cioè quasi sempre) tra i quali non compariva la persona dello scrivente a meno che non si trattasse di flagranze, casi nei quali i soli gendarmi procedevano anche all’arresto in via cautelativa del soggetto (e se erano stati consumati veri e propri delitti costoro agivano non più in qualità di agenti di polizia preventiva bensì giudiziaria) : i commessi, avendo solo competenze investigative e non anche esecutive come la gendarmeria, si dovevano limitare alla compilazione degli atti[24].

Tuttavia, i commessi di pubblica vigilanza (ve ne era uno per ogni delegazione di governo ex art. 43 regolam. pol. amm.) e la gendarmeria, in qualità di forze ausiliarie del magistrato di polizia (i primi come corpo civile e la seconda come corpo militare) erano accomunati dal compito della vigilanza, considerato “il mezzo più diretto di prevenire i delitti”[25], che, non potendo essere determinata a priori senza sminuirne la funzione stessa, si esercitava genericamente “su tutti e su tutto”[26] anche se esistevano delle categorie tradizionalmente ritenute pericolose verso le quali occorreva una speciale attenzione da parte delle forze dell’ordine:

i pregiudicati in materie delittuose; gli oziosi e i vagabondi; i forestieri privi di conosciuti mezzi di sussistenza, o per qualunque altra ragione sospetti; i domestici privi d’attuale impiego e senza risorse; i prepotenti e attaccabrighe; i fomentatori di discordie; le persone dedite al libertinaggio; i figli di famiglia prodighi e dissoluti; le osterie e le bettole; i teatri; i pubblici ridotti di giuoco; le case di scostumatezza; le grandi riunioni; le associazioni sospette; e tutti i luoghi di pubblico concorso...[27]

Confrontando all’interno dei testi normativi le competenze dei commessi e della gendarmeria, si ha la conferma che queste erano simili e, appunto, incentrate sulla vigilanza: il regolamento di polizia del 1849 stabiliva che i commessi e i loro aiuti erano destinati a:

ricercare e scuoprire i delinquenti e a sorvegliare le persone che spiegano perniciosa tendenza ai delitti, e a qualsivoglia disordine a danno della pubblica quiete, e della pubblica, e privata sicurezza.... invigilano sul movimento dei forestieri, sui pubblici alberghi... sorvegliano i teatri, i pubblici ridotti permessi, o tollerati... portano in generale la loro assidua vigilanza sopra ogni infrazione consumata o attentata alla leggi dello Stato, sulle offese pubbliche, o in altro modo scandalose, della morale, e della religione, e procurano di scuoprire gli autori di tali disordini.[28]

E il regolamento della gendarmeria del 1851 prescriveva che:

i Gendarmi vigileranno nella Campagna: sulle sicurezza delle strade... sopra i vagabondi, sulli sconosciuti di sinistre apparenze, sulli scarpatori e danneggiatori di campagna... nell’interno poi delle città e dei paesi vigileranno: sul libero transito e sulla nettezza delle strade e delle piazze: sulla questua ove ed in quanto è proibita: sopra i giuochi proibiti: sulla osservanza dei giorni festivi, bestemmia e turpiloquio... sul disturbo della quiete notturna... sulla osservanza... generalmente di tutte le disposizioni contenute nel vigente Regolamento di Polizia de’ 22 Ottobre 1849... speciale vigilanza eserciteranno i Gendarmi sopra gl’individui diffamati, sospetti e pregiudicati in qualsiasi genere di delinquenza... sarà cura dei gendarmi vigilare in ogni luogo e tempo sopra i forestieri... per rintracciare i forestieri sospetti, come pure i vagabondi e i contumaci visiteranno frequentemente le osterie, le bettole e i pubblici alberghi[29]

Pertanto, l’attività di sorveglianza era esercitata in tutti i luoghi pubblici - ed in alcuni in particolare, quelli dove era solita ritrovarsi “la parte meno educata, e più intemperante e viziosa del popolo” - ed era rafforzata in quelle occasioni come le fiere o i mercati dove maggiore era la presenza di persone e quindi più frequente il pericolo di risse o altri disordini, mentre una barriera era posta dalla legge a tutela delle dimore private che non potevano essere arbitrariamente violate dalla polizia tranne che in specialissimi casi[30].

Nel Trattato il Fiani evidenziò l’importanza e al tempo stesso l’insufficienza delle perlustrazioni notturne effettuate dalle pattuglie della gendarmeria che, specialmente nelle grandi città, erano impossibilitate a sorvegliare tutte le strade, cosicché egli propose l’istituzione di un corpo ausiliario di “vigili notturni”[31] muniti di trombe (per avvertire i gendarmi di eventuali delitti)[32] e dislocati nei vari quartieri cittadini.

Se la gendarmeria nello svolgere tutti i suoi compiti di vigilanza agiva “scopertamente” , all’opposto, i commessi operavano in segreto[33] e per questo, probabilmente, si avvalevano con maggiore frequenza rispetto ai gendarmi dell’operato dei delatori, anche se trovando all’inizio di ogni processo economico un rapporto scritto di uno dei due corpi non è facile per l’interprete capire ciò che stava a monte, il reale primum movens.

Però, diversi processi contengono delle espressioni chiarificatrici: ad esempio nel processo n° 458[34], nel quale due donne di Marti furono accusate di abitualità nel furto campestre, il rapporto della gendarmeria di Palaia si apriva così:

Al seguito delle ripetute lagnanze avanzate a questa Gendarmeria...[35]

Sembra corretto, allora, catalogare il procedimento tra quelli causati dalla “pubblica voce”[36] così come altri ad esso simili dove è possibile leggere frasi di questo tenore:

Molti sono i lamenti che si sono elevati nel popolo di Marti...[37]

Talvolta il topos delle “ripetute lagnanze”, il quale necessariamente si legava ad un’abitualità di comportamento, forse per dare una maggiore credibilità, era rafforzato dall’espressione “avanzate da probe ed oneste persone”[38].

Altre volte poi, la ‘fonte’ rimane abbastanza oscura in quanto le autorità si limitavano a dei generici “è venuto a cognizione del sottoscritto”[39], “corre voce”[40], “si dice”[41], “consta allo scrivente”[42], mentre in altri processi ancora, sembra che l’iniziativa partisse dalla gendarmeria stessa; questo accadeva sicuramente nei casi di flagranza, nei quali il rapporto al delegato interveniva ex post a formalizzare e giustificare la misura d’urgenza dell’arresto.

Difatti si hanno diversi casi nei quali la gendarmeria aveva proceduto ad arrestare ubriachi molesti nei quali si era imbattuta (in locali pubblici o per le strade)[43] oppure soggetti accusati di “condotta girovaga e sospetta” in quanto non dimoranti nel territorio della delegazione e ivi trovati senza mezzi di sussistenza[44].

Altre ipotesi di uso dello stesso procedimento si riscontrano in quei processi causati dall’avere i gendarmi sorpreso degli individui in possesso di prodotti campestri di cui non sapevano giustificare in maniera convincente la provenienza[45].

Ma questa “iniziativa di ufficio” poteva sussistere anche in ipotesi di abitualità: in un rapporto della gendarmeria di Pontedera del 14 gennaio 1859 colui che scriveva:

si sente in dovere di informare V. S. Illma della condotta scostumata e libertina cui va dedicandosi la nota donna Fortunata Marinai la quale... si prostituisce pubblicamente nella propria abitazione[46]

L’ordine di “attivare le investigazioni” poteva poi provenire direttamente dal delegato che, per informarsi sul conto di certe persone sospette, prudentemente preferiva usufruire delle segrete indagini del commesso di vigilanza[47].

Però, niente vieta di presupporre che anche dietro questi ultimi processi ci fosse la denunzia di un qualche delatore, dato che le ‘confidenze’ di questi uomini così vicini al pubblico potere non erano certo conservate per scritto, potendo allora lo studioso moderno fare solo delle ipotesi su questa pratica allora considerata un “male necessario”[48] per combattere “la malvagità degli uomini”[49].

Probabilmente accanto ad una schiera di delatori ‘professionali’, alle dipendenze delle autorità di polizia e verso i quali era riposta la massima credibilità, esisteva un sistema ‘semiufficiale’ attraverso il quale ogni privato cittadino poteva riferire alle autorità i propri sospetti sulla condotta di chiunque altro; e ciò non doveva apparire molto strano, anzi rientrava nella normalità dei rapporti civili come riflesso della mentalità comune.

E quindi, il gigantesco schema di controlli incrociati che così si doveva essere stabilito non era altro che il risultato ultimo di quella occhiuta politica del sospetto inaugurata da Pietro Leopoldo - persona eccessivamente zelante quasi fino alla paranoia riguardo questi temi[50] - tramite l’esigere continui rapporti informativi dai funzionari di polizia sul conto dei propri colleghi di modo che non solo i superiori controllavano i loro sottoposti ma avveniva anche il contrario.

È noto, poi, che sotto il regno di Ferdinando III le autorità di polizia per potere essere puntualmente informate sull’esistenza e sull’attività delle varie sette di cospiratori usufruirono dell’operato degli “amici segreti” (così erano chiamati i delatori)[51].

Fortunatamente il Fiani dedicò alcune (preziose) pagine all’argomento, di cui intimamente avvertiva la necessità e la ineliminabilità, ma allo stesso tempo, preso da scrupoli di ordine morale, pareva quasi scusarsi dell’esposizione di un tema così “tristo”[52] e della sua sopravvivenza nella realtà.

Dapprima egli affermò che bisognava saper distinguere i ‘veri’ delatori, prezzolati agenti del pubblico potere, dalle persone oneste le quali “senza l’idea d’una ricompensa si fanno rivelatori di progetti criminosi”[53].

Successivamente egli suddivise i delatori in tre specie diverse:

1°. Quelli, attaccati dirò così alla Polizia, che hanno colla medesima rapporti continui;

2°. Quelli che prestan servigii temporarii in certe determinate occasioni;

3°. Quelli finalmente, che una qualche circostanza spinge alla rivelazione, e che sono da riguardarsi come istrumenti accidentali, che spariscono prestato il servigio[54]

Mentre gli appartenenti alla prima categoria erano i ‘professionisti’, veri e propri ausiliari di Polizia che per la conoscenza dei modi e delle abitudini dei malviventi si rivelavano utilissimi, i secondi, dalla descrizione fornita dal Fiani sembravano essere figure di confine tra gli agenti e i malavitosi; i terzi, infine, non appartenevano affatto alla polizia ma erano delinquenti che svelavano il nome ed i piani dei complici “o per speculare sull’allettamento d’una retribuzione per il servigio prestato, o per sottrarsi ad una pericolosa posizione, e tentare di trarre nello stesso tempo un vantaggio dalla conoscenza dei fatti ai quali hanno preso parte”[55].

Nei documenti d’archivio oggetto della ricerca il termine delatore compare (comprensibilmente) poche volte: una prima, in relazione ad un processo economico dell’ottobre 1859 riguardante un uomo di Cascina, Ernesto Stefanini, sospettato di capeggiare un “complotto”[56] filolorenese; il commesso di vigilanza incaricato dell’indagine ritenne opportuno allegare al rapporto informativo “alcune carte” che gli erano “fiduciariamente capitate per le mani”.

Si trattava di due atti classificati come “reclami” ed avanzati contro lo Stefanini negli anni precedenti.

Nel primo veniva dichiarato che lo Stefanini, “nefando pei suoi brutalissimi principj religiosi e politici, persecutore dei Preti e dei Frati, libertino, vagabondo, promotore delle discordie fra marito e moglie”, attraverso l’opera calunniosa di alcuni delatori era solito provocare provvedimenti ingiusti da parte della Prefettura di Pisa e della Delegazione di Pontedera nei confronti di onesti cittadini.

Per convincere il delegato della veridicità di tali asserzioni era ricordato il basso profilo morale dell’uomo: egli, “bestemmiatore ereticale”, osò persino comunicare un cane in chiesa proferendo le parole dell’eucarestia; era solito frequentare le prostitute e le mogli altrui, nonché offendere le autorità e i regnanti con parole “che rifugge la penna a trascrivere” e che causavano grande scandalo tra gli abitanti di Cascina.

Nel secondo reclamo l’estensore si lamentava del fatto che mentre “il paese di Cascina per le mene di pochi tristi trovasi martoriato con pene preventive dalla Delegazione di Governo di Pontedera, mentre le vittime della calunnia e del livore soffrono la immeritata sventura”, i responsabili erano in libertà e continuavano a sfogare “le loro private animosità col fare da delatori e testimoni a vicenda”.

Tra questi, Ernesto Stefanini, “il suddito più ribelle allo stato e al Principe”, il “rovinatore di famiglie”, il “seminatore di discordie” che, tuttavia, godeva della “stima e fiducia della Delegazione di Governo di Pontedera”; erano, anche qui, enunciati vari episodi di empietà che avevano visto l’uomo protagonista.

È interessante notare la forte insofferenza (per usare un eufemismo) della gente comune verso coloro i quali avevano l’abitudine di compiere delazioni, personaggi non a caso ritenuti capaci (a torto o a ragione?) di compiere delle azioni che erano considerate le più deprecabili nella bigotta campagna pisana del secolo scorso, quelle contro il comune sentimento etico e religioso.

I timori reverenziali del Fiani erano più che giustificati...

In un altro processo, nel rapporto della vigilanza si legge che la formalizzazione dell’accusa di “condotta irregolare e sospetta in furti campestri”[57] a carico di tre giovani pontederesi fu possibile grazie all’operato di “persone fiduciarie”[58] ed in una sola altra occasione, nei numerosi documenti presi in analisi, fu menzionato un “fiduciario delatore”[59].

Il caso dello Stefanini mostra anche l’esistenza di un’ulteriore possibilità, sovente sfruttata, di avviare un processo economico tramite degli atti scritti provenienti da un privato cittadino che, ricorrendo ad una lunga serie di sinonimi, erano denominati appunto “reclami”[60] o “memorie”[61] oppure “esposti”[62] o ancora, “doglianze”[63], “querele”[64], “denunzie”[65], ma più spesso “istanze”[66] o “istanze di richiamo”[67] o, infine, “istanze ed esposizioni”[68].

Dunque, si deve pensare ad una fattispecie che in piccola parte ricalcava i tratti del processo accusatorio, dato che i soggetti operavano scopertamente formalizzando il proprio atto di accusa e agendo per la tutela dei propri diritti soggettivi - proprio in questo particolare caso, secondo il Fiani, le accuse assumevano il nome di “reclami” - o di interessi diffusi - mentre le denunzie contenute nei rapporti delle autorità di polizia erano sempre a tutela di un pubblico interesse - come nel caso di esempio o come in un’altra situazione verificatasi sempre a Cascina nel giugno del 1859[69] quando un uomo indirizzò un esposto al Delegato di Pontedera per lamentarsi del comportamento di una ragazza, “il disonore del paese di Cascina”, che solitamente si prostituiva complice la più totale indifferenza della gendarmeria locale.

Ma, eccetto questo diverso modo di introdurre il processo, tutto il resto rimaneva inalterato, strutturandosi sulla falsariga del processo inquisitorio.

Infine, per dare inizio alle indagini poteva essere sufficiente persino una semplice e vigliacca lettera anonima: sebbene “per regola la denunzia anonima non merita fede... sarebbe contrario alla prudenza politica il trascurare affatto simiglianti denunzie” e perciò nella documentazione d’archivio sono rintracciabili alcuni di questi processi dei quali è stato conservata anche la poco edificante causa[70].

III.2. I testimoni e la difesa.

Le uniche prove ammesse nei processi economici erano quelle testimoniali, così ogni qual volta gli ausiliari del delegato di governo (la gendarmeria e la commissione di pubblica vigilanza) redigevano un rapporto informativo si preoccupavano di nominare nel medesimo un buon numero di “fidefacenti”.

Questa operazione rappresentava una condizione essenziale per la punizione in via economica dei soggetti tant’è vero che, se in un rapporto qualcuno era sospettato di un certo comportamento rientrante tra quelli da reprimere “sommariamente” ma mancavano completamente dei testimoni, il delegato ordinava di procedere con ulteriori indagini fino a che non si fosse trovato qualcuno pronto a deporre[71].

Allora, dato che la misura veniva a dipendere quasi totalmente dalle deposizioni dei testimoni, si usava ascoltarne, ove possibile, un buon numero (nella maggior parte dei processi analizzati erano per lo meno quattro) dopo averli intimati a comparire in giudizio tramite il cursore addetto alla delegazione o l’aiuto commesso di vigilanza che svolgevano questo compito recandosi ai rispettivi domicili dei testimoni.

Di seguito questi funzionari minori redigevano un referto[72] nel quale davano conto della avvenuta o mancata citazione oppure informavano il magistrato di polizia che il testimone non si sarebbe potuto presentare (molto spesso per malanni fisici) e in quest’ultimo caso il delegato poteva anche non essere pienamente convinto e credendo invece di trovarsi di fronte a delle scuse inviava (sempre per mezzo dei cursori o degli aiuti commessi) al presunto inabilitato un atto dove era scritto:

si fa precetto a... perché... comparisca personalmente avanti al sottoscritto alla pena mancando di £ 5[73]

Per arrivare ad una condanna in via economica, d’altronde, erano sufficienti poche dichiarazioni, anche basate su dei semplici sospetti perché in genere veniva punita un’abitualità di comportamento; non doveva rappresentare un’impresa impossibile trovare qualcuno (talvolta nemmeno troppo disinteressato) disposto a rendere dichiarazioni sfavorevoli all’imputato.

A volte, però, accadeva che veniva istruito un processo e i testimoni non erano in grado di dichiarare nemmeno quel minimo bastevole per la punizione di polizia: tre uomini di Ponsacco, accusati di “condotta sospetta in furti”[74] non poterono essere condannati in via economica ma furono semplicemente assoggettati a “serio monito” con la minaccia di più severe misure poiché “non abbia nessun fidefacente deposto di averli veduti in atteggiamento sospetto ne (sic) a girovagare di notte”.

È da chiedersi se in casi come questi esisteva un vero e proprio muro di omertà dettato dalla paura di ritorsioni o se piuttosto l’insuccesso dipendeva dalla incapacità dei gendarmi e del commesso a trovare dei testimoni attendibili, ma la risposta non potrà comunque essere sicura.

Anche nei già citati casi di flagranza, sebbene il rapporto dell’autorità potesse astrattamente rappresentare una prova sufficiente, si preferiva fare deporre i gendarmi che si limitavano a ribadire quanto affermato precedentemente in esso e qualora non vi fossero stati altri testimoni (come nei casi di arresto di ubriachi che molestavano gli avventori dei locali[75]) erano sentite comunque delle persone in grado di rendere delle dichiarazioni non tanto sul fatto specifico, quanto piuttosto sulla relativa abitualità di quel comportamento[76].

Negli atti d’archivio tutte le testimonianze iniziano con la data e la frase di rito “al seguito dell’unito rapporto... (della gendarmeria o della pubblica vigilanza) è stato fatto citare e compare personalmente avanti...”, poi, dopo che il soggetto aveva fornito le proprie generalità, veniva fatto giurare e gli veniva chiesto (ma sono conservate solo le risposte) se conosceva l’imputato e se aveva “interessi di sorta” con lui (ed ovviamente si presumeva una risposta negativa).

Seguiva la deposizione vera e propria; dopo, “previa lettura” della stessa, il testimone firmava (se ne era capace) e veniva “licenziato”[77].

I testimoni erano interrogati singolarmente e il loro nome rimaneva segreto per l’imputato, il quale era sentito posteriormente alle dichiarazioni dei primi; in tale modo era gravemente menomato il suo diritto di difesa “posto nell’impossibilità di eccezionare, o discreditare le deposizioni dei testimoni a lui contrarii”[78].

In più esisteva il pericolo che i testimoni, non trovandosi in un regolare processo e non potendo essere accusati di falsa testimonianza, deponessero il falso e così, per di più protetti dallo schermo della segretezza ( che però in vicende ‘clamorose’ avvenute in piccoli paesi di campagna era più apparente che reale), finivano per “sacrificare l’innocenza ad una privata vendetta”[79].

Il Fiani riteneva che questo sistema, pur con le accennate pecche, fosse il migliore possibile, soprattutto se il magistrato di polizia con la propria prudente azione vi avesse supplito ammettendo le sole testimonianze di persone “specchiate per onestà e probità”[80] e rigettando “le deposizioni di quei Protei e Camaleonti... che si danno per presenti a tutti i fatti, che vantano di tutto sapere, di tutto conoscere, che novelli taumaturgi, nel medesimo giorno e nell’ora stessa hanno l’abilità di trovarsi in luoghi diversi, e che spesso altro non sono in sostanza che gli stessi delatori”[81].

Un’altra decisa presa di posizione contro i delatori, dunque; ma sarebbe occorso ben altro che il suggerire questi generici rimedi di stampo moraleggiante per estirpare la perniciosa abitudine della delazione ‘professionale’.

Inoltre egli, forte della propria esperienza[82], credeva che se il nome dei testimoni del processo economico fosse stato conosciuto dall’imputato, raramente si sarebbe trovato chi “di buona voglia si adattasse a render testimonianza, o interrogato, volesse sinceramente deporre la verità, quando questa fosse per riuscire dannosa all’ imputato”[83], mentre niente di simile avveniva nei processi penali ordinari dove i testimoni non si preoccupavano affatto di dire la verità, quantunque dannosa per l’imputato.

I motivi di questa diversità, secondo l’autore, consistevano in ciò: mentre nei processi ordinari il testimone “è chiamato a deporre d’un fatto realmente avvenuto.... d’un fatto che ogni uomo onesto deve voler punito”[84], nel processo economico egli:

é chiamato non già a deporre sopra un fatto determinato ma sulla generalità d’un oggetto, e ad esternare il proprio giudizio intorno al medesimo. E se un fatto speciale è il soggetto della sua testimonianza, non riveste questo gli odiosi caratteri, per i quali il vero delitto è colpito dalla riprovazione universale. Più di sovente però nel processo economico il testimone è richiamato a dileguare col suo detto, o confermare un concepito sospetto; e a dare informazioni secondo la sua coscienza sulla condotta d’un individuo. La prova quindi che si intende di raccogliere da tal testimone, non è desunta da materiali di fatto, ma piuttosto dal modo particolare di pensare, e di sentire del testimone stesso circa l’oggetto cui si riferisce la sua deposizione, a render la quale più o meno favorevole, più o meno contraria all’imputato grandemente perciò influiscono le simpatie, le opinioni, le tendenze e le disposizioni d’animo del testimone medesimo.

Da ciò avviene che dove i resultati della prova abbian consigliato una severa misura a carico dell’imputato, sa il testimone che alla trista di lui sorte hanno grandemente influito le informazioni che... egli ha date... e che perciò potrebbe incorrere nel risentimento di lui.[85]

In questa spiegazione, quindi, il Fiani accostava considerazioni di carattere morale, quella ‘alta’ dei grandi dottori del diritto, a quell’ ‘etica dell’utile’ a cui certamente era più sensibile la gente comune data la sua forte presenza nella vita quotidiana: un bracciante della campagne pontederesi era sicuramente più spaventato dall’idea di subire delle ritorsioni (molto frequenti tra gente di bassa cultura e poco rispettosa dell’ordine stabilito) da un proprio paesano che attirato da quella “riprovazione universale” che a gran voce ed in ogni tempo richiede la punizione dei delitti.

Per ciò che riguarda la difesa dell’imputato, il regolamento del 1849 si limitava a riportare più volte l’espressione “verificazione sommaria”[86] e a sottolineare la necessità della contestazione nei confronti del reo delle proprie mancanze e, in definitiva, l’esercizio del diritto di difesa, gravemente menomato dalle modalità di assunzione delle testimonianze, si riduceva solamente “alle semplici verbali discolpe”[87] fornite dall’imputato in risposta alle suddette contestazioni.

L’imputato era ascoltato anch’egli singolarmente e dopo un periodo di tempo successivo all’audizione dei testimoni che poteva variare da pochi giorni a qualche settimana e dipendeva dal numero di testimoni da ascoltare e dal contenuto delle loro deposizioni: se non vi erano elementi tali da giustificare l’emanazione di una misura, l’imputato non veniva nemmeno interrogato e, addirittura, se per la natura dell’imputazione egli non era stato nel frattempo sottoposto alla custodia preventiva, avrebbe anche in seguito ignorato che erano state “a di lui carico intraprese verificazioni economiche”[88] e, a maggior ragione, in questi casi, non sarebbe mai venuto a conoscenza dell’imputazione.

Questa, normalmente gli era palesata per la prima volta, data la natura segretamente inquisitoria del procedimento, proprio al momento della sua audizione, dopo che egli aveva declinato le proprie generalità e ricordato i propri eventuali precedenti “economici” ed “ordinari”[89] (se cioè era mai stato condannato all’osservanza di qualche precetto di polizia o era incappato nelle maglie della giustizia penale ordinaria); solo allora si sentiva rivolgere l’accusa e successivamente gli era data facoltà di discolparsi, cosa che avveniva fornendo personali versioni dei fatti o delle proprie abitudini: e, in sostanza, ciò rappresentava il momento centrale della difesa, la massima opportunità concessa all’accusato in un processo economico.

In seguito, l’autorità ribadiva l’accusa, faceva presente all’incolpato che la fondatezza di essa risultava dalle affermazioni dei testimoni e che per questo egli sarebbe stato con molta probabilità sottoposto “ad una qualche misura di polizia”[90] e ascoltava le sue successive dichiarazioni di replica cui aveva diritto.

Però, le asserzioni finali degli imputati ormai erano inutili, non avrebbero potuto influire sulla decisione del delegato e di ciò essi erano ben consapevoli così come si rendevano perfettamente conto che la loro speranza di impunità in quei processi dipendeva da eventuali benevole deposizioni dei testimoni, i quali, comunque, avevano già svolto il loro compito quando venivano ascoltati gli imputati.

Indi, costoro tentavano blandamente qualche difesa, ma quando gli veniva comunicata una probabile futura soggezione ad una qualche misura di polizia, rispondendo al delegato non potevano fare altro che rassegnarsi o negare disperatamente, magari affermando di essere vittime di ingiustizie dovute per lo più ad errori o a calunnie dei testimoni, proprio ciò che secondo il Fiani doveva essere evitato per non fare scadere questo tipo di processo in uno strumento di vendetta personale: “cosa le devo dire?”[91], “cosa vuole che le dica?”[92], “pazienza”[93], erano le risposte più frequenti che rivelavano la sensazione di impotenza degli imputati.

Ma, come detto, c’era anche chi con sdegno rigettava gli addebiti, opera peraltro vana, negando puramente e semplicemente (“non è vero nulla”[94]) oppure ascrivendo la responsabilità dell’emanazione della misura alla malafede dei testimoni (“tanto hanno giurato il falso”[95]) o a un loro errore[96].

Altri denunciavano di essere vittime di una non bene definita ingiustizia[97], o rimanevano increduli[98], mentre qualcuno candidamente ammetteva la propria colpa[99].

Qualche volta, poi, avveniva che dietro loro specifica richiesta avanzata al momento della contestazione, fosse permesso agli accusati di nominare dei “testimoni defensionali”[100] e che, quindi, il diritto di difesa fosse leggermente più articolato.

Così dopo avere ascoltato anche costoro, il delegato faceva richiamare l’accusato e non era infrequente che gli comunicasse di essere rimasto del parere di prendere una qualche misura: un giovane di Zambra, essendo venuto a conoscenza che contro di lui “fu avanzato un rapporto a cotesta Delegazione”[101], decise addirittura di anticipare i tempi avanzando un’istanza alla delegazione medesima nella quale affermava che “essendo cotesto rapporto informato malignamente, si rende necessario di contrapporli una prova per mezzo di testimonj ineccezionabili”[102].

Ma nemmeno questa preventiva difesa ebbe esito felice ed il giovane fu sottoposto a dei precetti di polizia.

In questi casi, quando qualcuno sapeva di indagini in corso sul proprio conto, poteva difendersi nell’unica maniera possibile per i processi economici (che avevano carattere inquisitorio): tramite un atto scritto in cui richiedeva di procedere all’ascolto di alcuni testimoni a favore[103].

Altre volte, nei casi in cui gli imputati erano dei giovani, i genitori indirizzavano delle istanze al delegato nelle quali lo esortavano ad ascoltare dei testimoni che avrebbero potuto scagionare i loro figli; questi atti potevano sommarsi ad altri analoghi in cui, al contrario, altre persone chiedevano la punizione degli accusati e a loro volta nominavano testimoni.

In simili casi si arrivava ad una sorta di contraddittorio scritto[104].

Altre volte ancora[105] era il parroco del paese che tramite un atto scritto intercedeva presso il delegato in favore degli accusati ricordando la loro onestà e rettitudine ovvero auspicando una punizione mite e che comunque non fosse di pregiudizio alle loro capacità lavorative dato che spesso erano accusati uomini “di condizione miserabilissima”[106] e che rappresentavano l’unica fonte di sostentamento delle loro numerose famiglie[107].

Il Fiani, per rendere più equo questo procedimento, consentendo un migliore esercizio del diritto di difesa, propose di assegnare all’imputato un margine di tempo dopo la contestazione del fatto, durante il quale egli avrebbe potuto difendersi nella maniera da lui ritenuta più efficace, anche attraverso memorie scritte, compilate “da lui stesso, o da speciale suo Procuratore o Difensore legale” che avrebbe potuto prendere visione delle carte del processo (pur rimanendo ancora segreti i nomi dei testimoni)[108].

Al contrario, lasciando le cose come stavano il ruolo del difensore era del tutto inutile:

su quali dati potrà questi basare la sua difesa, quando non gli è concesso di esaminare il processo?[109]

Da un ricorso presentato al consiglio di prefettura di Pisa si desume l’avversità dei contemporanei per il processo economico: a seguito di una lunga vicenda il difensore[110] di alcuni pastori lamentava oltre a motivi sostanziali, dei vizi di forma ed il principale era costituito dal fatto che i propri assistiti non avrebbero dovuto essere condannati “in via economica odiosa sempre perché arbitraria, senza difesa e contraria al voto sociale”[111] e per quel particolare caso suggerivano un processo civile “previa la contestazione dell’accusa di danno dato”[112].

Infine, notava che la genericità dell’accusa non permetteva una difesa adeguata; infatti “anche nei processi economici le Leggi Toscane comandano che l’imputati abbiano il diritto della difesa che si contestino ad essi i fatti speciali ed i giudizi proferiscano giusti”[113].

La prefettura, però, oltre a rigettare il ricorso nel merito, si comportò analogamente per le difese di rito, affermando con decisione, così come aveva fatto il Fiani, la necessità della così detta “polizia di fatto” e la di lei arbitrarietà:

... né può dirsi che il procedimento del potere governativo sia contrario al voto sociale imperocché in qualunque bene ordinato governo, il potere stesso è indispensabile per prevenire e punire i capi non contemplati dalla legge, o che possono sfuggire per pruova non contemplata, al potere ordinario.[114]

Infine, la prefettura ritenne sufficientemente precisa l’accusa e concluse il proprio decreto affermando che “i ricorrenti hanno tentato di ingannare il loro difensore e nulla più”[115].

III.3. Il decreto economico e i ricorsi.

Innanzi tutto è bene fare una precisazione: fino ad adesso, per semplicità espositiva ed in ossequio alla lettera del regolamento di polizia del 1849, è stata decisamente affermata la distinzione fra polizia preventiva e polizia punitrice e si è detto, seguendo l’art. 1 di tale regolamento, che le loro rispettive competenze erano caratterizzate (si perdoni le annominazioni) dalla prevenzione e dalla punizione delle trasgressioni.

Addentrandosi nell’analisi della polizia preventiva, questo pur valido assunto di base dovrà essere valutato con gli opportuni temperamenti dato che, come si vedrà, un’idea così rigida e così ‘pura’ dei compiti di polizia non scaturisce neppure dallo stesso regolamento del 1849.

I delegati di governo in qualità di magistrati inferiori di polizia - incarico che rivestivano unitamente ai sotto prefetti, mentre i prefetti, avendo nel proprio compartimento la suprema direzione di polizia si configuravano come magistrati superiori - potevano emanare una serie di misure di prevenzione, rappresentanti il fulcro della loro attività, “i mezzi ordinari”[116]: le ammonizioni ed i precetti[117].

Le ammonizioni (chiamate dal Fiani nell’Opuscolo sulla riforma della polizia in Toscana, anche “ingiunzioni economiche”[118]) costituivano le misure minime che potevano essere prese dalle autorità di polizia e servivano a rimproverare “per la prima volta”[119] una “men che lodevole condotta”[120] senza menomare la libertà di quei soggetti che vi incappavano; il delegato (come gli altri suoi colleghi) somministrava le ammonizioni verbalmente “senza bisogno di atti formali”[121] e talvolta le muniva “della minaccia parimente verbale di un formale precetto”[122].

Ben si adattava, allora, la definizione di “amorevole paterna reprimenda”[123] escogitata dal Fiani per questo mezzo di prevenzione.

In una ipotetica scala di gravità delle sanzioni, alle ammonizioni facevano immediatamente seguito i precetti i quali erano suddivisi in positivi (aventi come contenuto un obbligo di fare[124]) e negativi (caratterizzati dall’obbligo di non fare[125]) e in naturali e politici: i precetti cosiddetti naturali vietavano o comandavano “una cosa a norma delle leggi di natura”[126] come poteva succedere nel caso del precetto di vivere onestamente che era dato alle donne dai costumi libertini, o nell’altro caso ancora del precetto di comportarsi pacificamente spesso emanato nei confronti dei giovani dediti alle risse.

Tali precetti, chiamati anche “ingiunzioni con comminatoria”[127] dal Fiani nel Trattato con una terminologia affine a quella usata nella precedente sua opera per le ammonizioni, poiché non facevano altro che ribadire dei doveri connaturati in ogni uomo dalla retta moralità, dovevano irrogarsi a tempo indeterminato.

I precetti politici, invece, imponevano di “fare ciò che potrebbe essere omesso senza contravvenire ad alcuna legge naturale, morale e civile”[128] oppure vietavano “di fare una cosa lecita di sua natura”[129].

Così la naturale libertà dei cittadini veniva ad avere un nuovo limite di diritto positivo, cosa di per sé stessa biasimevole, ma necessaria per la prevenzione di “un male maggiore”[130].

I precetti politici previsti dal regolamento di polizia del 1849 erano elencati nel lungo art. 12, ricompreso nel titolo III portante la significativa denominazione “dell’azione preventiva e dei mezzi relativi”, ed erano i seguenti:

1. Di rassegnarsi in certi determinati giorni ed ore all’Autorità;

2. Di far noto all’Autorità il luogo della respettiva dimora;

3. Di non allontanarsi clandestinamente dal tetto paterno, o coniugale, facendone richiesta il padre o la madre tutrice, o il tutore o il marito;

4. Di non portare armi di qualunque specie...

5. Di non intervenire ai teatri, ai ridotti di giuoco, alle bettole, alle osterie;

6. Di ritirarsi in casa ad un’ora determinata della sera, e di non uscirne fino ad un’ora determinata della mattina;

7. Di non intervenire in certi luoghi di concorso in occasione di fiere, mercato, feste e pubblici spettacoli;

8. Di non conversare con certe determinate persone;

9. Di non recarsi in un dato luogo o di non allontanarsi da un dato luogo oltre una certa distanza senza permesso dell’Autorità;

10. Di non introdursi nei fondi altrui senza licenza del possessore, o di chi lo rappresenta;

11. Di sfratto dal Gran-Ducato ai Forestieri mendicanti e vagabondi, ed a quelli che per difetto di legali documenti non hanno da giustificare l’esser loro;

12. Di sfratto dal Gran-Ducato ai Forestieri, che sono stati riconosciuti, o che resultano fondatamente sospetti di una condotta, o di qualità morali o politiche, capaci di porre in pericolo la sicurezza interna ed esterna dello Stato o di turbare l’ordine pubblico, o la pubblica o privata tranquillità.

Il Fiani avvertiva che simili precetti, per la loro natura “politica” avrebbero dovuto essere emanati “per uno spazio di tempo certo e determinato”[131] e molto opportunamente gli estensori del regolamento del 1849, secondo questo suggerimento[132], all’art. 10 disposero che essi non avrebbero dovuto oltrepassare la durata di un anno salvo i casi dei numeri 11 e 12 dell’art. 12.

Poi, precisarono nell’art. 11 che i precetti:

non possono prorogarsi, né rinnuovarsi se nel tempo della loro durata non sono stati trasgrediti e se non sono sopravvenuti fatti imputabili al precettato, pei quali il nuovo precetto debba essere imposto indipendentemente dal primo.

L’art. 19, invece, si occupava della forma dei precetti che era quella del decreto motivato “da notificarsi dal Cursore... nei modi e forme prescritte dalla Legge per la notificazione delle sentenze dei Tribunali Criminali”; avvenuta la notificazione il cursore doveva renderne atto al delegato tramite un rapporto.

Quelli che sono stati catalogati come precetti naturali non erano espressamente menzionati ma l’art. 13, in qualità di elastica norma di chiusura, riguardava generici “provvedimenti”[133] che le autorità di polizia potevano prendere qualora fossero stati richiesti “dal bisogno di mantenere la salute, la sicurezza, la tranquillità, la morale, e decenza pubblica”[134] e più esplicitamente la legge del 16 novembre 1852, all’art. 12 autorizzò i delegati di governo a emanare “indipendentemente dai precetti enumerati nell’Art. 12 del Regolamento di Polizia... tutte quelle ingiunzioni che la prudenza potrà consigliare nello scopo di mantenere il buon ordine, e di assicurare l’esecuzione delle leggi”[135] .

L’arresto, il “sequestro in Pretorio”[136], l’ “arresto in casa”[137] e l’allontanamento provvisorio da un dato luogo erano le ultime misure di prevenzione previste dall’art. 13 del regolamento di polizia: definite “straordinarie” e “di urgenza” dal seguente art. 16, terminologia dovuta al fatto che le prime tre escludevano del tutto la libertà personale degli individui assoggettati, avevano anch’esse dei limiti temporali che furono successivamente aggravati da una legge del 1851[138] e potevano essere “adottate senza formalità di atti”[139], ma semplicemente basate su “fatti che l’Autorità riconosca sussistenti”[140].

Tutti i precedenti istituti appartenevano alle misure di prevenzione e rappresentavano il momento distintivo dell’attività di polizia, il cardine sul quale ruotavano le altre attribuzioni che avevano però un carattere meno peculiare in modo da configurarsi al confine col diritto penale.

Conscio di questa realtà, il Fiani dichiarò che se la polizia raggiungeva direttamente il proprio fine, cioè la prevenzione dei delitti, con la vigilanza

e le altre misure rammentate, tuttavia la sua attività non si esauriva in ciò ed era necessario un secondo modo indiretto di arrivare a questo risultato: “la correzione del cittadino” [141] che non poteva essere raggiunta se non attraverso l’irrogazione della pena[142].

Dunque vacillava quella concezione della polizia preventiva posta in essere dal regolamento del 1849 che, peraltro, accoglieva al proprio interno delle disposizioni facenti espressamente menzione di pene che potevano essere irrogate dalle autorità di polizia nel caso di trasgressioni ai precetti: gli articoli 23-27 racchiusi nel titolo V (“delle pene per le contravvenzioni ai precetti”) prevedevano l’arresto e il carcere fino ad un massimo di due mesi - pena che poteva essere irrogata solo dai consigli di prefettura, mentre la competenza dei delegati di governo comprendeva le pene fino ad un massimo di otto giorni - per le trasgressione ai vari precetti, che una volta infranti erano rinnovati per tutta la loro originaria durata.

Gli articoli seguenti descrivevano la procedura da seguirsi che era, ovviamente, quella del processo economico.

Scorrendo brevemente i casi nei quali la Prefettura di Pisa era chiamata a giudicare dell’inosservanza di precetto si nota che quello maggiormente infranto - anche perché era quello che veniva emanato dal delegato di Pontedera con maggiore frequenza - era l’annuale precetto di non introdursi nei fondi altrui previsto al n° 10 dell’art. 12 del regolamento di polizia.

I molteplici trasgressori a questo precetto erano ordinariamente puniti con la misura minima, cioè con otto giorni di carcere ai quali si aggiungevano il pagamento delle spese processuali e la rinnovazione del precetto per tutta la durata originaria[143].

Nei casi di recidiva poi, (secondo l’art. 25 del regolamento di polizia) la pena era raddoppiata e così il trasgressore doveva scontare 16 giorni di carcere[144] che potevano divenire molti di più in caso di reiterazione[145].

Successivamente, avendo l’esperienza dimostrato che “la Polizia preventiva spogliata di qualunque facoltà coercitiva era insufficiente ai bisogni del mantenimento dell’ ordine”[146], il legislatore toscano volle rivedere le proprie scelte ed ampliò quella piccola appendice penale riservata alla polizia preventiva dal regolamento del 1849 dapprima timidamente, con la legge del 25 aprile 1851 che concesse ai consigli di prefettura la facoltà di decretare la dimora coatta e la reclusione in una fortezza contro “chiunque resulti ad essi essersi reso partecipe di trame dirette a turbare l’ordine pubblico, o ad attentare alla sicurezza, od alla libera azione del Governo, o a rovesciare od alterare la religione dello Stato”[147], poi in maniera più decisa con la fondamentale legge 16 novembre 1852, la quale venne a rivoluzionare il sistema elaborato tre anni prima.

Se il primo provvedimento poteva apparire dettato da necessità contingenti di ordine pubblico (questo sarebbe confermato dalla scelta dei comportamenti da assoggettare a pena di polizia) il secondo, nonostante le assicurazioni in esso contenute[148] e i tranquillizzanti commenti del Fiani[149], pareva piuttosto orientarsi verso una scelta a tutto campo: quella di restituire a tutti i magistrati di polizia una (relativamente) ampia “giurisdizione punitiva e coercitiva” già da loro posseduta prima del regolamento del 1849.

Decisione definitiva dato che i comportamenti da punire non rientravano in una precisa tipologia (come nel caso precedente) ma soprattutto perché le competenze così stabilite rimasero tali fino allo spirare della autonomia toscana.

In base all’art. 1 della legge 16 novembre 1852 i delegati di governo potevano decretare “nelle competenze della Polizia amministrativa”[150] la pena del carcere fino ad un massimo di otto giorni “anche fuori del caso di trasgressione ai precetti di Polizia”[151] previsti dal regolamento del 1849, mentre i sotto prefetti ed i prefetti erano abilitati ad applicare la stessa pena fino rispettivamente ad un mese e a tre mesi. (Artt. 2 e 3).

I consigli di prefettura (formati dal prefetto e da due consiglieri), infine, avrebbero potuto decretare la mutazione coatta del domicilio, la detenzione nella casa correzionale e la reclusione in una fortezza fino a tre anni.

Tutti i provvedimenti dovevano essere presi dalle autorità di polizia tramite decreto motivato mentre la compilazione degli atti dei processi economici (che venne così definitivamente confermato nella sua duplice veste di mezzo apportatore di misure di prevenzione e di pene vere e proprie) spettava ai soli delegati di governo[152].

Alcune norme del regolamento del 1849[153], ribadite ed ampliate dalla legge del 1852[154], garantivano ai condannati in via economica un molteplice grado di giurisdizione, sia nel caso in cui il provvedimento avesse avuto ad oggetto misure di prevenzione, sia che fossero state irrogate sanzioni penali.

Cosicché, dopo l’emanazione di questi due importanti atti normativi si aveva questa situazione: contro i decreti dei delegati di governo era consentito ricorrere ai consigli di prefettura entro tre giorni dalla notificazione ed i ricorsi non avevano effetto sospensivo delle misura di prevenzione, ma, qualora fossero state emanate delle pene, servivano a paralizzarne temporaneamente l’efficacia; contro le risoluzioni dei sotto prefetti era previsto il ricorso ai prefetti i cui atti decisionali, insieme a quelli del consiglio di prefettura potevano essere impugnati presso il ministero dell’interno.

Riguardo questo sistema il Fiani pareva scettico, paventando il pericolo di un’autorità suprema ‘ammazza sentenze’:

Per tal modo un solo può disfare quello che tre hanno fatto. Vero è che nel Magistrato di rango superiore sta la presunzione d’una maggior sapienza; ma è vero altresì che nell’opinione dei più sta la presunzione della minor fallibilità di fronte all’opinione dei meno.[155]

Probabilmente egli riteneva che una eccessiva macchinosità del sistema dei ricorsi avrebbe annullato quella speditezza del processo economico che rappresentava da sempre la sua caratteristica principale, anche se è da notare che la legge del 1852 consentiva il ricorso contro le pene emanate dalle autorità di polizia solo quando oltrepassavano un certo limite.

III.4. I processi e gli affari politici.

Una parte consistente dei processi economici tenutisi nei due anni precedenti l’annessione della Toscana al Regno di Sardegna riguarda questioni politiche.

Nel Granducato lo strumento del processo economico era già stato usato in passato per reprimere (vere o pretese) defezioni in materia politica e come al solito fu Pietro Leopoldo ad imprimere una svolta alla disciplina.

Egli dapprima, con l’art. LXII della “Leopoldina” volle ridurre i delitti di lesa maestà a “delitti ordinari della loro classe respettiva”[156] e successivamente un altro articolo dello stesso provvedimento[157] tolse la competenza ai giudici ordinari riguardo la punibilità del dissenso politico affidandola appunto ai magistrati economici.

I primi casi da reprimere economicamente si verificarono negli anni ottanta del diciottesimo secolo e riguardarono le proteste popolari contro le riforme economiche e religiose di Pietro Leopoldo; in tali occasioni l’applicazione del procedimento previsto dalla “Leopoldina” dimostrò i suoi pregi in quanto la sua sommarietà, evidenziata anche dal divieto di ricorrere a difensori, e l’ampia discrezionalità del giudice di modo che la punizione potesse essere irrogata secondo le più disparate circostanze, erano l’ideale in una materia dove dovevano essere represse leggere infrazioni.

Quasi tutte le condanne, poi, furono relativamente miti.

La procedura economica, per gli stessi motivi, fu largamente usata alla fine del settecento per punire le manifestazioni sovversive dei “giacobini”, che in genere consistevano in semplici manifestazioni di pensiero[158] e venne mantenuta anche durante l’età della restaurazione come strumento di difesa contro le associazioni massoniche e dei carbonari.

Molto spesso però, coloro che erano attratti da questi ‘ideali sovversivi’ appartenevano ai ceti dominanti ed in virtù di questo fatto unito alla mancanza di una reale offesa ad un bene giuridico, caratteristica tipica dei reati di opinione, quelle volte (non molte) che incappavano nelle maglie della giustizia economica, erano trattati con grande tolleranza cosicché potevano perseverare nel manifestare i propri pensieri:

senza che mai potesse balenare alla loro fantasia né l’immagine di un capestro, né di una cella di galeotto, e si sentivano anche al sicuro perfino da una semplice paternale da parte del presidente del Buongoverno. E ciò avveniva quando a pochi chilometri dalla Toscana era senza pietà mandato a morte o seppellito nelle prigioni chi non aveva commesso altro delitto che amare la patria[159].

La delicata materia dei reati politici in qualsiasi ordinamento dovrebbe essere trattata con intelligenza e competenza particolari giacché il pubblico potere dovrebbe sempre essere in grado di valutare quali manifestazioni sediziose possono essere realmente pericolose e fare proselitismo per distinguerle da altri episodi che, per la loro irrilevanza sociale o per la grossolanità del loro estrinsecarsi oppure ancora perché dettati da un costruttivo spirito critico tendente a restituire al dibattito politico quel dinamismo necessario per evitare un appiattimento generale dei valori, non recano minaccia alcuna al mantenimento dello statu quo.

La natura stessa di quelli che il Fiani chiamava “reati di Stato”[160] non facilita questa distinzione perché per poterne efficacemente valutare la reale portata offensiva, quasi sempre si dovrebbe aspettare che da semplici manifestazioni di pensiero o tuttalpiù da delitti tentati si mutassero in delitti consumati, tali però da travolgere l’integrità delle stesse istituzioni e quindi, a questo punto del loro iter, difficilmente punibili.

C’è quindi l’esigenza, basata su semplici presunzioni di offensività, di stroncare sul nascere un comportamento che, amplificato o portato a termine, potrebbe essere letale per la società e per svolgere questo compito, oltre che ad apposite leggi per la tutela della personalità dello stato, l’ordinamento deve disporre di corpi speciali aventi quella precipua funzione e che nel loro agire sappiano individuare le persone ed i fatti veramente nocivi alla comunità, senza scadere in una indiscriminata repressione del dissenso politico tipica dei regimi totalitari[161].

Nel Granducato di Toscana, invece, non esisteva un apposito corpo di polizia politica ma era la stessa polizia ordinaria che operava come tale; d’altronde pensare che la polizia si possa limitare ai suoi compiti ordinari “è strana ed irragionevole pretensione”[162].

Infatti, queste funzioni secondo il Fiani sono ineliminabili perché come la sicurezza dei cittadini è protetta dalla polizia ordinaria a maggior ragione la polizia politica deve tutelare “la sicurezza dello stabilito Governo qualunque siane la forma”[163].

Egli, proseguendo nella sua lineare analisi, descriveva l’avversione dei comuni cittadini per la polizia politica a causa della sua tendenza “di dare in certe circostanze soverchio valore al sospetto, di agire con preoccupazione, di veder dappertutto nemici” e saggiamente avvertiva che in certi particolari momenti storici il potere politico, se vuole mantenersi saldo, è costretto ad affidare alla polizia politica competenze tali da renderla ancora più ‘forcaiola’ del solito:

Lo stato di violenza in cui il Potere è talvolta costretto a porsi colla Nazione suol essere uno stato di transizione, che cessa, cessato il pericolo. Infelici i paesi e i governi dove quello stato fosse permanente![164]

Da esperto funzionario di polizia, costretto ad affrontare quei problemi che spesso l’ “alta politica” trascura e minimizza, il Fiani credeva che quando un agente patogeno penetra nella società in maniera tale da minarne le fondamenta il ricorso a tutti i mezzi, non ultima la forza, è giustificato.

Tutto questo riguarda solo marginalmente gli atti di archivio consultati: dai processi economici e dai carteggi vari non emergono particolari preoccupazioni di natura politica fino all’insediamento del governo provvisorio cosicché le autorità di polizia del morente Granducato erano impegnate negli affari ordinari come la repressione dei danneggiamenti campestri e la concessione di licenze e permessi vari.

Dopo il 27 aprile del 1859 iniziarono a celebrarsi in via economica i primi processi politici i quali, una volta avvenuto il cambiamento istituzionale, ebbero soprattutto come soggetti passivi i simpatizzanti dei Lorena, i “codini”.

Nei giorni immediatamente precedenti e seguenti il 27 aprile non si verificarono nel territorio della Delegazione di Governo di Pontedera ‘avvenimenti politici’ tali da dover essere giudicati mediante processo economico, anzi il mutamento di regime si fece sentire ‘a scoppio ritardato’ giacché la maggioranza di questi processi si concentrarono nell’estate del 1859 quando nel nord Italia erano combattute le decisive battaglie per l’indipendenza e nel borgo arrivavano i bollettini di guerra[165] che spesso causavano accese discussioni tra “liberali” e “codini” (fomentate anche dalle sempre più insistenti voci di un prossimo ritorno di Leopoldo II a capo di un esercito di austriaci) e nell’autunno dello stesso anno quando fu eletta l’assemblea toscana e inviata la deputazione a Vittorio Emanuele ed il principe Eugenio di Savoia-Carignano fu nominato reggente della Toscana[166].

Non bisogna pensare comunque a sconvolgimenti di particolare gravità: molti “codini” si limitavano a spargere la notizia che Leopoldo II sarebbe tornato “di giorno in giorno”[167] e talvolta aggiungevano crudeli propositi di vendetta nei confronti dei liberali, una volta ristabilita la legittima dinastia dei Lorena[168].

Questo dimostra, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, il carattere squisitamente elitario della “rivoluzione” toscana del 1859 - e benché molti vogliano affermare il contrario per pregiudizi ideologici, molte altre rivoluzioni sono state opera di pochi intellettuali ‘illuminati’ - e l’assoluta estraneità di Pontedera dalle decisioni politiche importanti di quel periodo[169].

Pare piuttosto che una certa parte di popolazione - quella maggiormente incolta e più ‘romanticamente’ attaccata alla vecchia dinastia, tra cui contadini e braccianti ma anche piccoli artigiani come falegnami, calzolai, seggiolai - messa di fronte al fatto compiuto avesse reagito con manifestazioni grossolane di pubblica avversione e tramite piccole manifestazioni sediziose che nei documenti erano definite “discorsi allarmanti” oppure “provocatori” comunque incapaci a creare un’efficace opposizione al nuovo che stava avanzando.

Rientrano in questa tipologia vari processi tra quelli presi in esame aventi per oggetto le “gare politiche” fra i contadini che battevano il grano[170], l’esposizione pubblica della bandiera del Granducato[171], il cantare stornelli in onore di Leopoldo II[172], le dispute tra i giovani delle opposte fazioni in un caffè,[173] il ritrovamento di una sgrammaticatissima lettera anonima nella quale i liberali erano dileggiati, imputata ad un bracciante di S. Lorenzo a Pagnatico sotto l’altisonante e spropositata accusa di “scritti capaci a turbare l’ordine pubblico”[174], addirittura la scommessa di alcuni pennuti sul ritorno del Granduca[175] oltre naturalmente a tutti quei casi di “discorsi sovversivi” nei quali il “titolo della procedura” (che corrispondeva all’accusa) era formulato nelle seguenti maniere: “contegno irregolare”[176], “contegno imprudente in rapporti politici”[177],“discorsi sovversivi e capaci di disturbare l’ordine pubblico”[178], “contegno provocante per partito politico e capace a produrre disordini”[179], “discorsi avversi sull’attuale ordine di cose”[180] e così via.

In queste situazioni poi, le autorità di polizia si preoccupavano soprattutto di verificare che gli imputati non avessero alcuna influenza sulla popolazione in maniera da non fare proseliti e poi li punivano con delle semplici ammonizioni o con qualche giorno di carcere nei casi più gravi (e per questo rientravano quasi sempre nella competenza del Delegato di Pontedera) che erano quelli in cui si verificava la abitualità del comportamento sovversivo e in definitiva si concretizzavano in un semplice e reiterato screditare pubblicamente il nuovo governo: un bracciante di S. Prospero nell’ottobre del 1859 fu accusato di “contegno urtante e provocante per passione politica”[181] perché era solito offendere pubblicamente i liberali; la delegazione tenuto conto della tendenza ad ubriacarsi, della “limitata intelligenza”[182] e della “niuna influenza”[183] dell’uomo ritenne opportuno condannarlo a 5 giorni di carcere e all’ammonimento di “astenersi da discorsi politici provocanti”[184].

La misura più onerosa in casi simili fu presa contro un calzolaio di Pontedera accusato di “discorsi sovversivi e allarmanti, capaci a produrre disordini”[185]: nel decreto emanato dalla Prefettura di Pisa furono menzionate le numerose occasioni in cui egli aveva manifestamente esposto le sue idee filolorenesi e come solo il buon senso degli avversari politici avesse evitato disordini, quindi nonostante la considerazione della “di lui piccolissima intelligenza... e mancanza di influenza”[186] fu condannato ad un mese di carcere e al pagamento delle spese processuali.

Il Delegato di Pontedera avrebbe in seguito adottato “quelle misure di prevenzione che crederà opportune”[187].

Ed ancora: un uomo di Castel del Bosco che era solito “screditare in luoghi pubblici” il governo provvisorio dichiarando che esso non era “un Governo probo, né stabile, da non dover riconoscerlo per legittimo” fu punito con venti giorni di carcere sebbene nel decreto della prefettura si legga che egli “è universalmente tenuto per giucco e... non può avere alcuna influenza sulla popolazione, ed è incapace a farsi un partito dal quale possa rimanere disturbato l’ordine pubblico”[188].

Nei casi appena esaminati il delegato di governo era solito fare uso delle facoltà coercitive affidategli dalla legge del 16 novembre 1852; infatti, con frequenza egli applicava la pena del carcere fino al limite della propria competenza e se irrogava delle misure di sicurezza queste non erano mai precetti, ma semplici ammonizioni accompagnati dalla minaccia di prendere misure più severe in futuro.

Altri reazionari furono ammoniti per avere manifestato pubblicamente le loro idee in occasione della sottoscrizione pubblica promossa da Garibaldi per l’acquisto di un milione di fucili.

Questo obolo stava molto a cuore ai patrioti che si organizzarono per raccogliere la cifra più alta possibile e al tempo stesso solennizzare l’avvenimento: varie feste da ballo furono organizzate nel territorio della delegazione, ma l’evento più rilevante si verificò il 4 marzo 1860 a Pontedera quando la popolazione fu invitata a fare le offerte in una cerimonia pubblica.

Secondo il programma, questa ‘giornata della patria’ si sarebbe svolta in tale modo:

Alle ore 11 le Popolazioni della Rotta, Calcinaia, Montecastello, Palaia, e i Coloni delle fattorie dei contorni ricevuti dalla Banda del Paese e dalle Deputazioni incaricate faranno il loro ingresso in Pontedera e saranno condotti sul Piazzone. Ricevuti i suddetti Popoli la Banda si porterà alla Chiesa Nuova per porsi a capo dei Pontederesi e condurli egualmente sul Piazzone dove pure le altre Deputazioni incaricate condurranno gli altri popoli giunti a quell’ora. Udito il discorso del Molto Reverendo Cappellano Vivarelli apriranno la Marcia i Rottigiani seguitando tutti gli altri popoli, e chiudendola i Pontederesi, e si porteranno per la Via Ferdinanda al Municipio a depositare le offerte in Danaro ...[189]

Da un atto successivo[190] si viene a conoscenza che “la festa riuscì brillantissima e popolatissima” e l’ incasso totale fu di £ 4865.4 (di cui £ 1525.9 offerte dalla popolazione di Pontedera).

Di fronte a tanta pompa si registrò, appunto, qualche lieve intemperanza da parte dei conservatori, ma nulla più: non venne dato l’obolo, fu consigliato ai giovani di tenersi lontano dalle feste da ballo e Garibaldi venne additato come “proscritto”[191], “brigante”[192] e scomunicato dal papa[193].

Fino ad ora si è potuto notare che il legittimismo filo lorenese si manifestava in maniera dozzinale attraverso singole e sterili iniziative, ma questo era solo il livello più basso di un fenomeno che, comunque, continuò a palesarsi come semplice malcontento o come “cospirazione” e non degenerò in violenze.

Intanto una opposizione più consapevole ed organizzata sembra che si ravvisasse nel piccolo centro di Alica, a detta delle stesse autorità, roccaforte della reazione nella campagna pontederese: nell’ottobre del 1859 alla Prefettura di Pisa pervenne una denunzia che poi fu allegata ad una comunicazione di questo ufficio alla Delegazione di Pontedera.

Il contenuto della denuncia era il seguente:

Ad Alica, Fattoria della Principessa Conti, è un partito fortemente audace in favore di Leopoldo II, capitanato dal fattore Pacini e dal Proposto Pietro Scaletti, spinti ed animati dalla Principessa... Il parroco, scaltrissimo, dall’altare grida equivocamente, ma a voce colle persone, anima ed incita a fare diversamente.È Alica piccolo paesucolo in stato di anarchia non essendovi dalla delegazione fatto nulla, e se danni forti non sono avvenuti fin qui dipende dalla poca importanza del paese[194].

Molti altri paesani, poi, manifestavano in maniera più evidente la loro fede per i Lorena.

Nell’atto che accompagnava la denunzia, la prefettura esortava il delegato di Pontedera a verificare la veridicità di queste asserzioni in maniera sollecita e pochi giorni più tardi un rapporto del commesso di vigilanza a seguito delle praticate indagini prontamente confermò che nel paese di Alica “i rozzi ed incolti agricoltori” si mantenevano devoti ai Lorena.

Tuttavia egli non fu capace di raccogliere prove certe o testimoni attendibili di questo atteggiamento generale perché nessuno ad Alica era disposto a tanto; nel rapporto poi egli menzionò alcuni individui “di grossolana ed incolta educazione” i quali si diceva fossero “i più fanatici”.

Si diceva che la principessa Adelaide Corsini, vedova del conte Conti, il quale sotto il precedente ordinamento ricopriva la carica di “Maggiordomo Maggiore”, ospitasse nella sua villa un certo conte tedesco “già ajo per quanto si dice degli Arciduchi di Toscana”.

Confermò che anche i sentimenti del parroco e del fattore della principessa parevano essere ostili al governo, ma costoro riuscivano a mascherare bene le loro simpatie politiche e comunque il commesso non aveva una prova certa; nell’impossibilità di trovare altrimenti sicuri riscontri furono nominati alcuni testimoni abitanti nei paesi finitimi ed alcuni rappresentanti della famiglia Agostini, che si diceva fosse l’unica di fede liberale ad Alica.

Concludendo, il commesso si proponeva di sorvegliare in maniera più assidua il “paesucolo” per avere notizie più sicure.

Dopo alcuni giorni la montagna partorì il topolino: un uomo di Alica fu “sottoposto a serio monito” per “discorsi sovversivi”.

Però, la Prefettura di Pisa ordinò al Delegato di Pontedera di riporre tutta la documentazione “tra gli affari sospesi”.

Altre (sporadiche) preoccupazioni per attività sovversive di un certo rilievo provennero da Cascina[195], da S. Romano[196], da Forcoli e da Peccioli, dove, nel marzo del 1860 la maggior parte della popolazione votò contro l’annessione[197]; in queste ed in altre simili occasioni la preoccupazione fondamentale delle autorità di polizia era il mantenimento dell’ordine, perciò vi era un’attenzione maniacale anche per le più insignificanti manifestazioni provocatorie, sia da parte dei “codini” sia dei “liberali”, di modo che non si verificassero pericolosi tumulti[198].

Forse l’eccessivo rigore con cui furono puniti certi episodi minimi era giustificato proprio dallo scopo di impedire a qualunque costo delle violenze che sarebbero potute scoppiare, se dalla stessa autorità centrale non fossero partiti saggi ordini di “sdegnare i tripudi troppo rumorosi”[199], indegni della civiltà del popolo toscano e “della grandezza degl’Eventi”[200], onde non esacerbare troppo gli animi.

Dopo tutto, la Storia insegna che in queste circostanze “la migliore saggezza è quella che non vi abbandona dopo la vittoria”[201].

Ancora a Cascina e in luoghi finitimi, nel dicembre 1859 si temevano tumulti in occasione della solenne festa indetta per l’inaugurazione della Botte sotto l’Arno, la quale rappresentava un sistema di essiccamento della palude di Bientina.[202]

Proprio perché i lavori furono progettati ed iniziati sotto il regno di Leopoldo II e anche a causa di dissidi politici scoppiati in precedenza tra i molti lavoratori impiegati nella realizzazione dell’opera, le autorità credevano che gli abitanti del piano volessero trasformare l’evento festivo che si sarebbe tenuto il 18 dicembre, in un amarcord leopoldino, se non qualcosa di più grave.

Perciò fu ordinato al commesso di vigilanza e ai carabinieri delle varie stazioni di indagare preventivamente e di stendere dei rapporti sullo spirito pubblico.

Le risposte evidenziarono l’infondatezza dei dubbi poiché sembrava mancassero del tutto persone capaci a promuovere disordini.

Poi, in occasione della visita toscana di Vittorio Emanuele, effettuata nell’aprile del 1860 dopo l’avvenuta annessione, ad una trentina di soggetti (tra cui rientravano molti protagonisti degli precedentemente nominati) fu ingiunto di non allontanarsi dal circondario governativo per tutta la durata del soggiorno del Re[203].

III.5. Il partito reazionario leopoldino.

Dopo il 27 aprile del 1859 oltre all’assenza di sommovimenti violenti non si formò mai un vero e proprio partito antiunitario nel senso moderno del termine, ma accadde che il clero alimentò il malcontento diffuso tra certe frange della popolazione e cercò di ingigantirlo attraverso un’opera di propaganda: l’espressione che designò questa attività, presente per tutti gli anni ‘60, fu “partito leopoldino” o “legittimista”.

Il clero si batteva non solo a favore del ritorno dei Lorena ma anche e soprattutto pro domo sua, cioè “per conservare i privilegi della Chiesa e per mantenere l’egemonia sui ceti popolari che liberali e democratici tentavano di scalzare” [204].

Nelle carte d’archivio si trovano alcuni interessanti esempi di questo atteggiamento: partendo dagli avvenimenti di minore importanza si può ricordare che il pievano di S. Giorgio a Bibbiano si oppose a dei giovani del paese che lo volevano costringere a suonare le campane a festa per celebrare il voto per l’adesione al Piemonte,[205] oppure la difesa scritta del proposto di S. Frediano nei confronti di due uomini di S. Casciano processati in via economica per avere manifestato pubblicamente propositi criminali contro i liberali, dove i due sono presentati come persone dabbene[206], od ancora i pubblici giudizi poco lusinghieri su Vittorio Emanuele del sacerdote di Marti alla vista di un manifesto a favore dell’indipendenza[207], sacerdote che in altra occasione fu sospettato dalla “pubblica voce” di avere imbrattato “con materie escrementizie” un cartello che, come avverte con altisonante magniloquenza (e grande spreco di maiuscole) il rapporto dei carabinieri, rappresentava il “Glorioso Stemma della Casa di Savoia”[208].

In altri processi invece, i religiosi furono accusati di tenere un comportamento più “attivo” contro i liberali: in un rapporto dei carabinieri di Navacchio del novembre del 1859 si legge che “quasi tutta la popolazione si lagna del cattivo pessimo ed allarmante contegno che tiene il... reverendo curato”, il quale andava dicendo che presto Leopoldo sarebbe tornato e che “con un suo fischio ha molte migliaia di uomini per far fronte ai Liberali”[209].

Il delegato, volendo vederci più chiaro, ordinò al commesso di vigilanza di compiere delle investigazioni; dal rassicurante rapporto di questa autorità si desume la poca importanza del problema politico in quei luoghi:

non può dissimularsi che il sacerdote Don Ranieri Bucchi abbia sempre la devozione ed attaccamento alla cessata Dinastia Lorenese in forza della gratitudine che sente per le onorificenze e vantaggi da essa ottenuti; e non si può del pari dissimulare che la devozione medesima predomini per quelle campagne. Nonostante ciò...non sembra che lo stesso prete profitti, come è stato supposto, della sua qualità ed influenza per spargere massime contraria al presente ordinamento politico;...anzi si rileva che nelle frequenti contumelie che si verificano tra qualche Liberale piuttosto esaltato e supposto Codino (sic) si è egli adoperato per ricondurli alla concordia.

Inoltre, le supposte idee reazionarie del prete avrebbero potuto fare ben pochi proseliti dato che il commesso di vigilanza riteneva che non vi fossero soggetti:

che possono azzardare di prendere la iniziativa, talché si ritiene che la tranquillità pubblica non sia punto compromessa e tutto al più potrebbe temersi una qualche rappresaglia... ma anche questo caso si ritiene assai remoto giacché dagli amanti dell’ordine, che sono i più, si cerca lodevolmente di eliminarlo.

Alla fine il prete fu “seriamente ammonito in proposito”.

Una misura abbastanza grave fu presa nei confronti del prete di Visignano che fu condannato dalla Prefettura di Pisa a 50 giorni di reclusione nel convento dei Passionisti presso il monte Argentario[210].

Dalla motivazione del decreto di condanna emerge che il sacerdote fosse solito leggere “un periodico destinato ad eccitare il fanatismo politico” e contenente principî “avversi all’attuale ordinamento italiano”; inoltre l’uomo (che in un precedente rapporto era accusato di fare proselitismo per il “suo partito retrogrado”) non aveva molti seguaci tra i paesani, anche se il suo abituale comportamento incrementava notevolmente il dissidio fra le due diverse fazioni.

Quindi, in questo caso, la mano pesante del magistrato di polizia era giustificata non tanto dall’avversione del prete all’unità d’Italia e alle dominanti idee liberali ma piuttosto dal pericolo di fare nascere tumulti.

Nel periodo che va dalla caduta dei Lorena all’annessione al Regno di Sardegna, i casi più interessanti riguardo gli ecclesiastici hanno per oggetto non solo la difesa del vecchio ordine ma anche la loro preoccupazione (segnalata precedentemente dal passo del Cerri) di mantenere una posizione privilegiata anche all’interno della nuova entità giuridica.

A questo proposito è da segnalarsi la levata di scudi di alcuni preti, i quali, nel gennaio del 1860 prendendo spunto da una circolare emanata dal vescovo di S. Miniato, difesero con passione davanti ai fedeli il potere temporale del papa e minacciarono di scomunicare chiunque lo avesse messo in discussione[211].

Infatti i religiosi fiutando il nuovo corso giurisdizionalista che stava per prendere piede e che avrebbe finalmente liberato la penisola dal millenario giogo papale, donandole alcuni decenni di guida politica interamente laica, esortarono i villici a pregare per il papa “cui si pretende di togliere il dominio temporale col pretesto di non sapere amministrare quelle Province.. che gli furono regalate ed a nissuno è dato di levargliele senza incorrere nella scomunica”[212].

La menzione del ‘regalo’ dei territori papali non era casuale: probabilmente il prete in questione alludeva alla così detta ‘donazione di Costantino’ ed il fatto che nel documento in questione non fosse specificato altro fa pensare che questa leggenda fosse ben radicata tra quei campagnoli.

Se queste supposizioni sono giuste sarebbe alquanto singolare come i preti, sfruttando l’ignoranza della popolazione, ancora nel secolo scorso facessero ricorso a questa ignobile ed antichissima truffa dato che la falsità della ‘donazione di Costantino’ era stata dimostrata da Lorenzo Valla circa quattrocento anni prima!

Inoltre, per impressionare i fedeli, i parroci ricordarono che nel recente passato, nonostante le umiliazioni cui la chiesa fu sottoposta da Napoleone, i papi furono pienamente ristabiliti nel loro dominio temporale e spirituale nell’età della restaurazione.

Qualcuno poi, per rafforzare la fede dei paesani e manipolarne efficacemente le coscienze, escogitò lo stratagemma di indire una festa religiosa straordinaria.

La polizia non lasciò impuniti i religiosi che furono accusati - una volta tanto con un titolo della procedura adatto e proporzionato all’entità dei fatti - di abusare del loro “nobile Ministero Ecclesiastico”; così mentre il parroco di Palaia, nonostante meritasse “grave reprensione” fu semplicemente sottoposto “a serio monito” in considerazione della sua “decrepita età” e del fatto che “nel suo lungo esercizio parrocchiale” non avesse mai dato occasione di richiami[213], l’arciprete di Ponsacco fu condannato a due mesi di carcere espiabili in un convento[214], il sacerdote di Capannoli che era accusato di “fare dei discorsi sovversivi per eccitare i contadini alla rivolta”, ma che nel decreto della prefettura apparve parzialmente ‘riabilitato’ fu dichiarato “bastamente punito” con l’arresto cautelare[215] e solo nei confronti del parroco di S. Pietro si decretò “non esser luogo a procedere”[216] .

Il nuovo governo da subito si era preoccupato di arginare l’influenza del potere ecclesiastico ritenendolo così legato al vecchio sistema da potere compromettere la pubblica tranquillità in futuro, ma, nonostante le precauzioni prese dalle autorità di polizia, i religiosi presenti nel territorio della Delegazione di Pontedera non si esposero più di tanto per difendere la causa dei Lorena, intenti come erano a seguire con apprensione le vicende relative al sommo pontefice.

Già nel maggio del 1859 la Prefettura di Pisa aveva comunicato al Delegato di Pontedera[217] che il governo voleva “conoscere con precisione” e “con la maggior sollecitudine possibile” il numero dei sacerdoti “esteri” presenti nel circondario e quello delle “Monache o Suore che... si sono specialmente dedicate alla pubblica o privata istruzione”; analoga richiesta fu fatta due mesi più tardi per sapere se esistevano “sette o affiliazioni Gesuitiche”[218].

Nell’agosto dello stesso anno uno scambio di informazioni tra le due autorità rivelò che la situazione nelle campagne era abbastanza sotto controllo: la prefettura, in un scrittura qualificata “riservata”[219] voleva “con prontezza” sapere:

1. Se i Vescovi e i Preti si siano astenuti dal render voto nella circostanza delle Elezioni dei Rappresentanti della Toscana...

2. Se i Vescovi abbiano ordinato ai Preti di non rendere quel voto.

3. Se i Preti e i Frati abbiano imposto o consigliato ai fedeli di non prender parte a tali Elezioni...

4. Se essi medesimi abbiano detto, o fatto dire, o anche vadano dicendo o facendo dire essere peccato il votare contro la Dinastia di Lorena...

Pochi giorni più tardi, in risposta, un rapporto della commissione di vigilanza informava che:

Avendo con tutta riservatezza e circospezione interpellate diverse probe ed oneste persone... si verifica che... pochi furono i Preti che si presentarono a votare (forse col pretesto di dovere in quel giorno festivo accudire ai loro obblighi di Uffici delle respettive chiese)... Non consta che l’Arcivescovo e Vescovi abbiano ordinato ai Preti a non rendere quel Voto e nemmeno che i Preti e Frati abbiano imposto e consigliato ai fedeli di non prendere parte a tali Elezioni e di non votare; e non consta parimente che abbiano detto, o fatto dire, e anche vadano dicendo o facendo dire essere peccato il Votare contro la Dinastia di Lorena...

Che la situazione da quel punto di vista fosse abbastanza tranquilla fu confermato nel novembre del 1859 da una informazione della pubblica vigilanza[220] a cui era stato ordinato di vigilare sul “ben noto Parroco di S. Prospero” di tendenze reazionarie: “soggetti amanti dell’ordine e devoti alla causa Nazionale” affermarono che il prete dopo la battaglia di Solferino aveva cessato di procurare “qualunque bega”.

Tuttavia, le autorità erano chiamate a vigilare con la massima attenzione perché di quando in quando, sotto la (vera o presunta) spinta dei parroci si riaccendeva la passione legittimista che si manifestava soprattutto attraverso cartelli e lettere anonime affissi pubblicamente (spesso nei pressi delle chiese).

In questi sgrammaticati documenti[221] gli autori avevano parole di elogio per i Lorena e per il papa e tutta la chiesa contrapponendoli all’empio (in quanto “protestante”[222] e “scomunicato”) Vittorio Emanuele II e all’odiata sua dinastia.

Un episodio simile si verificò ad esempio a Ponsacco nel settembre 1859.

Il ritrovamento dei cartelli preoccupò molto la Prefettura di Pisa, la quale riteneva che un tale episodio denunciasse la mancanza di polso del gonfaloniere e che buona parte della popolazione professasse “principj assolutamente contrarj all’attuale ordinamento politico”[223].

III.6. I nuovi protagonisti.

Un esiguo numero di processi economici analizzati riguarda i sostenitori del governo sorto dopo il 27 aprile 1859: i liberali o patrioti che dir si voglia.

Importa sottolineare una volta di più che nell’anno precedente alla caduta dei Lorena non si trovano processi che hanno come protagonisti i sostenitori di Vittorio Emanuele, mentre sotto il governo provvisorio negli atti dei processi, riguardanti l’una o l’altra fazione, si legge di calorosi sostenitori del “nuovo ordine di cose” animati da violenta passione di vendetta contro i “codini” che a loro volta ricambiavano questi sentimenti.

Ma prima del 27 aprile dove erano questi “patrioti”?

Perché il loro nome non compare nei processi economici?

Si deve forse pensare che le loro azioni sovversive fossero di una gravità tale da essere giudicate tramite processi ordinari e che nell’avvicinarsi del famoso giorno non vi sia stato alcuno che meritasse di essere ripreso ‘paternamente’ per una qualche bagattella, come un discorso, un grido o un cartello a favore dell’indipendenza?

O forse erano così astuti da non farsi scoprire?

O forse ancora la tolleranza delle autorità era così estesa da non ritenere opportuno prendere delle misure contro questi perturbatori dell’ordine?

O piuttosto è da credere, come spesso succede nei cambiamenti epocali, che un buon numero di pusillanimi “morto il tiranno” si siano messi a fare “gli eroi della libertà”,[224] salendo sul carro dei vincitori e arrogandosi meriti non propri?

I liberali che si trovarono ad affrontare dei processi economici sotto il governo provvisorio toscano furono quasi tutti semplicemente ammoniti o subirono pochi giorni di carcere.

Comunque, se si confrontano questi processi con quelli precedentemente analizzati ed aventi come soggetti passivi i “codini”, si nota che (ed è ovvio) nessun liberale fu giudicato per avere pubblicamente esposto la propria fede; ciò non era sufficiente, come per i “codini”, ma serviva anche un contegno minaccioso (ma non in maniera generica) che le più volte si rivolgeva ai preti e ai possidenti, considerati i più legati al vecchio regime.

Così un uomo, pochi giorni dopo l’instaurazione del nuovo governo, minacciò il prete di Marti affinché innalzasse la bandiera nazionale[225]; dei giovani di S. Giorgio (imitati da dei coetanei di Marti[226] ) avrebbero voluto suonare le campane per festeggiare il voto per l’adesione al Piemonte e, oppostosi il parroco, si creò del disordine[227]; due giovani minacciarono di morte un certo cavalier Manetti e la moglie in quanto “codini”[228]; anche l’ex ministro Baldasseroni, ritiratosi in una villa presso Palaia pochi giorni dopo la caduta dei Lorena, fu oggetto del malcontento popolare che cessò solamente quando egli decise di andarsene[229].

Il Delegato di Pontedera, forse timoroso di dover prendere delle misure contro i “patrioti”, spedì degli atti con i quali domandava alla Prefettura di Pisa come si sarebbe dovuto comportare nei confronti di alcuni uomini di Castel del Bosco, i quali durante i festeggiamenti “della accettazione per parte di S. M. il Re di Sardegna del voto dell’Assemblea Toscana” affissero un cartello recante la scritta “fuoco ai codini” e minacciarono di morte i suddetti codini.

La risposta della prefettura fu molto chiara:

Il Governo attuale è il Governo dell’ordine e vuole che sia osservato ad ogni costo...il Ministero dell’Interno ha sempre fatto sentire che il disordine dev’essere indistintamente ed energicamente punito qualunque sia la causa o la persona che lo suscita. I promotori del disordine devono essere colpiti con tutto il rigore della Legge a qualunque classe di cittadini appartengano, e qualunque sia la opinione politica che professano.

Ciò premesso, riguardo più specificamente ai fatti di Castel del Bosco, il Delegato di Pontedera avrebbe dovuto “adottare immediatamente quei provvedimenti che erano imposti dalle leggi vigenti anziché richiedere autorizzazione di ciò che dovesse farsi”; poi il prefetto continuò la sua rampogna affermando che col suo comportamento il delegato dimostrava “o che poco apprezza” la propria competenza o che aveva costantemente bisogno di qualcuno a guardia del suo operato senza volersene assumere “una ancorché apparente responsabilità”. Concludendo, l’autorità pisana si augurava che in futuro non accadessero simili episodi, altrimenti sarebbe stato costretto a “rassegnare l’affare al Ministero dell’Interno”.

Belle parole, indubbiamente, ma in seguito i responsabili dei fatti in questione furono semplicemente ammoniti.

Questo episodio starebbe a dimostrare che alle autorità di polizia durante il governo provvisorio era ordinato di giudicare tutti in egual misura negli affari politici, ma poteva succedere che, a causa dell’arbitrarietà connaturata a questi compiti, i liberali avessero un trattamento più favorevole.

Le stesse autorità erano cambiate in alcuni casi: in una circolare della prefettura indirizzata al Delegato di Pontedera[230] era affermato che:

Dopo il mutato ordine di cose tra noi, importa procedere a dei cambiamenti nel personale della Commissione della Vigilanza Pubblica...

perciò la prefettura invitava il delegato ad “avanzare le proposizioni che ravviserà necessarie”.

Poi, a partire dai processi celebrati verso la fine di maggio del 1859, nei documenti di archivio si può notare come la grafia di chi doveva scrivere la risoluzione (che corrispondeva alle decisioni prese dal delegato) fosse cambiata, anche qui ci furono delle epurazioni?

Degli sconvolgimenti si verificarono sicuramente a livello delle cariche politiche locali, dato che ai gonfalonieri di Pontedera e di Capannoli nell’estate del 1859 fu concessa dal governo toscano “la implorata dispensa” dal loro ufficio, mentre in un’altra occasione era la stessa autorità centrale che si preoccupava di fare rimuovere i funzionari minori non in linea con il nuovo corso politico:

Importa che per le variate condizioni dei tempi trovasi a Capi delle Rappresentanze Comunali persone le quali alla capacità di bene amministrare le cose del Comune riuniscano uno spirito ed una volontà ferma da secondare in ogni rapporto le vedute del Governo. Ella perciò... procuri con la maggior sollecitudine ed esattezza di informazioni se veramente negli attuali Gonfalonieri compresi nel di Lei Circondario concorrano gli accennati requisiti prescindendo da quelli che possono essere stati nominati dopo la attuazione del presente ordine di cose. Ed ove creda conveniente che a quelli attuali debbano sostituirsene dei nuovi, la invito ad indicarmi le persone che potrebbero completamente corrispondere all’indicato scopo.[231]

Parzialmente in contrasto con questo documento si pone l’altro del novembre 1859[232] nel quale la prefettura comunicava al delegato che il governo toscano aveva scelto i gonfalonieri delle comunità presenti nel territorio pontederese tra i consiglieri delle stesse eletti pochi giorni prima.

Infatti, mentre per Pontedera fu scelto il notaio Maglioli indicato come “buonissimo” in una precedente lista[233] dove il delegato, su richiesta della prefettura, aveva dato informazioni “sulle qualità morali, sulla opinione politica, sulla capacità, idoneità ad amministrare la cosa pubblica... stima e simpatia” dei consiglieri eletti, all’effetto proprio di facilitare la nomina governativa, altrove non fu così.

A Cascina, ad esempio, fu confermato il vecchio gonfaloniere anche se dalle osservazioni sul suo conto pareva non molto affidabile (“gode la pubblica estimazione quantunque i suoi principj politici siano pel cessato Governo”) e anche a Capannoli fu di nuovo nominato l’ultimo titolare della carica che nell’elenco dei giudizi relativi ai consiglieri eletti era stato definito “liberale apparente”, “avaro” e “non ben visto”.

Per giustificare le misure prese dal governo in questi ultimi due casi però bisogna ricordare che i gonfalonieri confermati erano tra quelli che il governo provvisorio aveva designato dopo il 27 aprile in sostituzione dei “codini” e quindi, si presumeva, fedeli al nuovo ordine.

In una situazione politica precaria il governo preferì scegliere il terreno della continuità istituzionale, affidandosi ad uomini esperti (anche il gonfaloniere di Palaia fu confermato) nei quali era riposta la speranza di sapere meglio gestire eventuali disordini rispetto a degli homines novi.

Comunque, scorrendo la lista dei giudizi sui consiglieri eletti in quell’occasione a Pontedera, Palaia, Cascina e Capannoli non è infrequente trovare degli individui considerati “di sentimenti retrivi”, “devoti al cessato Governo”, “retrogradi” a dimostrazione che nell’esiguo numero degli aventi diritto[234] (e che sicuramente non erano braccianti o contadini, i più ciecamente devoti alla tradizione), vi erano non pochi “codini”.

E proprio l’ex Gonfaloniere di Capannoli, pochi giorni dopo la cessazione dalla carica, fu autore di una memoria[235] indirizzata al Delegato di Pontedera e volta a difendere il donzello comunale accusato di avere diffuso idee reazionarie tra la gente.

L’ex gonfaloniere nella difesa del suo vecchio sottoposto indirettamente palesò le loro comuni idee politiche e non lo scagionò affatto dalle accuse in quanto ammise che il donzello:

ha sempre rispettato il Governo e qualunque altra Autorità, e non è persona capace di sparlare in nessun conto né del Governo né di altri superiori avendolo ormai sperimentato nel corso di anni quattro, che ho tenuta la carica di Gonfaloniere.

Tutto ciò non significava necessariamente che il donzello fosse fedele anche al nuovo governo e poi la difesa era traballante proprio perché proveniva da un ex funzionario che aveva chiesto la destituzione in quei giorni e quindi, si suppone, fedele ai vecchi regnanti.

III.7. Il nemico comune.

La lotta politica non si esauriva semplicemente nella dicotomia “liberali”-“codini”; infatti, in quegli anni è documentata l’attività a Pontedera di quello che dalle autorità era chiamato il “partito demagogico”[236] o dei “protestanti”[237].

Costoro furono i destinatari degli unici provvedimenti a carattere politico trovati nei documenti relativi al periodo precedente alla caduta dei Lorena.

Sulla consistenza numerica di tale associazione, in mancanza di studi più approfonditi, si possono fare solamente delle supposizioni, dato che anche il materiale d’archivio è alquanto contraddittorio; infatti si vedano due rapporti di polizia stilati verso la fine dell’anno 1859 a poche settimane l’uno dall’altro: nel primo era affermato che “il partito del Protestantesimo e demagogico che da anni si è formato in Pontedera è piuttosto numeroso... circa settanta individui della classe dei braccianti e artisti”[238], mentre l’estensore del secondo credeva che i protestanti di Pontedera fossero “sedici o diciotto”[239].

Comunque, l’attività sovversiva di matrice politica era intimamente legata a quella antireligiosa e sebbene si possa pensare che, specialmente nel periodo del regno dei Lorena, quando molto forte era la connessione fra il trono e l’altare, il minimo dissenso politico doveva essere associato alle più turpi qualità morali e religiose e che quindi la qualifica gratuita di “protestante” serviva ad amplificare il discredito sociale di una categoria di ‘diversi’[240], i dati d’archivio confermano indubbiamente la presenza in quei luoghi di seguaci della religione Evangelica.

Certo, è difficile scindere il piano religioso da quello politico e soprattutto capire come mai gli appartenenti al partito demagogico erano protestanti e come questa eresia fosse arrivata nelle cattolicissime campagne pisane ed è altrettanto difficile capire se proprio tutti i protestanti erano anche ‘demagogici’ e viceversa: proprio una mancata coincidenza numerica tra i due gruppi giustificherebbe la disomogeneità delle su citate fonti.

In tale caso lo studioso dovrebbe interpretare le informazioni rese dai funzionari di polizia a seconda del carattere del procedimento (‘politico’ o ‘religioso’) in cui si inseriva quel dato rapporto di polizia; ma gli elementi sono pochi e non permettono di stabilire una distinzione sicura, per cui si continuerà a parlare genericamente di “protestanti” appartenenti al “partito demagogico” tenuto conto anche che altri indizi archivistici sono poco probanti, come nel caso di un rapporto di polizia del settembre del 1858 dove, in riferimento a dei presunti “agenti della setta mazziniana”, si narrava di una “gran moda invalsa nella maggiorità dei settarj e cospiratori di abiurare il Cristianesimo”[241].

L’autore di questo documento, poi, si contraddiceva o dimostrava di avere le idee poco chiare affermando anche che gli “agenti” e le loro famiglie professavano “tutti il protestantesimo o meglio nessuna religione”[242].

In via ipotetica potrebbero avere avuto un ruolo rilevante nell’intera vicenda quelle famiglie di mercanti svizzeri[243] che nella prima metà del secolo scorso si erano stabilite a Pontedera; forse furono proprio loro ad avvicinare gli elementi più insofferenti alla tradizione clerical reazionaria ad un nuovo modo di pensare: come è noto l’etica protestante alimenta lo spirito del capitalismo ed é connessa nella sua accezione calvinista ad una forma di governo repubblicana perciò non è improbabile che gli emigrati svizzeri trovassero un ‘terreno fertile’ a Pontedera data la vocazione mercantile del borgo e le relazioni che da sempre esso aveva con la piazza multietnica e multiconfessionale di Livorno.

Tutto ciò, poi, potrebbe avere attecchito sui residui della tradizione giacobina ed anticlericale dei primi del secolo unita alla recezione delle posteriori idee mazziniane.

D’altronde in uno stato dove l’influenza delle pratiche tradizionali religiose era fortissima, specialmente tra le classi incolte dove talvolta la maschera del fanatismo religioso celava ataviche superstizioni, era naturale che gli individui di inclinazioni ‘progressiste’ che avevano potuto ricevere un barlume di istruzione ripudiavano quella ontologia dogmatica tanto cara alla chiesa.

Ne consegue un filone di pensiero, lontano dal main stream, e da tutte le verità ‘ufficiali’, portato avanti da pochi, coraggiosi personaggi che dovevano apparire alle autorità come degli ‘utopisti’ che si battevano non tanto per finalità concrete, quanto per ‘demagogia’ (e da qui lo sprezzante attributo riferito alla loro attività).

Pur con l’avvertenza di non attribuire eccessiva importanza a figure di secondo piano e di non eccelsa levatura culturale poiché l’indiscusso ‘capo’ del movimento, Scipione Barsali, era il custode del teatro di Pontedera, bisogna storicizzare la vicenda ed inserirla in quel modesto panorama provinciale dove gli alfabetizzati rappresentavano una rarità.

Così, se si compara l’attività di opposizione politica svolta dal “partito leopoldino” - che si concretizzava soprattutto nelle prediche dei preti e nell’esposizione di sgrammaticati cartelli offensivi - a quella dei “protestanti”, la seconda ci appare maggiormente articolata e svolta con una certa consapevolezza: si hanno notizie di riunioni tenute a Pontedera alle quali partecipavano individui provenienti da altre città[244], di diffusione di libri[245] e addirittura sappiamo che Scipione Barsali e Valentino Fantozzi (un altro leader “protestante”) il 29 aprile 1859, scrissero una lettera al governo provvisorio di Ubaldino Peruzzi nella quale si resero garanti del mantenimento dell’ordine a Pontedera e responsabili dell’organizzazione di feste di giubilo per la caduta della dinastia dei Lorena[246].

Stupisce leggere in questa lettera che tali compiti non furono arbitrariamente avocati dai due uomini bensì:

Il Delegato ci esorto (sic) a continuare la missione affidataci e noi crediamo dovere di buon cittadino il sobbarcarci un tale peso.[247]

Improvvisamente, “dopo dieci anni di persecuzione promossaci dal clero e dal Governo passato”[248], il Barsali ed i suoi seguaci potevano uscire allo scoperto ed assaporare quei brevi momenti di gloria.

Infatti, oltre a non assistere al trionfo degli ideali repubblicani, costoro avrebbero dovuto subire ancora il disprezzo e l’odio della gente comune anche sotto il nuovo ordinamento.

Nel settembre del 1859 la prefettura inviò un atto alla delegazione di Pontedera nel quale chiedeva di indicare “gli Ordini Religiosi, o le Società o Aggregazioni religiose esistenti in cotesto Governativo Circondario” e ordinava che gli “Ecclesiastici Cattolici ed i Ministri delle altre Religioni” obbedissero alla “Suprema Autorità dello Stato”; nella relativa informazione della commissione di vigilanza fu affermato che il Barsali ed i suoi seguaci:

abiurata la Religione Cattolica, abbracciando invece il protestantesimo, portano ora in trionfo senza alcun velo questa apostasia e procurano di accrescere il numero dei proseliti, lo che incontra quasi la generale disapprovazione.[249]

Ed un altro atto del Novembre dello stesso anno[250] ci conferma che questi uomini, pur palesando “senza alcun freno” pubblicamente le proprie idee, faticavano a farsi un consistente seguito, anzi erano decisamente avversati dalla maggioranza dei pontederesi ed in primo luogo dai preti: un uomo “della Religione Evangelica” morì dopo una breve agonia rifiutandosi di convertirsi fino all’ultimo, nonostante la presenza di un frate cappuccino.

Il parroco del paese non poté così concedergli la “Sepoltura Ecclesiastica” nel cimitero di Pontedera ma “per salvare un poco l’onore della famiglia” si impegnò a cercare un luogo “meno noto al pubblico”.

Nei giorni precedenti i “bigotti Cattolici” avevano manifestato il proposito “di insultare al di lui cadavere” e in un rapporto fu affermato che:

Qualora il Suo Cadavere venisse associato alla Chiesa Cattolica... e quindi tumulato nel Campo Santo Comune, avverrebbero gravi disordini, poiché in generale lo spirito pubblico ne è totalmente contrario e vi è perfino la voce che prescende a dire che se ciò avvenisse vi sarebbero molte Persone che abbiurerebbero il Cattolicesimo per abbracciare il protestantesimo.

Saggiamente, le autorità decisero di autorizzare la tumulazione del defunto nel “Cimitero degli Evangelici” di Livorno o di Firenze.

Sotto questo punto di vista non era cambiato molto da quando il parroco di Pontedera aveva inoltrato un reclamo al Granduca nel quale lamentava che “si lascino impuniti coloro... che avversano la Religione Cattolica e danno opera a far proseliti alla Protestante”[251], o meglio, dal punto di vista giuridico il Barsali ed i suoi seguaci non correvano più il rischio di dovere subire un nuovo processo penale per avere “attaccato la religione dello Stato”[252], ma socialmente rimanevano degli outsiders messi ulteriormente in disparte dal soccombere dell’opzione repubblicana.

Accanto a questo nucleo di ‘veri’ oppositori doveva esistere un gruppuscolo di persone in qualche modo vicine a quegli ideali, ma mancanti di quel minimo di strumentazione teorica e di educazione politica per giustificare le loro azioni; insomma, si trattava di quei delinquenti comuni sempre presenti nei momenti di grande stravolgimento istituzionale della Storia e che, trincerandosi dietro lo schermo della lotta politica, e approfittando del generale sbandamento sociale, commettono soprusi e angherie spesso motivate da vendette personali e da ideali molto più ‘prosaici’ rispetto alla conquista della libertà e alla lotta all’oppressore.

E anche a Pontedera, in quel tempo, simili individui non mancavano.

Si consideri ad esempio il processo 704 del luglio 1859 in cui tre uomini si erano resi colpevoli di violenze e minacce ai danni di un negoziante di Pontedera: gli annessi rapporti di polizia sugli imputati dimostrarono che costoro, che avevano avuto una lunga serie di precedenti “economici” e “ordinari” e che appartenevano al “partito del Protestantesimo e demagogico” detto anche “Mazziniano”, erano “nella ferma credenza, per l’andamento dei tempi che corrono, di potere agire con piena prepotenza, commettendo ogni sorta di disordine” senza essere puniti dalla giustizia.

Uno degli uomini, ritenuto “il maggior temibile di tutti gli altri affiliati nella Setta, e il più audace”, il giorno seguente la caduta di Leopoldo II si era presentato alle abitazioni dei più abbienti cittadini di Pontedera chiedendo con arroganza delle somme di denaro, credendo che il cambiamento istituzionale lo avrebbe legittimato a comportarsi in tale maniera.

Usando le parole di un’istanza presentata al Delegato di Pontedera in quegli stessi giorni e riguardante un caso di depredazioni campestri potremmo affermare che questi piccoli episodi in quel contesto storico erano sintomatici e non bisogna ora come allora “trascurare nemmeno le cose apparentemente minime, poiché racchiudono il germe delle gravi, nella concitazione degli animi ignoranti, quali scambiano la licenza per la libertà, l’indipendenza col diritto di far proprio l’altrui”[253].

Così, nella motivazione del decreto di condanna - che fu molto dura per un processo economico, in quanto i tre furono condannati rispettivamente ad un mese di carcere, sei mesi ed un anno di casa correzionale, indipendentemente dall’esercizio dell’azione penale ordinaria - la Prefettura di Pisa colse la vera natura di questi personaggi, solo nominalmente legati all’opposizione politica di Scipione Barsali, anche se si deve notare, che alla luce dei loro comportamenti, la qualifica di appartenenti al “partito demagogico” gli si addiceva più che al Barsali stesso.

In particolare un condannato fu opportunamente definito “nemico dei ricchi... cattivo soggetto, e che ha l’infernale spirito del disordine, rissajuolo, nemico di qualunque Governo”.

Sulla base delle (poche) conoscenze non possiamo nemmeno escludere che questi individui avessero un proprio compito peculiare nell’ambito dei ‘protestanti’ e costituissero una componente particolarmente animosa e socialmente insubordinata dell’organizzazione e che quindi i rapporti col Barsali fossero più stretti di quanto supposto in precedenza, comunque non si può fare a meno di notare il notevole divario comportamentale ed ideologico tra i due gruppi di ‘dissidenti’.

III.8. La criminalità rurale quotidiana.

Su 407 processi economici presi in esame e coprenti il biennio che va dalla primavera del 1858 a quella del 1860, ben 116 trattano di furti o depredazioni campestri.

I protagonisti assoluti di questo tipo di illecito erano i braccianti; infatti, nei processi dove è possibile leggere (perché specificato e scritto in una grafia sufficientemente chiara) la professione dell’accusato si trova una tale situazione: 108 imputati erano braccianti, 8 fra cellai, mattonai, motai e fornai, 6 contadini, 3 barrocciai, 1 possidente e 1 non ben definita “campagnola”.

Il fenomeno era quindi molto diffuso e ad appannaggio quasi esclusivamente di una classe sociale i cui componenti, lavorando a giornata, vivevano nell’instabilità, per cui nelle giornate non lavorative si arrangiavano come potevano, anche usando metodi non leciti.

La notevole estensione dei furti campestri rappresentava la principale manifestazione del disagio sociale: la necessità, ergo, la fame spingeva le classi subalterne a superare i limiti del consentito così che la sottrazione di pochi prodotti agricoli assumeva il significato di una scelta quasi obbligata per potere mangiare.

I furti di legna poi, avevano lo scopo di provvedere al riscaldamento delle abitazioni mentre l’erba e il fieno servivano a nutrire gli animali domestici, centro motore della povera economia bracciantile.

Oltre alle cause ‘fisiologiche’ bisogna però enunciare anche quelle di tipo consuetudinario: ha rilevato Sbriccoli che i furti campestri nel periodo considerato possono essere considerati anche come il risultato di un residuo storico basato su privilegi di tipo feudale a cui finalmente fu deciso di porre fine:

La disobbedienza, talmente reiterata, diffusa e tollerata da essere diventata un uso, una prassi, quasi un ‘diritto consuetudinario’, ridiventa furto, perché lo Stato smette di consentirla: smette poco a poco, ma smette.[254]

Con questa interpretazione, lo studioso tende a mettere in secondo piano la diffusa teoria secondo la quale il furto campestre in quegli anni avrebbe rappresentato una forma di lotta di massa condotta dai braccianti nei confronti dei possidenti e dei loro contadini: questa affermazione aderisce perfettamente alla realtà presente nella campagna pontederese del periodo preso in esame.

La diffusione delle idee socialiste infatti avvenne qualche anno più tardi e comunque il fenomeno dapprima interessò il settore industriale; per questo motivo nella ricerca delle motivazioni che spingevano i braccianti a delinquere, accanto all’impellenza alimentare si deve affiancare quel tipo di ‘consuetudine’ ricordata da Sbriccoli.

Le sue osservazioni ci permettono di entrare nell’ottica dei braccianti del tempo e di dare un senso alle loro espressioni di stupita meraviglia quando in sede di contestazione dell’addebito si sentivano accusare di “spiegata tendenza alle depredazioni campestri”[255].

Non pensavano infatti di avere disubbidito a delle leggi o comunque di avere commesso qualcosa di una tale importanza da meritare una punizione e la stessa amplissima diffusione del furto campestre accoppiata al fatto che in proporzione era raramente punito[256], li invogliava a chiedere la conferma di quell’immunità nei confronti dell’ordinamento giuridico che tacitamente e inconsciamente ritenevano di avere acquisito.

E così, guardando i documenti d’archivio ci si accorge che nella famiglia bracciantile tutti, uomini e donne si dedicavano ai furti campestri, dai bambini di dieci-undici anni[257] ai giovani, i quali in quell’età in cui l’aggregazione con i coetanei è naturale, spesso operavano in ‘bande’ e grazie a questa forza, se scoperti si permettevano di minacciare violenze[258], agli adulti, fino agli anziani[259].

Talvolta addirittura succedeva che il delegato di governo richiamasse l’intera famiglia[260] (altre volte padri e figli oppure madri e figlie) per sottoporla a precetto; frequenti anche le misure contemporanee nei confronti di coniugi[261] e di gruppi di dieci-quindici persone, composti di uomini e donne di varie età, tutti di un dato luogo[262].

Insomma, un panorama vastissimo che non fa altro che confermare quanto detto in precedenza: il bisogno e la diffusione del comportamento, intrecciandosi a vicenda, producevano una quotidiana ripetizione dell’illecito per cui doveva essere difficile da parte delle autorità di polizia organizzarsi per un’efficace repressione.

Gli individui riconosciuti meritevoli di punizione dal potere economico venivano assoggettati alla fondamentale misura di prevenzione prevista al n° 10 dell’art. 12 del regolamento di polizia del 1849: il “divieto di introdursi nei fondi altrui senza la apposita licenza del proprietario o suo rappresentante”.

Se nel settore degli illeciti politici i delegati esercitavano soprattutto le facoltà punitive affidategli dalla legge del 1852, in questo campo preferivano ricorrere ai mezzi di prevenzione, gli strumenti loro tipici.

Questo perché il pubblico potere, quando avvertiva l’esigenza di colpire i dissidenti politici, lo voleva fare nel modo più celere possibile senza correre il rischio di arenarsi nelle pastoie di un processo ordinario nel quale gli imputati avrebbero potuto esercitare il loro diritto di difesa in maniera più piena e dove gli avvocati avrebbero potuto avere buon gioco.

La scelta era ancor più giustificata se si pensa che molti processi politici avevano per oggetto accadimenti di poco conto per i quali appariva veramente spropositato adire la giustizia ordinaria ma che comunque dovevano in qualche maniera essere censurati affinché il ‘cattivo esempio’ non fosse imitato.

Così, considerato anche che l’interesse leso, o meglio ancora messo in pericolo, consisteva nell’integrità dell’ordinamento giuridico, si preferiva ricorrere a delle leggere penalità piuttosto che a delle misure di prevenzione (che talvolta seguivano le prime).

Non bisogna dimenticare che questi comportamenti, fino a qualche decennio addietro, e cioè fino all’avvento al trono di Pietro Leopoldo, rientravano nella nozione di lesa maestà ed erano puniti duramente senza alcun rispetto del principio di proporzionalità, in special modo fuori dal Granducato, dove ancora a quel tempo persisteva questa pratica.

Nel caso dei furti campestri il discorso era diverso: la scelta di usare le misure di prevenzione era lineare perché non si puniva un furto vero e proprio o dei danneggiamenti bensì si cercava di porre un freno a quella che era ritenuta da coloro che se ne lagnavano (i possidenti o i gendarmi) l’abitualità di un comportamento, talvolta fondata sulla base di semplici sospetti.

Insomma, mancava qualcosa affinché la fattispecie del furto campestre si perfezionasse e si potesse adire la giustizia ordinaria[263]: ad esempio in caso di flagranza il ricorso a misure penali era certamente giustificato.

A dire il vero anche l’articolo 205 del regolamento della polizia punitiva del 1853 ricorreva a delle presunzioni per la punibilità nei confronti di chi veniva trovato in possesso di prodotti campestri dato che rinviava a “circostanze di luogo, di modo, e di persona che ne rendano fondatamente sospetta la provenienza”.

In quei casi, se l’accusato non sapeva fornire la prova della legittimità del possesso soggiaceva alla pena del carcere per un massimo di un mese.

Lo stesso trattamento era riservato agli acquirenti dei prodotti campestri di provenienza sospetta.

Il codice penale poi, all’art. 374 prevedeva il delitto di furto, il quale secondo la lettera g dell’art. 377 se era commesso “all’aperta campagna su prodotti del suolo, tanto aderenti che distaccati”, era aggravato ed il suo autore soggiaceva alla pena del carcere che a seconda del valore delle cose rubate, era emanata fino ad un massimo di cinque anni a cui bisognava aggiungere un altro periodo né “minore di un mese, né maggiore di un anno” derivante dall’aggravamento.

Infine, il legislatore aveva stabilito delle misure penali anche per i danneggiamenti in generale, i così detti “danni dati”, tra i quali rientravano quelli campestri.

L’art. 448 del codice del 1853, puniva “chiunque dolosamente guasta, disperde, distrugge, o altrimenti danneggia cose altrui, o delle quali non ha diritto di disporre” con il carcere fino a tre anni, in relazione all’entità economica del danno.

In una società dove l’agricoltura era la primaria fonte del benessere, per tutelarne la prosperità c’era bisogno di tutte queste restrittive misure di polizia rurale che agissero a più livelli contro la microcriminalità che allora imperversava nelle campagne.

Perciò non poteva essere sufficiente la semplice repressione penale del furto ancorché aggravato; bisognava veramente incidere su quell’attitudine secolare[264] ai danneggiamenti e cercare di estirparla anche facendo ricorso a presunzioni e sospetti, nell’impossibilità di operare altrimenti, pur sempre tenendo presente che chi rubava lo faceva perché era costretto dalle precarie condizioni economiche, ma, senza, per questo motivo, giustificare quei gesti.

Ovviamente, come visto, nei casi in cui le autorità basavano le loro decisioni sul semplice sospetto, l’afflittività della sanzione era minore, di modo che nei casi in cui non sussistevano gli elementi per punire alla stregua del codice penale, si poteva rientrare nella fattispecie prevista dal regolamento di polizia ed emanare ugualmente una misura coercitiva e nel caso neanche questo fosse stato possibile, si ricorreva alle misure di prevenzione nella forma del precetto di non introdursi nei fondi altrui.

L’ultima soluzione aveva il non trascurabile vantaggio di potersi emanare in difetto di quelle prove necessarie di fronte al giudice ordinario così che è da ritenere che anche nei ‘casi dubbi’ le autorità preferissero servirsi del mezzo del processo economico perché portava ad una veloce soluzione (il precetto) che avrebbe potuto servire da intimidazione per il futuro nei confronti dei ladri e depredatori campestri.

Questo sarebbe confermato anche dai dati emersi dalle carte d’archivio poiché anche in certi casi di flagranza si ricorreva al processo economico: questa era sicuramente la soluzione più semplice nei casi ad esempio in cui i proprietari o i contadini sorprendevano degli estranei sui loro terreni[265] dato che in un processo ordinario vi sarebbero state difficoltà probatorie e l’applicazione del principio in dubio pro reo avrebbe permesso agli imputati di farla franca.

Invece in un processo economico veniva assunta la testimonianza del danneggiato insieme a quella di altri soggetti pronti a fare fede di un comportamento abituale e l’eventuale misura preventiva era decretata con celerità.

Sorprende piuttosto che la medesima procedura sia stata seguita anche nei casi in cui la stessa gendarmeria si era imbattuta (magari a tarda notte) in persone in possesso di prodotti campestri di cui non sapevano spiegare in maniera convincente la provenienza[266].

Questa era proprio la fattispecie prevista dall’art. 205 del regolamento di polizia punitiva del 1853; evidentemente, ricorrendo ad una sorta di depenalizzazione di fatto, le autorità decidevano di ricorrere all’emanazione del precetto di “non introdursi dei fondi altrui” anche in casi come quelli sopra descritti per arrivare velocemente ad una qualche misura sanzionatoria.

Per adire la giustizia ordinaria probabilmente serviva un caso limite come il seguente[267]: un ragazzo fu sorpreso a rubare delle pannocchie da alcuni contadini che lo portarono alla gendarmeria dove gli fu sequestrata la refurtiva e dove egli confessò il proprio crimine e la presenza di un complice.

Gli fu imposto il consueto precetto “senza pregiudizio dell’azione del potere ordinario” mentre, non a caso, il complice, che nessuno aveva veduto in azione, fu semplicemente ammonito.

Qualche volta la misura era stata preceduta dal carcere o dal sequestro decretati in qualità di provvedimenti di urgenza specialmente nei confronti di quei soggetti che erano soliti accompagnare ai furti campestri minacce e violenze nei confronti dei proprietari[268].

Inoltre, quando i testimoni asserivano di avere visto le persone dedite alle depredazioni campestri in azione nottetempo, queste ultime erano anche sottoposte al precetto del ritiro serale[269].

Più raramente erano decretati altri precetti come il de non conversando nei casi in cui l’illecito era stato commesso da una pluralità di soggetti[270], o il divieto di portare armi per i sospetti di violenze[271] o il divieto di allontanarsi dal distretto governativo[272].

Infine, per i giovani colpevoli di furti e depredazioni campestri spesso, in aggiunta al precetto, il delegato emanava l’ingiunzione di “non abbandonarsi volontariamente all’ozio”[273] ben sapendo che la natura di questa misura di prevenzione si confaceva a quei soggetti (anche se poi, in molti casi, si rivelava inutile): avrebbe forse avuto senso fare una paternale ad un adulto da sempre avvezzo alla criminalità rurale?

Trascorso un anno dalla statuizione del precetto senza violazione alcuna da parte di chi vi era sottoposto, tutto rientrava nella normalità ed un nuovo comportamento che avesse ad oggetto furti o depredazioni campestri coercibile in via economica era di nuovo sanzionato con il precetto annuale di non introdursi nei fondi altrui[274].

I furti e le depredazioni campestri si verificavano senza interruzione moltiplicandosi in quei periodi in cui le varie colture vengono a maturazione: così in autunno erano talmente frequenti i furti d’uva che la gendarmeria di Navacchio chiese al delegato il permesso di far uso del “Vestiario alla Borghese”[275] per sorprendere qualche ladro in flagranza di reato, mentre il ministero dell’interno, ogni anno, era solito rilasciare ai cittadini interessati il porto d’armi provvisorio per la “speciale tutela sul raccolto delle Uve”[276].

Meno frequente la punizione in via economica dei ‘normali’ furti: probabilmente, per castigare i ‘veri’ ladri, si preferiva ricorrere alla rigorosità della giustizia ordinaria, lasciando al procedimento sommario tutti quei casi che si basavano semplicemente sui sospetti[277].

La misura di prevenzione più usata in questi casi era il ritiro serale poiché la maggior parte dei furti avveniva di notte.

III.9. Gli altri processi.

Le misere condizioni in cui viveva la quasi totalità della popolazione della campagna pisana in quegli anni sono attestate da un buon numero di processi economici aventi ad oggetto la “condotta scostumata” delle popolane.

Queste donne, incapaci a procurarsi il necessario per vivere in altra maniera, praticavano la vetusta arte del meretricio, qualche volta perfino con l’assenso del coniuge.

Esemplare é il caso riportato nel processo n° 598, in cui una bracciante di Treggiaia era incoraggiata a persistere nella prostituzione dal marito che, secondo la pubblica voce, aveva intenzione di costruire una casa con i proventi della moglie; da un’annessa lettera del parroco locale si desume che i coniugi non possedevano “beni alcuni” e si trovavano “in stato veramente miserabile”[278].

Il commercio carnale, che avveniva nelle private abitazioni, o nei campi era quindi molto diffuso e più che un illecito caratterizzato dalla presenza di individui uniti in associazione a delinquere tesa allo sfruttamento della prostituzione stessa, esso sembrava manifestazione ‘spontanea’ di singole persone - anche se qualche volta dagli atti pare emergere l’esistenza di qualche ben organizzato postribolo[279] - ridotte a tali indecenti pratiche dall’estrema povertà.

Il delegato, nella maggioranza dei casi non poteva fare altro che condannare le donne additate dalla pubblica voce come prostitute ad alcuni giorni di carcere e al precetto di non ricevere nelle proprie abitazioni persone di sesso maschile[280] che non fossero i parenti, ma le medesime spesso tornavano a prostituirsi.

Gli estensori del codice penale, consci dell’ineliminabilità di questa piaga sociale,[281] con scelta opportuna avevano deciso di non perseguire la prostituzione come tale, prevedendo invece all’art. 300 la repressione del lenocinio inserita tra i “delitti contro il pudore e contro l’ordine delle famiglie” e l’annesso regolamento di polizia amministrativa all’art 55 confermava la tendenza alla laicizzazione della materia criminale:

I provvedimenti, intesi a far desistere dalle pratiche disoneste, e la disciplina delle donne tollerate, spettano alle autorità di polizia amministrativa.

Merita di essere sottolineata questa lodevole politica di depenalizzazione nei confronti di un comportamento esclusivamente a sfondo etico, in maniera tale da separare (per lo meno per questa fattispecie) la sfera dei delitti da quella dei peccati ed affermare il principio penalistico secondo il quale mala sunt quia prohibita.

Per apprezzare ancora di più questa circostanza non bisogna dimenticare che l’influenza della chiesa della chiesa nel Granducato era notevole, sia nei confronti della famiglia granducale e degli alti dignitari, sia nei confronti delle devote popolazioni rurali.

Però non si può dire che tutto questo si affermasse compiutamente nella pratica perché, come più volte notato, alle autorità di polizia amministrativa, con le leggi successive al regolamento del 1849 erano affidate anche potestà coercitive e in sostanza spettava alla discrezionalità dei funzionari decidere se irrogare delle misure penali oppure dei precetti od ancora sottoporre ad un semplice monito le donne che erano solite prostituirsi.

Quindi l’entusiastico giudizio di cui sopra è da riferire ad una intenzione del legislatore piuttosto che a dei risultati, che anzi, la pratica quotidiana poteva dimostrare di segno totalmente opposto come nei casi in cui le autorità di polizia ricorrevano all’emissione di gravi ed eccezionali misure repressive per stroncare il fenomeno del meretricio[282].

A conferma di ciò si deve notare che le stesse preoccupazioni di stampo morale stavano alla base di quei provvedimenti presi nei confronti di coloro che erano accusati di tresca scandalosa: si trattava di persone che avevano relazioni con rappresentanti dell’altro sesso senza essere vincolati tra loro per mezzo del matrimonio (giovani amanti che qualche volta erano costretti ad un matrimonio ‘riparatore’,[283] vedove, uomini sposati).

Talvolta era proprio il parroco locale[284] che, per fare cessare il pubblico scandalo e affermare l’ortodossia religiosa, segnalava questi casi alle autorità.

Gli imputati riconosciuti colpevoli erano condannati ai precetti annuali di non conversare tra loro e di non recarsi nelle rispettive abitazioni[285].

Tra i vari comportamenti abituali da castigare mediante i precetti (ma si faceva frequentemente ricorso anche alla pena del carcere) c’era l’ubriachezza molesta, diffusissima tra la popolazione di sesso maschile in una regione così generosa in materia di vini[286].

Chiaramente il precetto emanato in casi come questi era quello del divieto annuale di frequentare bettole ed osterie e, nei casi meno gravi (cioè quando l’ubriachezza non aveva i caratteri della abitualità) il delegato decretava la semplice ingiunzione di “non abusare di sostanze spiritose”.

Fino ai fatti del 27 aprile le penalità più onerose nei confronti degli ubriachi erano rappresentate da 3 giorni di carcere (misura raramente irrogata); successivamente il delegato iniziò a sfruttare al massimo la potestà punitiva attribuitagli dalla legge del 1852 e perciò ci furono delle condanne ad otto giorni di carcere.

Proprio una di queste condanne decretata il 30 aprile 1859 sembra fornire la motivazione dell’intervenuto mutamento:

Attesoché in questi frangenti nei quali l’ordine e la pubblica e privata tranquillità non deve possibilmente esser disturbata, ma energicamente mantenuta...[287]

Insomma, c’era la paura che ogni piccolo pretesto potesse scatenare una sorta di guerra civile tra i due partiti avversi dei “codini” e dei “liberali”.

La conferma ci giunge da un processo di poco successivo in cui un uomo, come tanti altri fino ad allora, era accusato di avere ingiuriato diverse persone in stato di ubriachezza: niente di speciale, dunque, tranne il fatto che egli aveva una lunga lista di precedenti, sia col potere economico che con la giustizia ordinaria.

Ebbene, egli fu condannato dalla Prefettura di Pisa a ben un mese di carcere e nella motivazione si legge:

Attesoché l’attuale ordine politico imperiosamente esiga che le Autorità Governative procurino di allontanare qualunque fomito di disordini onde la pubblica tranquillità sia mantenuta inalterata...[288]

Agendo in tale maniera le autorità di polizia amministrativa, in pratica, da quel momento in poi si sarebbero sovrapposte alla giustizia ordinaria rendendo inutile la previsione dell’art. 60 del regolamento di polizia punitiva secondo il quale:

Chiunque in luogo pubblico o aperto al pubblico si mostra in stato di ubriachezza colpevolmente contratta, è punito con la carcere aggravata da tre a quindici giorni.

Al solito, era molto più semplice e veloce punire con lo strumento del processo economico.

Succedeva poi che i padri di famiglia che avevano questo riprovevole vizio si abbandonassero molto spesso a sevizie nei confronti delle loro mogli e degli altri congiunti[289].

Dai rapporti della polizia esce fuori un quadro veramente poco edificante della condizione femminile in quegli anni: percosse e minacciate dai propri uomini (anche quando erano sobri[290]), non trovavano quella soddisfazione che avrebbero meritato nei provvedimenti dei magistrati di polizia, che in certi casi si limitavano semplicemente a sottoporre il marito violento a un serio monito ed incredibilmente parevano più preoccupati della “pubblicità scandalosa” che tali atti procuravano rispetto alla tutela della salute e della dignità di quelle poverette.

Anche i figli usavano aggredire fisicamente e verbalmente le madri[291] (e qualche volta i padri): la causa era rappresentata dal rifiuto dei genitori di corrispondere loro delle somme che avrebbero sperperato nei molti giochi d’azzardo diffusi in quelle campagne: questi erano organizzati in abitazioni private o in stanze annesse ad esercizi pubblici e principalmente consistevano nei giochi delle carte e delle bocce.

I giovani poi, erano ripresi (più o meno severamente a seconda dei casi: si partiva da un semplice monito a non abbandonarsi alla vita oziosa fino ad arrivare al carcere, passando per i vari precetti tra i quali quello di non allontanarsi dal tetto paterno) per altre loro tipiche manifestazioni, non molto dissimili a quelle dei loro odierni coetanei: le liti e le risse tra loro che di solito scoppiavano alle feste, nei caffè o, appunto nei luoghi dove erano praticati giochi d’azzardo[292] ed anche per essere soliti riunirsi la sera e schiamazzare maleducatamente fino a tardi[293].

Da ultimo rimangono da considerare i processi per vagabondaggio rappresentanti un’ulteriore dimostrazione di una realtà rurale in profonda depressione economica.

Gli accusati di “vagabondaggio sospetto” in quanto privi di mezzi di sussistenza, erano condannati al precetto dell’espulsione annuale dal distretto governativo di Pontedera ed erano fatti accompagnare davanti al delegato di governo cui erano sottoposti per luogo di dimora per ulteriori misure[294].

Parallelamente i pontederesi allontanati dagli altri distretti, erano accompagnati innanzi al Delegato di Pontedera che infliggeva loro il precetto di non allontanarsi dai confini del distretto per un anno[295].

Questo continuo vagare da una terra all’altra era appunto motivato dal fatto che i soggetti in questione (che in altri periodi dell’anno potevano essere impiegati giornalmente come braccianti) non avevano un occupazione e si dedicavano alla questua e ai piccoli furti per sopravvivere.

I vagabondi che non erano toscani, infine, erano sottoposti al precetto dello sfratto dal Granducato secondo il numero 11 dell’art. 12 del regolamento di polizia del 1849[296].

III.10. La sottoposizione alla vigilanza della polizia.

Si è visto precedentemente[297] che l’art. 28 del codice penale prevedeva tra le pene accessorie la sottoposizione alla sorveglianza della polizia[298].

E’ evidente che la pena accessoria ne presupponeva una principale; così i giudici penali al momento dell’emanazione della sentenza decretavano che il condannato, una volta espiata la pena principale, fosse assoggettato ad una generica sorveglianza della polizia.

Successivamente era compito delle autorità di polizia specificare questa misura che, come avvertiva l’art. 30 del codice penale, non poteva essere più breve di un anno, né più lunga di cinque ed era divisibile solamente per anni.

Queste disposizioni confermavano pienamente quelle stabilite nel regolamento di polizia del 1849 agli artt. 34 e 35, mentre i successivi artt. 36 e 37 contenevano una descrizione più particolareggiata della misura ed erano diretti alla polizia amministrativa che, nella sua discrezionalità poteva imporre ai destinatari qualsiasi precetto tra quelli elencati nell’art. 12 “anche senza nuovi atti di verificazione”[299]; tuttavia la durata della misura era stabilita dalla giustizia criminale nella sentenza di condanna.

Il sottoposto alla vigilanza della polizia era obbligato poi a comunicare il luogo del proprio domicilio che non poteva mutare senza il preventivo assenso dell’autorità che altrimenti avrebbe mancato al suo compito principale.

Gli studiosi contemporanei criticarono duramente la sottoposizione alla vigilanza della polizia: innanzi tutto si premurarono di precisare che non si trattava di pena, bensì di un “espediente cautelativo”[300] giacché per il principio del ne bis in idem sostanziale lo stesso illecito non può essere punito due volte.

Poi ne misero in luce i molteplici difetti: se lo scopo della sanzione, che era quello di prevenire la recidiva, era lodevole, i modi con cui veniva perseguito erano inefficaci ed in più procuravano “imbarazzo”, “disgusto” e “irritazione” ai sorvegliati.

Le limitazioni di libertà a cui costoro dovevano soggiacere - e dai commenti dottrinali si evince che erano molteplici dato che nella sua invadenza la polizia doveva “seguire i passi di ciascun condannato” e “spiare ogni di lui atto”[301] - li screditavano presso la moltitudine rafforzando i pregiudizi cui andavano incontro e compromettendo definitivamente ogni speranza di risocializzazione.

Inoltre il Fiani riteneva che la decisione di emanare la misura non dovesse essere lasciata alla competenza della giustizia ordinaria, ma era preferibile che se ne occupasse la polizia perché essa aveva gli strumenti (tra i quali erano menzionati la conoscenza dei precedenti e del carattere e delle tendenze dell’individuo) per valutare meglio l’opportunità del provvedimento stesso.

A completare il quadro, il medesimo autore narrava di umilianti vessazioni perpetrate ai danni dei sorvegliati da parte degli stessi agenti di polizia; ecco che dunque la correzione del reo appariva un’impresa veramente ardua, anzi le statistiche criminali avevano dimostrato che nel corso del tempo il numero dei delitti commessi dagli “invigilati” non era affatto diminuito.

Perciò il legislatore avrebbe dovuto rivedere questo istituto pur mantenendone inalterato il fine e la migliore soluzione da adottare era quella della cauzione personale: poiché il condannato, allo stesso modo dei minori, dei prodighi e degli insani di mente, era stato posto dalla sentenza di condanna in uno stato di incapacità, egli aveva bisogno di un tutore, un soggetto, “che si fa garante delle azioni di un uomo, assume una vera tutela, s’impone l’obbligo di vegliare sovra di lui, d’esserne il sostegno”[302]. Questo sistema avrebbe eliminato qualsiasi traccia di sorveglianza della polizia e avrebbe evitato che il condannato per questo fosse perennemente “votato ad un’infamia di fatto”[303].

Il garante, “un cittadino onesto e dabbene”[304], secondo la dottrina, che in tal modo rifuggiva da una aberrante responsabilità penale per fatto altrui, sarebbe stato civilmente obbligato a risarcire i danni che il garantito avesse cagionato con la propria eventuale nuova condotta criminosa.

La cauzione personale non doveva confondersi con quella pecuniaria, inammissibile in questi casi perché contraria “al gran principio della eguaglianza di tutti davanti alla legge, il quale non consente che col danaro si possa comprar l’esenzione da una pena comunque accessoria”[305].

L’applicazione dell’istituto della sottoposizione alla vigilanza della polizia nell’esperienza della Delegazione di Governo di Pontedera evidenzia che in otto casi[306] i sorvegliati erano stati tutti precedentemente condannati per furto.

I precetti a cui furono assoggettati erano tipicamente quelli del ritiro serale, di non introdursi nei fondi altrui e di non allontanarsi dal distretto governativo senza il permesso della delegazione; più rari il divieto di frequentare le fiere e le bettole.

III.11. Altre manifestazioni dell’attività di prevenzione.

Per completare l’analisi dei compiti di polizia affidati alla delegazione di governo si deve gettare uno sguardo ai vari carteggi; fino ad ora è stata presa in considerazione quella che all’epoca era chiamata “polizia di fatto” le cui funzioni erano prevalentemente delineate nella prima parte del regolamento del 1849, dedicata alla “polizia amministrativa”.

Si è visto, però, che l’ufficio, oltre a svolgere una fondamentale attività preventiva mediante l’irrogazione di ingiunzioni e di precetti vari[307], aveva anche attribuzioni punitive, soprattutto in virtù della legge del 1852.

Adesso, tralasciando la repressione delle trasgressioni della polizia punitrice che era affidata alla giustizia criminale ordinaria, si prenderà in considerazione un’attività che, usando l’accezione moderna del termine, era di carattere amministrativo, in quanto si concretizzava essenzialmente nel rilascio di permessi, patenti e autorizzazioni varie[308].

Una delle attività che più si legava al concetto di prevenzione, in quanto mirante al mantenimento dell’ordine pubblico, era la concessione delle necessarie autorizzazioni per le numerose feste e pubbliche attività ricreative varie.

In queste occasioni, in cui si radunava un grande numero di persone, l’autorità di polizia cercava di tutelarsi anticipatamente tramite dei rapporti informativi della gendarmeria onde impedire risse, tumulti ed altri spiacevoli incidenti.

E così, per organizzare feste da ballo (molto frequenti nel periodo carnevalesco), era necessario il consenso della delegazione che giungeva solo dopo due pareri positivi, uno della locale gendarmeria riguardante le qualità morali degli organizzatori e l’altro di un “maestro muratore” che attestasse la sicurezza dei locali[309].

Molte richieste che giungevano all’ufficio riguardavano poi il permesso di potere “incendiare dei fuochi d’artificio” e di potere fare suonare delle bande musicali in occasione delle principali feste religiose[310]; in tali giorni qualche volta erano organizzate delle corse di cavalli che parimenti dovevano avere il nulla osta della polizia[311].

Le medesime autorizzazioni erano necessarie per le rappresentazioni teatrali[312] e canore[313] ed era lo stesso capo comico che compilava la richiesta che era accompagnata dal solito rapporto della gendarmeria o del commesso di vigilanza.

Sotto i Lorena era allegato anche il parere positivo del parroco del luogo dove si sarebbe dovuto svolgere la rappresentazione[314].

Altre occasioni di svago non sfuggivano all’inflessibile controllo delle autorità di polizia: ogni abitudine oziosa era giustamente vista con sospetto perché ritenuta sintomo di rilassatezza dei costumi, ma l’invadenza nelle sfere private dei sudditi da parte di un governo “paternalmente illuminato” non era sempre così benevola ed in questo poco era cambiato dalle grandi teorizzazioni Wolffiane dei tempi di Pietro Leopoldo.

A questo proposito, oltre gli esempi precedenti, si scorrano i documenti d’archivio e si notino le preoccupazioni dei funzionari riguardo l’opportunità o meno di aprire dei biliardi e di tollerare certi giochi nei locali pubblici[315].

È vero che anche oggi, riunioni, spettacoli e divertimenti vari devono essere sottoposti a controlli ed autorizzazioni (anche se uno stato autenticamente liberale dovrebbe farne quasi a meno), ma ciò che caratterizzava quei modelli ottocenteschi era quell’insopportabile patina di perbenismo clerical reazionario talvolta fuori luogo e quella politica del sospetto così cara ai Lorena: ogni riunione di persone era considerata come un possibile pericolo, perciò il pubblico potere doveva controllarne minuziosamente gli scopi, analizzare la moralità dei soggetti più in vista, assicurarsi che non circolassero idee sovversive sia dell’ordinamento politico che di quello religioso e così via.

Numerose carte d’archivio riguardano, poi, le istanze presentate al delegato per aprire o trasferire rivendite di sali e tabacchi[316] oppure osterie e bettole[317].

Anche in queste occasioni il delegato era l’anello di congiunzione fra i semplici cittadini e le più alte sfere della burocrazia: gli affari riguardanti le rivendite di sale e di tabacco ad esempio venivano decisi dalla Direzione Generale delle R. R. Aziende dei Sali e Tabacchi.

Ovviamente il delegato di governo aveva il compito di attivare le informazioni “sulla condotta morale, religiosa e politica” dei postulanti e sull’eventuale vicinanza di esercizi affini.

Simili notizie erano necessarie anche sul conto di coloro che richiedevano il permesso di aprire delle scuole private (maschili o femminili)[318]; l’iter era il seguente: l’interessato compilava una domanda scritta e la faceva pervenire alla Prefettura di Pisa che successivamente richiedeva le informazioni al Delegato di Pontedera il quale per svolgere il suo compito si serviva della gendarmeria o del commesso di vigilanza.

La decisione finale era presa dal ministero della pubblica istruzione che la comunicava alla prefettura, che a sua volta avvertiva la Delegazione di Pontedera, ultimo tramite per arrivare ai richiedenti.

Sotto il Granducato i libri di studio dovevano anche essere approvati dalla “competente Autorità Ecclesiastica”, pratica di cui si perdono le tracce dopo il 27 aprile 1859; i testi per i ragazzi erano principalmente l’abbecedario, la storia greca e quella romana, il Nuovo e il Vecchio Testamento mentre le ragazze oltre alle pratiche del “cucire di bianco”, e della calza, avevano quasi esclusivamente materie religiose.

Un’altra attività cui il delegato era frequentemente chiamato era costituita dai procedimenti di esonero dai precetti[319], in particolar modo quello del ritiro serale: gli interessati erano soliti fare istanza al delegato (che stavolta era l’autorità a cui era discrezionalmente affidata la delibera) perché le loro attività lavorative, spesso sopravvenute alle pronunce delle misure di prevenzione, non potevano essere svolte in maniera ottimale stanti quelle sanzioni limitative della libertà personale.

Di fronte a questa realtà, il delegato, fatte prendere le opportune informazioni, preferiva concedere l’esonero della misura piuttosto che confermarla e rischiare che i richiedenti perdessero il posto di lavoro o delle occasioni di guadagno e si gettassero definitivamente in braccio ad attività criminose.

Esisteva anche un altro tipo di esonero che veniva richiesto costantemente ed era anche questo legato alle necessità materiali: molti genitori supplicavano la delegazione affinché i propri figli fossero dispensati dal servizio militare perché questo avrebbe rappresentato un danno gravissimo[320].

La commissione di pubblica vigilanza allora, era incaricata di accertare le miserabili condizioni dei richiedenti e le eventuali infermità ai danni del capo famiglia o di altri parenti conviventi con il coscritto; nei rapporti comparivano anche giudizi sulla condotta morale, religiosa e politica di queste persone.

In secondo luogo, la richiesta era inoltrata ai vertici dell’organizzazione militare cui spettava la risoluzione finale.

Ma altre attività ancora contribuiscono a confermare lo stato di indigenza in cui viveva la popolazione come le incessanti richieste di “caritatevoli sussidi”[321] in gran parte opera di vedove e di ex militari o le liste mensili dei battezzati “figli di genitori poveri o miserabili” ed abitanti nelle varie comunità del territorio della delegazione[322].

La maggior parte delle carte contenute in queste filze, però, ha ad oggetto le comunicazioni da una delegazione di governo all’altra; in queste si richiedevano i pregiudizi riportati da varie persone “tanto in via governativa che in via criminale”, oppure informazioni sulla condotta “morale, religiosa e politica” od ancora la fede di nascita[323].

Come introduzione alla documentazione d’archivio proposta più oltre in appendice, valga ora in questa sede, a titolo conclusivo, sommariamente ricordare le altre pratiche amministrative che erano solite giacere sul tavolo del delegato di governo e che egli qualche volta risolveva nell’ambito della propria competenza, mentre in altre occasioni trasmetteva l’intero incartamento all’ufficio immediatamente superiore (la Prefettura di Pisa), aspettando delle decisioni (che potevano provenire anche dai vari ministeri) da comunicare agli interessati: così si hanno atti riguardanti operazioni di reclutamento militare[324], concessioni di carte di soggiorno[325], nomine, promozioni e vacanze per i funzionari dell’amministrazione[326], concessioni di porto d’armi[327], operazioni di polizia mortuaria[328], notizie fatte pervenire alle famiglie dei detenuti[329], provvedimenti nei confronti dei malati di mente[330] e degli orfani[331].



[1] ASPI, filze 229-234 intitolate indifferentemente “processi economici” oppure “processi sommari” e raggruppate sotto il nome di “affari economici”.

[2] Questa generica dizione vuole ricomprendere le varie filze riunite sotto i nomi di “circolari e lettere ministeriali e della prefettura”, “lettere e affari diversi”, “carte sciolte, lettere, rapporti diversi, circolari” nelle quali i contatti fra la Prefettura di Pisa e la Delegazione di Governo di Pontedera erano frequentissimi in virtù del rapporto gerarchico che poneva la prima quale ufficio immediatamente superiore alla seconda. Sono state sommariamente scorse anche le filze 111 e 112 relative ai “rapporti settimanali”.

[3] Sulla quale vedi infra, III, 10.

[4] Art. 2 del regolamento di polizia del 22 ottobre 1849, lo si veda supra (2.4).

[5]  B. FIANI, Trattato, cit.p. 93.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] Art. 17 del regol. di pol. del 22 ottobre 1849. La istituzione di questo principio risale all’art. XLVIII della “Leopoldina” il quale stabili che nei processi economici non era consentito infliggere “verun castigo anche per cosa di pura pulizia a veruna persona senza prima averli contestato le sue mancanze e sentite le sue discolpe”.

[10] Art. 16 del regol. di pol. del 22 ottobre 1849. Questa era la procedura relativa alle semplici ammonizioni verbali.

[11] È da preferirsi questa definizione (contenuta nel Trattato  a p. 185) rispetto a quella data dal repertorio del diritto patrio, la quale, oltre ad essere precedente ai regolamenti di metà secolo, aveva il difetto di ripetere ciò che il medesimo testo aveva asserito riguardo la specificazione del concetto di polizia. Infatti sotto la voce “potestà economica” si legge: “Appellano a questo titolo tutte le disposizioni dirette a prevenire i delitti mediante la modica repressione di coloro che vi s’ incamminano”.  ( Repertorio del diritto patrio toscano, p. 102 ). Cfr. la voce “polizia” nel medesimo testo riportata supra (2.5).

[12] L. GALEOTTI, Delle leggi e dell’amministrazione della Toscana. Della Consulta di Stato. Discorsi due,  Firenze, 1847, pp. 29-30. Già la circolare del Presidente del Buon governo del 13 febbraio 1787 aveva stabilito che “i provvedimenti potranno prendersi non solo quando si averà una piena e concludente prova, ma altresì quando vi saranno soltanto dei fondati sospetti”.

[13] Relazione del commissario francese Reinhard del 1799 in ASFI Buon Governo,  220, n. 74.

[14] Ibidem.

[15] Ibidem.

[16] L. 30 novembre 1786, art. 49.

[17] B. FIANI, Trattato, cit.p. 185.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

[20] L. 30 novembre 1786, art. 49. Il chiarimento di questa apparente contraddizione stava particolarmente a cuore sia a Pietro Leopoldo che al figlio Ferdinando, i quali più volte cercarono conforto nelle sapienti opinioni dei loro collaboratori, nonché alti funzionari di polizia. Scriveva a questo proposito il Presidente del Buon Governo Giuseppe Giusti in una lettera a Ferdinando III: “La celebre legge criminale del 30 novembre 1786... proibì sotto qualsivoglia titolo gli atti segreti o camerali, che erano fra loro sinonimi, significando il camerale un processo segreto senza ascoltar l’imputato, in tal guisa compilato in certi casi per prendere contro di esso una economica resoluzione. Ma non proibì gli atti sommarii e non formali, anzi al § 49 espressamente li permesse, purché non mai si mancasse alla massima fondamentale di contestare e ricevere la risposta...”. (ASFI, Segreteria di Gabinetto,  157 n. 9).

[21] B. FIANI, Trattato, cit.p. 185.

[22] Ibidem, p. 186. L’art. 49 del regolamento di polizia del 1849 prescriveva che i commessi di pubblica vigilanza dovessero rendere conto “all’Autorità con speciali rapporti dei singoli fatti che per la loro gravità reclamano particolari provvedimenti”, mentre l’art. 107 del regolamento della gendarmeria toscana affermava che “ogni Comandante... un distaccamento di Gendarmeria... ha l’obbligo di riferire senza ritardo all’Autorità Politica locale ogni notizia e avvenimento interessante in qualunque modo le sue attribuzioni”.

[23] Poteva accadere che su uno stesso fatto, per completezza di informazione, si avessero sia i rapporti della gendarmeria che quelli della commissione di pubblica vigilanza. Cfr. ad esempio il proc. 47 in cui ai rapporti delle due autorità si aggiunse quello dell’ “Accademico di Ispezione del teatro dei Risorti”. (ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 232).  La numerazione dei processi (che sono riportati in appendice) è quella originaria.

[24] Ciò fu duramente criticato dal Fiani, il quale pensava che in questo modo l’istituzione dei commessi di vigilanza fosse assolutamente inferiore ai bisogni della polizia.

[25] B. FIANI, Trattato, cit.p. 437.

[26] Ibidem.

[27] Ibidem. Questa “logica di uno Stato che entra sempre di più nei comportamenti quotidiani dei sudditi, alla ricerca di pericoli da sventare o di potenziali minacce all’ordine politico da impedire prima ancora che possano prendere corpo” si era formata già nell’età comunale e si era definitivamente affermata nei secoli XVII e XVIII quando “le classi pericolose della società” come i mendicanti, le prostitute, i frequentatori di bettole e tutti coloro che tenevano un comportamento avverso alla morale e alla religione, erano costante oggetto dell’attività di vigilanza della polizia, a scopo preventivo. Cfr. M. SBRICCOLI, voce “Polizia” (diritto intermedio),  su Enciclopedia del diritto, cit.p. 115). Si veda, poi, per i precedenti nel diritto toscano l’istruzione per i giusdicenti provinciali del 28 aprile 1781 nella quale Pietro Leopoldo raccomandava la più sollecita vigilanza sulle osterie, sui teatri e su tutti i soggetti viziosi, dediti al gioco e alla lussuria, violenti, immorali o “male inclinati”. Questi concetti furono ribaditi nel 1784 da una circolare del Presidente del Buon governo, nella quale fu ordinata la vigilanza  su “vagabondi, avventurieri, questuanti forestieri, pellegrini..., procuratori, mozzorecchi, venditori di fumo, imbroglioni, torcimani, compratori di robe furtive... le persone poi prepotenti e arbitrarie...”.

[28] Cfr. gli artt. 45-46-47-48 del regolamento del 1849 riuniti sotto il Titolo VIII, “Del subalterno servizio di pubblica vigilanza, ed investigazione di cui dispongono la Autorità di Polizia Amministrativa”.

[29] Cfr. gli artt. 123-124-127-139-140 del regolamento della gendarmeria del 1851.

[30] Secondo gli artt. 126 e 136 del regolamento della gendarmeria ciò era possibile solamente per controllare la permanenza domiciliare dei vincolati di precetto serale (sul quale vedi infra ), quando l’intervento della gendarmeria era richiesto da un abitante della casa e qualora dall’esterno venissero uditi strepiti urla e simili tali da far presumere un qualche disordine.

[31] B. FIANI, Trattato, cit.p. 440.

[32] Il Fiani ricordò che all’epoca in alcuni paesi europei esistevano corpi di guardie notturne con compiti analoghi: i Sereni in Spagna e i Ratelwaghts in Olanda ad esempio. (Cfr. B. FIANI, Trattato, cit.p. 441, nota 1).

[33] Questa fondamentale differenza non è specificata da alcuna legge ma è attestata dal Fiani nel Trattato a p.439.

[34] ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 230.

[35] Anche in altri rapporti della gendarmeria si legge di “ripetute lagnanze”. Si vedano ad esempio i proc.. 607 e 674 f. 231.

[36] B. FIANI, Trattato, cit.p. 24.

[37] ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 230, proc. 470.

[38] Ibidem, f. 230, proc. 514, f. 229 proc. 582, f. 233 proc. 684, f. 232 proc. 39.

[39] Ibidem,  f. 230, proc. 434.

[40] Ibidem,  f. 232 proc.  97, f. 234, proc. 177.

[41] Ibidem,  f. 234, proc. 117.

[42] Ibidem,  f. 234, proc. 155 e 180.

[43] Si vedano i processi proc. 645 e 662 f. 231, nella f. 229 il proc. 564, nella f. 230 i proc. 435, 462 e 499, nella f. 232 il proc. 76 (tutti abbastanza simili).

[44] Due esempi su tutti: il proc. 66 f. 232 e il proc. 468 f. 230.

[45] Si vedano ad esempio i proc. 438 e 454 f. 230  e il proc. 21 f. 233.

[46] F. 231, proc. 608.

[47] Cfr. ad esempio il proc. 542 f. 229.

[48] B. FIANI, Trattato, cit.p. 84.

[49] Ibidem.

[50] D’altronde, è stato da più parti sostenuto che Pietro Leopoldo per controbilanciare il proprio garantismo in campo penale doveva necessariamente potenziare l’efficienza dell’attività preventiva stringendo le maglie dell’organizzazione di polizia. P. NAPOLI in Polizia d’Antico Regime, cit.p. 29, sostiene che “il ruolo di vigilanza e di prevenzione pedagogica” della polizia leopoldina fu disegnato come “contrappeso all’addolcimento delle pene”. Analoga tesi è esposta da G. ALESSI in Le riforme di polizia, cit. p. 417.

[51] Cfr. A. BARETTA, Le società segrete in toscana nel primo decennio dopo la restaurazione, cit. nel quale sono ben descritti i compiti del più famoso degli “amici segreti”: Giuseppe Valtancoli.

[52] B. FIANI, Trattato, cit.p. 85: “Tristo argomento é questo, la cui esposizione rivela al nudo una brutta piaga della società, ma che l’indole del mio lavoro non consente che io trascuri”.

[53] Ibidem.

[54] Ibidem.

[55] Ibidem pp. 85 - 86.

[56] ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 232, proc.  68.

[57] Ibidem,  f. 234, proc. 145.

[58] Ibidem.

[59] Ibidem,  f. 93, carteggio diverso.

[60] Ibidem,  f. 230, proc. 455.

[61] Ibidem,  f. 231, proc. 623. Più precisamente in questo caso le suddette memorie non fungono da atto introduttivo, bensì l’ una da appoggio alle dichiarazioni contenute in un rapporto del commesso di vigilanza e l’ altra, invece, alla confutazione di ciò, assumendo, allora quest’ ultima la veste di preventiva difesa scritta proveniente da un soggetto il quale sapeva che presto sarebbe stato chiamato a rispondere di un proprio comportamento di fronte alla delegazione di governo.

[62] Si veda ad esempio il proc. 624 f. 231.

[63] Proc. 655 f. 231.

[64] Ibidem.

[65] Proc. 81 f. 232.

[66] ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 230, proc. 478, f. 231 proc. 620, f. 233 proc. 22 e 695.

[67] Ibidem,  f. 234, proc. 142 e 149.

[68] Ibidem,  f. 230, proc. 450, f. 232 proc. 44, f. 234 proc. 127. Ma in questi ultimi due casi le “esposizioni ed istanze” non sono altro che delle difese scritte portate rispettivamente da un parente e dal diretto interessato.

[69] Proc. 677 f. 231.

[70] Si veda ad esempio il proc. 690 f. 232.

[71] Un tale sistema fu usato nel proc. 532 f. 229: in un rapporto della gendarmeria del luglio 1858 dei barrocciai, proprio per il loro girovagare da un posto ad un altro, erano sospettati di commettere dei furti. Logicamente non potevano essere puniti in via ordinaria, ma se il sospetto delle autorità avesse trovato appoggio, ci sarebbe stata una sanzione economica. Un mese più tardi un altro rapporto entusiasticamente informò dell’esistenza di alcuni testimoni (gli stessi gendarmi) i quali avevano sorpreso gli accusati in giro a tarda notte con fare sospetto. Nell’ottobre dello stesso anno furono reperiti altri testimoni di questo girovagare notturno: questi semplici sospetti furono sufficienti per assoggettare a delle misure di polizia tre degli accusati, mentre nei confronti di altri due l’addebito non aveva trovato “sufficiente appoggio”.

[72] Cfr. il proc. 15 f. 233 e il proc. 43 f. 232.

[73] ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 232, proc. 86.

[74] Ibidem,  f. 231, proc. 646.

[75] Cfr. proc. 564 f. 229; proc. 645 e 662 f. 231; proc. 76 f. 232.

[76] Cfr. proc. 438 f. 230 e proc. 21 f. 233.

[77] Cfr. proc. 588 e 594 f. 229.

[78] B. FIANI, Trattato, cit.p. 187.

[79] Ibidem, p. 188.

[80] Ibidem, p. 190.

[81] Ibidem, p. 190.

[82] “Ma per altra parte è un fatto indubitato, del quale io stesso nella mia pratica ho avuto assai frequentemente la prova”. (B. FIANI, Trattato, cit.p. 188.)

[83] Ibidem.

[84] Ibidem, p. 189.

[85] Ibidem.

[86] Compare negli artt. 17, 29 e 30.

[87] B. FIANI, Trattato, cit.p. 192.

[88] Ibidem p. 190. Si veda ad esempio il proc. 609 f. 231. Due uomini furono accusati di “condotta sospetta in materia di furti”, ma dopo le deposizioni (infruttuose) di tre testimoni, furono prosciolti (con la formula “attesoché non fu rimasto provato... dichiara non procedere oltre”) senza nemmeno essere sentiti. Per un altro caso analogo si veda il proc. 471 f. 230. Mentre in altri casi l’imputato compariva, era interrogato ma non veniva sottoposto a misure di polizia in quanto “dagli atti non è rimasto provato l’addebito”. (Cfr. il proc. 610 f. 231).

[89] In quasi tutti i processi della filza 231 (quella maggiormente leggibile riguardo alle testimonianze e alla difesa dell’imputato) è ricordato questo aspetto. Delle volte erano annessi agli atti del processo dei documenti che contenevano sia i precedenti “risultanti dai protocolli economici” sia la “fede di specchietto” (cioè gli eventuali precedenti con la giustizia penale ordinaria). Si veda ad es. il proc. 82 f. 232.

[90] ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 229, proc. 594. Per il descritto procedimento si vedano anche i proc. 583 e 584 della stessa filza.

[91]Ibidem, f. 229, proc. 583.

[92] Ibidem, f. 229, proc. 594.

[93] Ibidem, f. 231, proc. 607. Si veda anche il proc. seguente 608 e i proc. 634 e 635 sempre della stessa filza.

[94] Ibidem, f. 231, proc. 607. Si vedano anche nella stessa filza i proc. 611, 621, 627, 640 e 660 e il proc. 585 f. 229.

[95] Ibidem, f. 231, proc. 610. Si vedano anche i proc. 607, 619, 630, 644 e 653 f. 231, il proc. 600 f. 229 e il proc. 145 f. 234.

[96] Cfr. i proc. 613 e 619 f. 231.

[97] Cfr. i proc. 584 f. 229 e 637 f. 231.

[98] Cfr. il proc. 638 f. 231 e il proc. 591 f. 229. Ma su questo aspetto, poi, si veda infra.

[99] Cfr. i proc. 615 e 632 f. 231.

[100] ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 231, proc. 655.

[101] Ibidem,  f. 229, proc. 524. Si confrontino anche altri processi nei quali l’audizione di nuovi testimoni nominati dall’imputato non portò a risultati per lui favorevoli: proc. 530 f. 229, proc. 655 e 668 f. 231.

[102] Ibidem, f. 229, proc. n° 524. Anche nel proc. 127 f. 234 un uomo cercò di difendersi preventivamente attraverso la presentazione di una “esposizione e istanza”.

[103] Cfr. il proc. 86 f. 232 dove questo atto viene definito “scritto difensivo”.

[104] Cfr. il proc. 44 f. 232.

[105] Si veda il proc. 627 f. 231, il proc. 94 f. 232, i proc. 4 e 685 f. 233 e il proc. 166 f. 234.

[106] ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 233, proc. 685.

[107] I parroci, poi, erano in costante contatto con la delegazione di governo dato che erano chiamati con frequenza ad attestare se gli imputati apparivano sul proprio libro dei battezzati. Cfr. ad esempio i proc.430, 432 e 502 f. 230, i proc. 523 e 598 f. 229.

[108] B. FIANI, Trattato, p. 192.

[109] Ibidem.

[110] Nonostante il parere del Fiani si può supporre che nei processi economici più importanti o più articolati (come quello in esame) caratterizzati da molti atti (tra cui i ricorsi alla prefettura) che implicavano una buona conoscenza tecnica, uno o più avvocati assistettero gli imputati. Questi però, nella maggioranza dei casi non dovevano avere alcuna assistenza: il processo si chiudeva celermente con l’irrogazione di una misura preventiva e l’eventuale intervento di legali ne avrebbe snaturato le caratteristiche oltre ad essere infruttuoso. In molti casi, poi, (come nei processi per furti e depredazioni campestri che avevano come protagonisti i braccianti) gli accusati non si sarebbero potuti nemmeno permettere una difesa tecnica che comunque, si ripete, sarebbe stata molto difficile.

[111] ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 233, proc. 15.

[112] Ibidem.

[113] Ibidem.

[114]  Ibidem.

[115] Ibidem.

[116] Art. 8 del regolamento di polizia del 22 ottobre 1849.

[117] Si veda il suddetto art. 8.

[118] B. FIANI, Opuscolo, cit.p. 15.

[119] B. FIANI, Trattato, cit.p. 137.

[120] Ibidem. L’autore dichiarava che gli effetti benefici della misura si facevano sentire ad esempio sui “giovani traviati” e nelle liti familiari.

[121] Art. 15 del regol. di pol. del 22 ottobre 1849.

[122] Ibidem. Scorrendo l’appendice si troveranno molti casi di ammonizioni accompagnate da minaccia di precetto.

[123] B. FIANI, Trattato, cit.p. 137.

[124] Es: il precetto del ritiro serale ex art. 12 (n° 6) del regol. di pol. del 1849.

[125] Es: il precetto di non conversare con certe determinate persone ex art. 12 (n° 8) del regol. di pol. del 1849.

[126] B. FIANI, Trattato, cit.p. 138.

[127] Ibidem, p. 137.

[128] Ibidem, p. 139.

[129] Ibidem.

[130] Ibidem.

[131] B. FIANI, Opuscolo... p. 16.

[132] È l’autore stesso che ci informa che prima del 1849 anche i precetti politici erano emessi a tempo indeterminato. (B. FIANI, Trattato, cit.p. 141, nota 1).

[133] Art. 13 del regol. di pol. del 22 ottobre 1849.

[134] Ibidem.

[135] Art. 12 della legge 16 novembre 1852.

[136] Art. 13 del regol. di pol. del 22 ottobre 1849.

[137] Ibidem.

[138] Secondo il citato art. 13 il sequestro in pretorio non poteva eccedere lo spazio di 48 ore, mentre l’arresto in casa e l’allontanamento da un luogo determinato non potevano essere superiori a 8 giorni. L’art. 1 della legge del 25 aprile 1851 in vista delle “circostanze speciali nelle quali trovasi attualmente il paese” autorizzò le autorità di polizia a sottoporre “le persone sospette di criminosi propositi” al sequestro in pretorio fino ad una durata massima di 8 giorni, e all’allontanamento da un dato luogo fino ad un mese.

[139] Art. 16 del regol. di pol. del 22 ottobre 1849.

[140] Ibidem.

[141] B. FIANI, Trattato, cit.p. 143-144.

[142] Egli raccomandava che nell’uso dei mezzi penali l’azione della polizia fosse “tranne quando intenda correggere... sempre momentanea e provvisoria”. Poi, dedicava un breve commento ai tipi di pena che “i codici d’Europa” ponevano a disposizione della “polizia preventiva”: “la carcere, la fustigazione, l’esilio, il domicilio coatto, la reclusione nelle case di correzione, la sottoposizione coatta alla disciplina militare e la detenzione nelle fortezze”. Particolarmente dure furono le sue parole contro la fustigazione giudicata crudele, umiliante ed inutile per la rieducazione del reo in quanto ergeva “una barriera morale” fra di lui e la società, nonché contraria a uno dei principi fondamentali di ogni “buon codice di Polizia”: quello secondo il quale le pene di polizia non dovessero essere infamanti. (B. FIANI, Trattato, cit.p. 136, 144-149).

[143] Cfr. i proc. 425, 464, 482, 498 e 510 f. 230. Ma anche nelle altre filze vi sono numerosi altri casi simili.

[144] Cfr. i proc. 441 e 497 f. 230 e il proc. 546 f. 229.

[145] Dai 24 giorni dei proc. 485 f. 231, 23 f. 233, 654 f. 231 fino ai 38 giorni del proc. 516 f. 230 e ai 46 giorni di carcere del proc. 561 f. 229 decretati nei confronti di un uomo della Rotta colpevole di “pertinace contravvenzione al precetto”.

[146] B. FIANI, Trattato, cit.p. 145.

[147] Art. 2 della legge del 25 aprile 1851.

[148] Si legge nel proemio: “Ci siamo... persuasi del pressante bisogno che le Autorità di Polizia Amministrativa vengano provvedute, fino a nuove e diverse disposizioni, di poteri proporzionati alla eccezionale gravità del tempo e delle circostanze, si ché, senza disturbo della libera azione dei Tribunali Ordinarj, ad Esse non manchino i mezzi necessari a prevenire i disordini ed a frenare le sinistre tendenze dei mali intenzionati”.

[149] Anch’egli teneva a sottolineare la provvisorietà di questa legge, la quale, bisogna ricordarlo, era da poco stata emanata quando l’autore scriveva il Trattato  così da giustificare le sue rosee speranze per il futuro: “è da riflettersi che la legge suddetta nacque in tempi poco tranquilli, ed è perciò da considerarsi come legge di circostanza, e di transizione”. B. FIANI, Trattato, cit.p. 139, nota 1.

[150] Art. 1 della legge 16 novembre 1852.

[151] Ibidem.

[152] Cfr. art. 6 della legge 16 novembre 1852.

[153] Gli artt. 20, 21, 22, 32 e 33.

[154] Si vedano gli artt. 7, 8, 9 e 10 di questa legge.

[155] B. FIANI, Trattato, cit.p. 195, nota 3.

[156] Art. LXII della legge 30 novembre 1786.

[157] Art. LXIII della legge 30 novembre 1786. I magistrati del potere economico avrebbero giudicato a proposito di “libelli, o piuttosto cartelli contenenti semplici maldicenze” e “maldicenze verbali... contro il governo, suoi magistrati e ministri”.

[158] Si veda ad esempio M. MONTORZI, I processi contro Filippo Mazzei ed i liberali pisani del 1799. (Ragguagli bio-bibliografici su un ritrovamento archivistico), in Giustizia in Contado, cit. pp. 289-300. Il Mazzei fu accusato di “giacobinismo” e processato in via economica ma, sia per l’irrilevanza della pericolosità sociale del suo comportamento, sia per la figura stessa dell’imputato (egli era in età avanzata e godeva di un certo prestigio per il proprio passato di dignitario di corte presso i reali di Francia e di Polonia), il risultato fu che egli ricevette una semplice ammonizione con la minaccia di misure più severe se  in futuro avesse mostrato di nuovo “sentimenti favorevoli per la democrazia”. (Cfr. Biblioteca Comunale “Guarnacci”, Volterra, Arch. Maffei,  102).

[159] A.BARETTA, Le società segrete in Toscana, cit. p. 58. L’accenno agli spropositati provvedimenti contro i patrioti riguardava lo stato pontificio: “era troppo stridente il contrasto tra la quieta Toscana, dove il Governo lasciava in pace i sudditi col solo patto che non proclamassero troppo forte le loro idee, e quell’ambiente di oppressione che impediva qualsiasi manifestazione del proprio pensiero”. (Ibidem, p. 13). Sulla repressione attuata dai papi si rimanda al cap. I. Comunque, sull’argomento non sarà inutile la lettura del romanzo storico Cronache romane  di Stendhal e segnatamente il racconto Vanina Vanini.

[160] B. FIANI, Trattato, cit.p. 78.

[161] La storia è piena di questi esempi ma forse il più perfetto apparato di repressione di opinioni politiche divergenti da quelle ufficiali rimane la Ceka, la polizia politica bolscevica, “il braccio armato della dittatura del proletariato” secondo la definizione di uno dei suoi primi funzionari. (Cfr. S. COURTOIS, N. WERTH, J.L. PANNE, A. PACZKOWSKI, K. BARTOSEK, J.L. MARGOLIN, Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, Milano, 1998, pp. 37-252).

[162] B. FIANI, Trattato, cit.p. 78.

[163]  Ibidem.

[164]  Ibidem, p. 80.

[165] Alcuni sono riportati in appendice.

[166] Anche R. Cerri nota che a Pontedera “nella seconda metà del 1859... più vivace si sviluppò la lotta tra legittimisti e liberali”. ( R. CERRI, Pontedera tra cronaca e storia,  cit.p. 75).

[167] ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 233, proc. 685. Si vedano anche i proc. 688, 2 e 11 f. 233 e i proc. 41, 50, 51, 54, 61, 63, 65 e 86 f. 232.

[168] Nel proc. 75 f. 232 un uomo fu accusato di avere pubblicamente minacciato di volere tagliare la testa ai liberali al ritorno di Leopoldo II. Per un altro caso simile si veda il proc. 51 della stessa filza e il proc. 4 f. 233.

[169] Se ne ha una conferma scorrendo la voce “spirito pubblico” nei rapporti settimanali del commesso di vigilanza: fino al 23 aprile 1859 non venne segnalato alcunché, poi, nel rapporto del 30 aprile il commesso annotò: “seguita tuttora la calma e la tranquillità pubblica per tutto questo governativo distretto. La partenza del Granduca dal Territorio Toscano ha fatto dell’impressione a molte persone, e biasimano oltremodo questa sua risoluzione per l’attaccamento verso di lui”. Poi, fino all’annessione, non venne rilevato assolutamente niente che potesse assomigliare ad un tumulto o a dei disordini; solo retoriche frasi riguardanti i sentimenti della popolazione che, secondo questi documenti, specialmente a partire dal 1860, erano a favore dell’unione col Piemonte. L’unico rapporto sullo spirito pubblico parzialmente negativo fu compilato nel maggio 1859, ma la causa era solo indirettamente politica: “... si ascoltano lamenti per parte dei braccianti e delle famiglie indigenti per la mancanza di lavori, per essere non poco invogliato il commercio, atteso la Guerra dell’Indipendenza Italiana”. Cfr. la voce “spirito pubblico” nei rapporti settimanali del commesso di vigilanza in ASPI, Delegazione di Pontedera, f. 111 e 112, Rapporti settimanali.

[170] ASPI, Delegazione di Pontedera,  proc. 689 f. 233.

[171] Ibidem, proc. 38 f. 232.

[172]  Ibidem, proc. 38 f. 232 e proc. 129 f. 134.

[173]  Ibidem, proc. 64 f. 232.

[174]  Ibidem, proc. 89 f. 232.

[175]  Ibidem, proc. 65 f. 232.

[176]  Ibidem, proc. 694 f. 233.

[177] Ibidem, proc. 1 f. 233. Cfr. anche il proc. 26 f. 233 e i proc. 85 e 86 f. 232.

[178] Ibidem, proc. 2 f. 233. Cfr. anche i proc. 51 e 54 f. 232 e i proc. 129 e 181 f. 234.

[179] Ibidem, proc. 4 f. 233. Simile titolo della procedura anche nel proc. 9 f. 233 e nei proc.  57 e 63 f. 232.

[180] Ibidem, proc. 49 f. 232. Cfr. anche i proc. 38 e 50 della stessa filza.

[181] Ibidem, proc. 63 f. 232.

[182] Ibidem, proc. 63 f. 232.

[183]  Ibidem, proc. 63 f. 232.

[184]  Ibidem, proc. 63 f. 232.

[185] Ibidem,  proc. 75 f. 232. Per altri casi nei quali l’autorità, prima di irrogare la misura, si accertava dell’eventuale influenza dell’imputato si vedano i proc. 688 e 9 f. 233 e il proc. 181 f. 234.

[186] Ibidem, proc. 75 f. 232.

[187] Ibidem, proc. 75 f. 232. Anche in un’altra occasione ad un uomo di Ponsacco accusato di “manifestazioni sovversive e capaci a compromettere l’ordine pubblico” (in realtà l’uomo si era limitato ad appendere in paese dei cartelli sui quali aveva scritto dei motteggi nei confronti di Vittorio Emanuele) furono ingiunti 30 giorni di carcere più l’ammonizione successiva del delegato. (Proc. 129 f. 234).

[188]  Ibidem, proc. 668 f. 231.

[189] Ibidem, f. 44, carteggio della prefettura.

[190] Ibidem.

[191] Ibidem, proc. 136 f. 234.

[192] Ibidem.

[193] Ibidem, proc. 158 f. 234. Cfr. anche il proc. 160 della medesima filza.

[194] Ibidem,  proc. 81 f. 232.

[195] Dove fu denunziata l’esistenza di un “Circolo Politico” filolorenese del quale facevano parte anche uomini di una certa cultura ed educazione. Il relativo processo si concluse con l’allontanamento di un individuo dal distretto della delegazione per la durata di tre mesi. (Cfr. ASPI, Delegazione di Pontedera,  proc. 68 f. 232).

[196] Nel luglio del 1859, la prefettura ordinò al delegato la più assidua sorveglianza sul paese e su tutta la bassa valle dell’Arno.e di “reprimere energicamente” gli eventuali tumulti.

[197] ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 44, carteggio della prefettura.

[198] Si veda ad esempio un atto spedito dalla Prefettura di Pisa al Delegato di Pontedera dell’ottobre 1859 nel quale, in occasione dell’ “innalzamento della Bandiera Sabauda”, l’ufficio pisano esortava al mantenimento dell’ordine: “Rispetto a tutti, rispetto agli Ecclesiastici ai quali non deve farsi violenza sotto alcun pretesto per benedizione di Bandiere o altro. Guai a chiunque a turbar l’ordine...”. (ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 41, carteggio della prefettura ).

[199] Telegramma di Ricasoli del 15 agosto 1859 contenuto nella f. 41.

[200] Ibidem.

[201] Discorso alla Camera dei deputati di Benito Mussolini del 16 novembre 1922.

[202] ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 93, carteggio diverso.

[203] Ibidem, proc. 190 f. 235.

[204] R. CERRI, Pontedera tra cronaca e storia, cit.p. 74.

[205] ASPI, Delegazione di Pontedera,  proc. 36 f. 232. Un analogo rifiuto proveniente da un ecclesiastico si verificò al momento di raccogliere le oblazioni per la sottoscrizione promossa da Garibaldi. (Cfr. il proc. 136 f. 234).

[206] Ibidem, proc. 4 f. 233.

[207] Ibidem, proc. 43 f. 232.

[208] Ibidem, proc. 119 f. 234. In effetti, era sufficiente essere sospettati dalla “pubblica voce” come autori di gesti plateali a carattere filolorenese per ricevere dure sanzioni: cfr. ad esempio il proc. 160 f. 234.

[209] Ibidem, proc. 41 f. 232.

[210] Ibidem,  proc. 61 f. 232.

[211] Cfr. i proc. 121, 124, 125 e 128 f. 234.

[212] ASPI, Delegazione di Pontedera,  proc. 121 f. 234.

[213] Ibidem.

[214] Ibidem, proc. 124 f. 234.

[215] Ibidem, proc. 125 f. 234.

[216] Ibidem, proc. 128 f. 234.

[217] Ibidem,  f. 41, carteggio della prefettura.

[218] Ibidem,  f. 41, carteggio della prefettura.

[219] Ibidem,  f. 41, carteggio della prefettura. Si ebbero altre simili richieste da parte della prefettura: nel settembre del 1859 volle sapere “i nomi dei Preti e Frati che in codesto Circondario Governativo sono stati sottoposti per condotta politica a qualunque Misura di Polizia non escluso il semplice monito”. (Cfr. la f. 41). Nei primi mesi del 1860 due analoghe richieste si occuparono della questua dei religiosi (Cfr. la f. 44).

[220] Ibidem, f. 41, carteggio della prefettura.

[221] Questa pratica resistette per diversi anni, anzi, una volta che la Toscana fu inserita nello stato unitario, costituirono la principale manifestazione del dissenso politico. Alcuni di questi cartelli, reperibili presso ASPI, sono riportati da R. CERRI in Pontedera tra cronaca e storia,  cit. pp. 75-79.

[222] Cfr. ad esempio il proc. 50 f. 232 e il proc. 132 f. 234.

[223] ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 41, carteggio della prefettura. Cfr. anche il proc. 129 f. 234.

[224] L’espressione fu usata da un ‘vero’ oppositore politico: C. MALAPARTE, La pelle, Milano, 1949, p. 157.

[225] ASPI, Delegazione di Pontedera,  proc. 659 f. 231. L’uomo “partigiano dichiarato del regime costituzionale” fu semplicemente ammonito anche se il suo comportamento provocatorio tenuto “mentre sortiva il Popolo dalle Sacre Funzioni” avrebbe potuto fare nascere dei tumulti.

[226] Ibidem, proc. 25 f. 233.

[227] Ibidem, proc. 36 f. 232. Per un altro caso simile cfr. il proc.165 f. 234.

[228] Ibidem, proc. 36 f. 232.

[229] Ibidem, proc. 641 f. 231.

[230] Ibidem, f. 41, carteggio della prefettura.

[231] Circolare dalla Prefettura di Pisa alla Delegazione di Governo di Pontedera del 13 luglio 1859 in ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 41, carteggio della prefettura.

[232] Ibidem.

[233] Ibidem. Simili liste furono compilate anche per le altre comunità di Cascina, Ponsacco, Capannoli e Palaia.

[234] A Pontedera erano 537 (di cui solo 281 votarono), mentre la comunità contava 7000 abitanti; a Cascina erano 2132 (465 e 328 furono coloro che parteciparono attivamente alla prima e alla seconda votazione) a fronte di una comunità di 2300 abitanti; a Palaia votarono 235 elettori (195 in seconda votazione) su 552 aventi diritto e a Capannoli 154 su 284. I dati relativi alla popolazione sono desunti dalle stesse carte d’archivio alle filze 41 e 44. Tutti i dati reperibili su quelle lezioni si trovano nella f. 41.

[235] ASPI, Delegazione di Pontedera,  proc. 690 f. 233.

[236] Cfr.  f. 40, carteggio della prefettura  e il proc. 704 f. 233.

[237] Cfr. proc. 477 f. 230, proc. 704 f. 233, f. 40, 41 e 44 carteggio della prefettura.

[238] ASPI, Delegazione di Pontedera,  proc. 704 f. 233.

[239] Ibidem,  f. 44, carteggio della prefettura.

[240] Come si è visto (nota 207) anche Vittorio Emanuele non sfuggiva alla qualifica di “protestante” nei discorsi della gente comune ancora affezionata ai Lorena.

[241] ASPI, Delegazione di Pontedera,  proc. 477 f. 230.

[242] Ibidem.

[243] Sono nominati anche in un’informazione del comm. vigil. del 4-9-1859 contenuta nella f. 44. Il giudizio sulla loro condotta era ottimo: “vivono a se intenti a prosperare le loro finanze col commercio dei generi coloniali e di bevande spiritose e senza mai avere dato a che ridire sulla loro condotta”. Perciò è da escludere che, oltre a professare la religione protestante (nel documento erano menzionati tra le “associazioni non Cattoliche”), avessero simpatie politiche sovversive e quindi un forte legame col “partito demagogico”. È più probabile un’influenza culturale.

[244] ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 40, carteggio della prefettura.

[245] Ibidem.

[246] ASFI, Carte Bianchi-Ricasoli, busta 0, inserto A.

[247] Ibidem.

[248] Ibidem.

[249] Si veda l’intera documentazione nella f. 44.

[250] ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 41, carteggio della prefettura.

[251] Ibidem,  f. 40, carteggio della prefettura.

[252] Ibidem.

[253] Ibidem, proc. 695 f. 233.

[254] M. SBRICCOLI, Il furto campestre nell’Italia mezzadrile. Un’interpretazione,  in Annali dell’istituto “A. Cervi”, II, Bologna, 1980, pp. 375-376.

[255] Cfr. i proc. 591 e 597 f. 229 e i proc. 634 e 638 f. 231.

[256] Il furto campestre, dice Sbriccoli, era “molto diffuso anche perché raramente punito e raramente punito anche perché molto diffuso”. Cfr. M. SBRICCOLI, Il furto campestre nell’Italia mezzadrile, cit. pp. 375-376.

[257] Cfr. i proc. 173 e 174 f. 234.

[258] Cfr. il proc. 37 f. 232 e il proc. 492 f. 230.

[259] Cfr. il proc. 684 f. 233 e il proc. 98 f. 232.

[260] Cfr. il proc. 452 f. 230 e il proc. 166 f. 234.

[261] Cfr. i proc. 429 e 519 f. 230.

[262] Cfr. il proc. 503 f. 230.

[263] Sintomatico a questo proposito è l’incipit  del proc. 53 f. 232: “Non potendo avere avuto sfogo il presente rapporto per la via del potere ordinario perché mancante di alcune circostanze, ed è però che il sottoscritto lo rimette a V.S. Illma all’oggetto di far conoscere...”.

[264] A partire dall’età medicea gli statuti pontederesi furono costretti ad occuparsi del diffuso fenomeno dei “dannaioli”. Cfr. M. MONTORZI, Pontedera e le guerre del contado, cit.pp. 113-117, dove egli afferma che la pratica del danno dato era l’unica risorsa disponibile per quegli “affamati” e “sbandati” che non avevano trovato tutela nel sistema delle corporazioni.

[265] Succedeva molto spesso. Si veda ad es. il proc. 425 f. 430.

[266] Cfr. il proc. 438 f. 230 e il proc. 21 f. 233.

[267] Proc. 693 f. 233.

[268] È il caso dei proc. 492 e 513 f. 230, del proc. 37 f. 232 e del proc. 152 f. 234. La carcerazione preventiva fu assai frequentemente usata anche per i “normali” furti campestri nel periodo ottobre-novembre del 1859. Cfr. i proc. 31 e 33 f. 233, e i proc. 39, 46, 52, 53 f. 232.

[269] Cfr. i proc. 421 e 439 f. 230, i proc. 39, 52 e 53 f. 232, i proc. 33 e 698 f. 233.

[270] Cfr. il proc. 46 f. 232, i proc. 173 e 180 f. 234, il proc. 619 f. 231.

[271] Cfr. il proc. 46 f. 232.

[272] Cfr. il proc. 46 f. 232.

[273] Cfr. i proc. 147, 161, 163, 173, 174 e 177 f. 234.

[274] Cfr. i proc. 456 e 518 f. 230.

[275] ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 92, carteggio della prefettura.

[276] Ibidem,  f. 93, carteggio della prefettura.

[277] Cfr. i proc. 532, 536 e 567 f. 229, i proc. 609, 622, 627 e 646 f. 231, i proc. 82 e 96 f. 232.

[278] ASPI, Delegazione di Pontedera,  proc. 598, f. 229. Per un caso analogo si veda il proc. 608 f. 231.

[279] Secondo un rapporto della gendarmeria di Ponsacco, in quel paese esisteva un bordello detto “il Palazzaccio” molto noto anche ai forestieri che vi accorrevano dalle altre province toscane. Cfr. il proc. 446 f. 230. Si veda anche il proc. 110 f. 232.

[280] Cfr. il proc. 484 f. 230 e il proc. 584 f. 229. Per altri processi aventi ad oggetto la “condotta scostumata” di donne si vedano i proc. 443 e 490 f. 230, i proc. 548, 577 e 600 f. 230, i proc. 697 e 3 f. 233, i proc. 111 e 179 f. 234.

[281] Anche il Fiani era convinto che la prostituzione fosse un male inevitabile e perciò la società doveva tollerarla dato che non aveva i mezzi per impedirla. Tuttavia questo “mostro proteiforme” doveva essere sottoposto a non ben precisate regole che ne garantissero il minor danno sociale possibile. (Cfr.  B. FIANI, Trattato, cit. pp. 382-383).

[282] Cfr. il proc. 58 f. 232. Una donna di Marti , che aveva reiteratamente violato il precetto di non allontanarsi dal distretto governativo perché sospettata di mal costume, fu condannata dalla prefettura di Pisa alla “grave e straordinaria misura” di due anni di casa correzionale. Questa decisione fu motivata dal fatto che, secondo la prefettura, la donna aveva deciso di “stancare i tribunali dei quali si fa giuoco proferendo contro i medesimi parole ingiuriose”. In tale caso, quindi, la sanzione era dovuta non solo alla pratica del meretricio ma anche alla spavalderia della donna. Per altri casi in cui furono irrogate misure eccezionali di polizia (secondo il tenore della legge del 25 aprile 1851 e di quella del 16 novembre 1852) si veda un prospetto riassuntivo del maggio 1860 in cui quattro individui si trovavano al momento assoggettati alla misura punitiva della casa correzionale, da un minimo di un anno ad un massimo di quattordici mesi. Come già rilevato, questi provvedimenti avevano ben poco del carattere della prevenzione, essendo vere e proprie pene, astrattamente emanabili nell’ambito di un giudizio criminale ordinario.

[283] Si veda il proc. 104 f. 232 e il proc. 486 f. 230.

[284] Si veda il proc. 533 f. 229.

[285] Proc. 426, 501 e 517 f. 230, proc. 533, 571 e 590 f. 229, proc. 117 f. 234.

[286] Si possono vedere i proc. 444, 462 e 449 f. 230, i proc. 538, 539, 560, 564, 592, 596 f. 230, i proc. 613, 628, 632, 640, 643, 645, 657 f. 231, i proc. 47 e 87 f. 232, i proc. 120, 138, 140, 141, 150, 155, 170 f. 234.

[287] ASPI, Delegazione di Pontedera,  proc. 640 f. 231.

[288] Ibidem,  proc. 643 f. 231.

[289] Si vedano i proc. 435 e 496 f. 230, i proc. 553 e 595 f. 229, i proc. 610, 615, 630 e 671 f. 231, i proc. 48 e 59 f. 232, il proc. 133 f. 234.

[290] Cfr. i proc. 450, 457 e 494 f. 230 e i proc. 655 e 669 f. 231.

[291] Due esempi su tutti: il proc. 433 f. 230 e il proc. 524 f. 229.

[292] Cfr. i proc. 460, 472 e 473 f. 230, i proc. 530 e 604 f. 229, i proc. 614 e 629 f. 231, i proc. 127, 148 bis e 154 f. 234.

[293] Cfr. i proc. 573, 586 e 602 f. 229, il proc. 12 f. 233.

[294] Cfr. i proc. 612 e 666 f. 231, i proc. 42, 66 e 91 f. 232, i proc. 114 e 134 f. 234.

[295] Cfr. i proc. 691, 692 e 27 f. 233, il proc. 664 f. 231, i proc. 62 e 92 f. 232, il proc. 169 f. 234.

[296] Cfr. il proc. 148 f. 234.

[297] Vedi supra (II. 4).

[298] Questo era un istituto largamente applicato in Francia dove era stato previsto per la prima volta dall’art. 131 del senatus consulto  del 28 floreale dell’anno XII e successivamente modificato dal codice penale del 1810 e dalla legge del 28 aprile 1832.

[299] Art. 36 del regolam. di pol. del 22 ottobre 1849.

[300]  B. FIANI, Trattato, cit.p. 124.

[301] I. Buonfanti, Teoria del regolamento di polizia, cit.p. 134.

[302] Ibidem, p. 140.

[303] Ibidem, p. 139.

[304] B. FIANI, Trattato, cit.p. 130. IL Buonfanti aggiunse che se il condannato non avesse potuto reperire alcun garante, avrebbe dovuto essere sottoposto alla tutela della società di patrocinio distrettuale. (Cfr. I. BUONFANTI, Teoria del regolamento di polizia, cit.pp. 145-146).

[305] B. FIANI, Trattato, cit.p. 130.

[306] Quelli relativi al periodo in esame: il proc. 467 f. 230, i proc. 528, 550, 554 f. 229, il proc. 637 f. 231, il proc. 74 f. 232 e i proc. 144 e 159 f. 234.

[307] Con un’ulteriore complicazione terminologica il Fiani affermò che la polizia di fatto nel decretare queste misure di prevenzione si comportava da “polizia punitrice”. (B. FIANI, Trattato, cit. pp. 442-444).

[308] Si veda la documentazione in appendice.

[309] ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 92, carteggio della prefettura.

[310] Ibidem.

[311] Ibidem, f. 92 e f. 40, carteggio della prefettura.  In alcuni di questi casi la decisione era presa dalla Prefettura di Pisa e il Delegato di Pontedera, a cui era presentata la richiesta, aveva il compito di comunicare la decisione finale ai postulanti.

[312] Ibidem, f. 92, f. 40 e f. 41, carteggio della prefettura.  Anche qui pare che la decisione vera e propria dovesse essere presa dalla prefettura di Pisa. Per una breve storia del teatro di Pontedera e delle sue rappresentazioni in età sette-ottocentesca si veda M. MONTORZI, Pontedera e le guerre del Contado, cit. pp. 117-120.

[313] Ibidem, f. 92, carteggio della prefettura.

[314] Ibidem.

[315] Ibidem, f. 41, carteggio della prefettura. La preoccupazione di correggere le persone oziose e di distoglierle dal frequentare bettole e dal praticare giochi d’azzardo traspare nella Relazione sul Vicariato di Pontedera del Vicario Luigi Comparini del dì 1° Giugno 1795  (ASFI, Segreteria di Gabinetto, 316, ins. 22).

[316] ASPI, Delegazione di Pontedera,  f. 41 , carteggio della prefettura  e f. 93, carteggio diverso.

[317] Ibidem, carteggio della prefettura  e f. 269, carte sciolte.

[318] Ibidem, f. 40, 41 e 44 , carteggio della prefettura,  f. 93, carteggio diverso  e f. 269, carte sciolte.

[319] Ibidem, f. 92 , carteggio della prefettura.

[320] Ibidem, f. 40 e 41, carteggio della prefettura  e f. 269, carte sciolte.

[321] Ibidem, f. 40, 41 e 44 , carteggio della prefettura.

[322] Ibidem, f. 40 e 44 , carteggio della prefettura  e f. 269, carte sciolte.

[323] Ibidem, f. 40, 41 e 44 , carteggio della prefettura  e f. 269, carte sciolte.

[324] Ibidem, f. 269, carte sciolte.

[325] Ibidem, f. 40 e 41, carteggio della prefettura  e f. 93, carteggio diverso.

[326] Ibidem, f. 40, 41 e 44 , carteggio della prefettura   e f. 93, carteggio diverso.

[327] Ibidem, f. 40, 41 e 44 , carteggio della prefettura.

[328] Ibidem, f. 41 , carteggio della prefettura.

[329] Ibidem, f. 93, carteggio diverso.

[330] Ibidem, f. 92 , carteggio della prefettura.

[331] Ibidem,  f. 40, 41 e 44 , carteggio della prefettura.