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Luigi Nuzzo

 

Percorsi religiosi e strategie di dominio

tra l’Atlantico e il Mediterraneo

 agli inizi dell’età moderna

preprint di Percorsi religiosi e strategie di dominio tra Atlantico e Mediterraneo agli inizi dell'età moderna, in Michele Bernardini, Clara Borrelli, Anna Cerbo, Encarnacion Sanchez Garcia (a cura di), Europa e Islam tra i secoli 14th and 16th centuries, t. 1, Napoli 2002

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G,B, Tiepolo - Il nuovo continente

 

Luigi Nuzzo

 

Percorsi religiosi e strategie di dominio

tra l’Atlantico e il Mediterraneo

 agli inizi dell’età moderna

 

 

1. “Papel y buenas palabras” o dell’espropriazione del discorso

Nel XVI secolo il sapere giuridico cercò di costruire una rete di relazioni tra il sistema “ordinato”, e quindi civile, europeo, e quello “non ordinato” degli Oceani e delle Americhe, le nuove realtà libere dal diritto e da ogni valutazione morale e politica, espressione del primordiale stato di natura degli uomini. Si trattava di ripensare l’ordine spaziale medievale scosso dalla scoperta di un nuovo mondo, e di ridefinire i poteri delle autorità del pontefice e dell’imperatore in relazione alle nuove soggettività.

Dall’ampliamento degli orizzonti, dalla rivoluzione spaziale che ne conseguì derivarono, infatti, una trasformazione delle conoscenze scientifiche tradizionali, ma non il superamento “dell’elemento della somiglianza e delle immagini della similitudine”[1] che sostanziavano il pensiero e la coscienza intellettuale europea.

Per la prima volta nella storia lo spazio che si apriva dinanzi al­l’Europa era uno spazio libero che una volta inventum ricadeva natu­ralmente, come fosse una res nullius, nella sfera di dominium dell’oc­cupante; uno spazio libero, però, che necessitava di una regolamentazione o meglio di un disciplinamento geografico e politico-giuridico.[2] Si pensi alle linee di divisione del globo ispano-portoghesi, le rayas, e poi alle amity lines, le linee di amicizia franco-inglesi, libere da preoccupazioni teologiche cattoliche e informate da quella che Carl Schmitt definisce una “nuova religione di lotta”, il calvinismo.[3] Si ricordi innanzitutto la linea tracciata da Alessandro VI con l’editto Inter cetera divinae del 1493,[4] poi spostata con il trattato di Tordesillas del 1494 e integrata dal trattato di Saragozza del 1529, con la quale ha inizio la ripartizione del nuovo mondo tra le potenze europee e, parallelamente, la ricerca dei titoli giuridici atti a giustificarla e legittimarla.[5]

L’intervento del pontefice che donava, come feudi della chiesa, alla corona spagnola e a quella portoghese i territori delle Indie occi­dentali, segna con forza la persistenza dell’immagine tutta medievale della Respublica Christiana. Infatti, in questo immaginario teatro di guer­ra i due protagonisti principali si riconoscevano in virtù della loro cattolicità e attribuivano al pontefice, suprema autorità spirituale, il ruolo di arbiter dispensatore di giustizia. Il pontefice è dunque colui che con­ferisce gli incarichi di missione, fondamento giuridico della conquista ancora nella riflessione conclusiva di Solorzano Pereira, ma sopratutto è sempre a capo della societas humana universalis, che non implica più l’esistenza necessaria di un solo stato o impero, ma rappresenta l’idea attraverso cui razionalizzare l’espansione europea.[6]

Questa tensione razionalizzante, veicolata attraverso i classici circuiti culturali medievali, ci fornisce una prima chiave di lettura per leggere il rapporto tra vecchio e nuovo mondo: l’America e i suoi abitanti non potevano non essere compresi se non attraverso i paradigmi culturali che connotavano il sapere europeo e che costituivano gli unici strumenti a disposizione per classificare e comprendere quella realtà. La condizione dei primi osservatori delle Indie somigliava – ha scritto Pagden – a quella dell’indiano Kwakiutl che, una volta con­dotto a New York, si interessava ai pomi d’ottone delle scale, ai nani e alle donne barbute dei circhi, ma non alle automobili e ai grattacieli, simboli del progresso e della “civiltà”, del tutto estranei però al suo sistema di riferimento culturale.[7]

In questa tensione sistematizzante appare inevitabile il ricorso alla religione e alla tradizione biblica che rappresentavano la prima categoria culturale nel cui stampo si era forgiato il pensiero europeo e che potevano garantire ancora delle certezze utili a lenire l’ansia che il contatto con il “misterioso” mondo americano aveva prodotto.[8] Non deve stupire, dunque, la diffusione nel XVI secolo della tesi della discendenza adamitica anche degli abitanti del nuovo mondo e della loro conseguente appartenenza al ceppo giudaico cristiano,[9] né d’al­tronde il ricorso agli altri due grandi criteri ordinanti: la filosofia aristotelica e la tradizione giuridica romano-canonica.[10] Gli schemi concettuali del diritto comune, infatti, continuavano a rappresentare uno strumento di conoscenza indispensabile. Essi approdarono in America insieme ai primi conquistadores e, a chi li sapesse sapientemente manipolare, permettevano, in virtù della loro flessibilità e malleabilità, di costruire intorno alle nuove realtà una rete che imprigionasse il vissuto, depotenziando la pericolosità destabilizzante del nuovo, e le riconducesse all’interno dell’ordine di pensiero europeo.

Il rapporto dualistico ius commune-ius proprium, strutturato attra­verso la relazione lex generalis-lex particularis, si ripropone anche in America, ma si sostanzia di nuovi contenuti. La conquista di nuovi territori e il conseguente accrescimento del regno determinarono naturalmente anche l’estensione del corpo normativo castigliano, cioè di quel diritto comune nazionalizzato attraverso La ley de las Siete partidas (1265) e poi riconosciuto come fonte sussidiaria dall’Ordenamiento de Alcalá di Alfonso XI (1348).[11]

Questa rilettura della realtà americana attraverso l’armamentario concettuale giuridico-cristiano e il suo conseguente tentativo di disciplinamento trovarono nel Requerimiento la loro dichiarazione d’intenti, il loro manifesto.[12]

Il Requerimiento è un protocollo legale e un testo religioso al tempo stesso che gli Spagnoli avevano l’obbligo di leggere agli Indiani affinché il procedimento di conquista potesse essere considerato formalmente legittimo. Si tratta di un modello dalle origini antiche che, come vedremo, attraversa il tempo e lo spazio esprimendo, dal Mediterraneo all’Atlantico, identiche strategie di dominio e di controllo dell’anima. Come è noto, quale documento ufficiale, giunge nella “Castilla del Oro” soltanto con Pedrarias Dávila nel 1513,[13] e rappresenta, insieme con le Leyes de Burgos, il risultato di un grande dibattito, svoltosi proprio in quella città, sulla conquista e sulle crudeltà che ne erano seguite. Esso ebbe origine con le accuse lanciate dal frate domenicano Antonio Montesinos, la cui testimonianza scosse fortemente le coscienze cattoliche dei sovrani spagnoli e degli intellettuali più sensibili.[14] Così, prima che qualunque ostilità potesse essere intra­presa contro gli indigeni, questi dovevano essere informati dell’esi­stenza delle grandi autorità ordinanti, pontefice e imperatore, del sistema di valori della Respublica christiana e della possibilità di essere ammessi a farne parte. Solo la “follia” del rifiuto avrebbe permesso ai conquistadores di dichiarare loro guerra “por todas las partes y maneras”,[15] di impossessarsi dei loro beni e di distruggere le loro famiglie, liberandosi, nello stesso tempo, da ogni forma di responsabilità morale.

La storiografia più risalente si è lungamente affannata nella ricerca di chi realmente partecipò alla stesura di questo testo, finendo con individuarne in Palacios Rubios il principale artefice o quanto meno l’ispiratore.[16]

In realtà il problema di definire con certezza l’identità dei giuristi e dei teologi che “inventarono” il Requerimiento non sembra determinante. Confidando pure nella verità di quanto affermato da Las Casas ed accettando per comodità e convenzione le sue conclusioni,[17] è il contesto culturale giuridico e religioso della Spagna del XV-XVI secolo che informa di sé il contenuto di questo scritto; esso riflette un’epoca e la sua mentalità razionalizzando e quindi formalizzando, attraverso un’idonea veste giuridica, tutti quei processi di presa di possesso della terra americana che avevano avuto inizio con lo sbarco di Colombo.

Già nel diario del primo viaggio, l’Almirante ricorda che, una volta avvistata terra, “llamó a los capitanes y a los demás que saltaron en tierra, y a Rodrigo Sánchez de Segovia, y dixo que le diesen por fe y testimonio como él por ante todos tomava, como de hecho tomó, possessión de la dicha isla por el Rey e por la Reina sus señores, haziendo las protestaçiones que se requirían, como más largo se contiene en a los testimonios que allí se hizieron por escripto. Luego se ayuntá allí mucha gente de la isla”.[18] E ancora più chiaramente Michele da Cuneo, in una lettera a Geronimo Annari, racconta che, avendo egli scoperto una bellissima isola, Colombo “pose nome la bella saonese, et me ne fece uno presente, et sotto li modi et forme convenienti di ella presi la possessione como faceva el dicto signor Armirante de le altre/in persona de la maesta del Re, videlicet io per virtu de instrumento di notario publico, sopra la dicta ysola eradicai herba et tagliai arbori et piantai la croce et anchor le forche,/et a nome di Dio la batizai per nome la bella saonese”.[19]

La testimonianza che presenta maggiore interesse è però quella resa dallo stesso Pedrarias Davila all’atto di prendere possesso del­l’Isla de Flores il 29 gennaio del 1519. Si assiste in questo caso ad una rappresentazione decisamente più complessa, con un numero maggiore di protagonisti e affidata ad una regìa ormai attenta e consapevole delle aspettative e dei “gusti europei”.

La scena d’apertura è solenne: Davila e i suoi soldati sono in ginocchio davanti ad una bandiera bianca, simbolo della Vergine e della purezza della fede, e occupano il nuovo spazio con il suono delle loro trombe ed un’accorata invocazione alla Madonna nel cui nome si è svolta e si deve compiere ogni scoperta e ogni conversione.[20] Tuttavia, la dimensione religiosa e mistica che riempie la scena d’a­pertura, necessaria per introdurre il fondamento originario della conquista e per costituire “la giusta atmosfera” in cui avvolgere l’intero discorso, lascia rapidamente posto ad una rappresentazione più attenta al dato giuridico-politico e ai simboli di quella cultura.

Se infatti l’invocazione religiosa e i riferimenti ai compiti di conversione che spettavano agli Spagnoli erano necessari per giustificare all’esterno, cioè verso le altre potenze europee, l’espansione americana, la presenza degli scrivani, dei testimoni e le continue invocazioni della regina e del re, soddisfacevano al compito, forse più delicato, di garantire il comandante della spedizione che, verso la presa di possesso, non potessero essere avanzate obiezioni dall’interno del mondo spagnolo e che, quindi, fosse esclusa ogni ipotesi di una sua re­sponsabilità legale per inosservanza delle rigorose forme procedimen­tali o per essersi egli, semplice delegato, appropriato del capitale sim­bolico racchiuso nelle ritualità adempiute.[21]

Pur muovendoci sempre nell’ambito di sistemi ancora non differenziati in cui con estrema facilità si può passare dal piano religioso a quello giuridico o viceversa, la relazione di Davila sembra indicare che solo il diritto e la sua simbologia sono in grado di trasformare un qualunque territorio o una sperduta isola al di là degli oceani in “spazio giuridico”, di rappresentarli come oggetti giuridici, imponendo agli “altri” di considerarli come tali e, conseguentemente, di rispettare le regole e le forme che una tale qualifica comporta. Ma ancora, attraverso la costruzione dello spazio americano come “campo giuridico”[22] si tenta di comprendere e ridefinire in chiave europea quella realtà, disattivando la violenza fisica e simbolica che quei luoghi e i loro abitanti trasmettevano.

L’obiettivo che Davila si propone è di garantire effettivamente ai sovrani spagnoli e ai loro discendenti “la signoria, la proprietà, il dominio e un titolo valido” sull’isola. Per la sua realizzazione, tuttavia, era necessario che la dimensione “civile” della presa di possesso, quella cioè formalmente giuridica, costituita dalla redazione dell’atto pubblico in presenza dei testimoni e degli scrivani, si sostanziasse attraverso la creazione di un vincolo materiale con il territorio, di un legame che permettesse di ristabilire l’equilibrio e il rapporto originario che legava l’uomo alla terra. Il dominio sull’isola poteva essere costituito, e universalmente riconosciuto come valido, soltanto con una reale apprensione, con un effettivo contatto con l’isola stessa.[23] Davila dovette quindi tagliare alberi, rami ed erba, calpestare il terreno e, per sottolineare anche la continuità nel possesso, passeggiarci sopra.

I rituali del tomar possession in nome del re e della regina si svolgevano dunque attraverso un modello che rimase sostanzialmente identico nel tempo che prevedeva la redazione di un documento pubblico, il compimento di atti tipici alla presenza di testimoni, i cosiddetti autos de possession en forma e si concludeva con la (ri)denominazione del luogo scoperto.

La relazione di Davila introduce però, all’interno della simbologia delle prese di possesso, anche un altro elemento di particolare interesse. Si assiste in questo caso, infatti, ad una occupazione anche dello spazio acustico americano, cioè ad una invasione di voci e di suoni europei e alla loro sovrapposizione su quelli locali. All’invocazione e il ringraziamento rivolto alla Madonna, che abbiamo visto segnare la scena d’apertura, seguono, accompagnate sempre dal suono squillante delle trombe, quella laica di giubilo verso i sovrani “¡viva la Reina Doña Joana y el gran rey D. Carlos, su hijo, nuestros señores!” e quella “legale” attraverso la quale si rimarca l’appartenenza dell’isola alla corona di Castiglia: “Isla de Flores, tres veces, por la muy alta e muy esclarecida reina Doña Joana e por el rey D. Carlos, su hijo, nuestros señores, e despues dellos por sus subcesores”.[24]

Il documento in esame assume inoltre una particolare importanza anche per il ruolo che gli Indiani occupano in questa rappresentazione. Il cacique di Isla de Flores non è infatti un semplice e ottuso spettatore stordito dalle immagini di forza e magnificenza proiettate dagli Spagnoli al loro sbarco, ma è un Indiano a cui probabilmente è stato letto il Requerimiento, che ha accettato il sistema di valori della Respublica Christiana e ha ricevuto gli Spagnoli con amore e buona volontà. Egli si è aperto all’occidente cattolico e ai suoi ambasciatori, ha rifiu­tato metaforicamente la sua civiltà scegliendo per sé e per suo figlio dei nomi spagnoli.[25] Può quindi ricevere da loro i segni dell’inclu­sione: la bandiera reale e i rudimenti della fede cattolica.[26]

Una esigenza di normalizzazione percorre dunque anche i rituali della conquista. I sovrani spagnoli, per superare le distanze e le im­mensità dei nuovi territori e soprattutto nell’ansia di ricondurre anche i possidenti d’oltremare all’interno di una logica di centralizzazione assolutistica e burocratica, avevano bisogno di arginare l’anarchia istituzionale che essi stessi, sin dall’inizio dell’avventura americana, con le Capitulaciones de Santa Fe, avevano inevitabilmente contribuito a creare.[27] Dunque ogni iniziativa individuale era bandita, ogni nuova spedizione doveva essere autorizzata dai sovrani, nel loro nome si sa­rebbe compiuta ogni scoperta ed occupazione e attraverso il filtro della corona si sarebbero dovuti regolare i rapporti con “gli altri” che popolavano le Americhe.[28]

Le stesse Capitulaciones, che in origine dovevano essere contratti formali tra soggetti di rango diverso e che per questo prevedevano determinate formalità, furono reinterpretate dai sovrani spagnoli come atti graziosi o concessioni unilaterali. Ciò avrebbe determinato per la corona la ventaja de una superioridad jurídica que permitía revocar estas mercedes o capitulaciones, porque las nuevas ideas de la superioridad del monarca sobre la legislación positiva le daba facultad de reformar y rehacer la legislación cuando le convenía o, a lo menos, cuando podía alegar el bien público”.[29]

Anche il Requerimiento deve essere letto allora come una delle prime espressioni delle strategie del potere imperiale in America, una sua rappresentazione simbolica o meglio una manifestazione del suo voler esserci. Un potere simbolico a cui, riprendendo quanto scrive Pierre Bourdieu, si attribuisce il compito di “constituer le donné par l’énonciation, de faire voir et de faire croire, de confirmer ou de transformer la vision du monde et, par là, l’action sur le monde, donc le monde, pouvoir quasi magique qui permet d’obtenir l’equivalent de ce qui est obtenu par la force (physique ou économique), grâce à l’effect spécifique de mobilitasion, ne s’exerce que s’il est reconnu, c’est-à-dire méconnu comme arbitraire”.[30]

Tuttavia, nonostante questa affermazione di sé e dell’esistenza del proprio potere, che si traduceva in una enorme mole di documenti, dispacci e ordinanze e che mirava a disciplinare ogni aspetto della vi­ta e delle istituzioni americane, esprimesse un livello sia pure minimo di realtà, la forma non si traduceva necessariamente in sostanza, l’im­magine era spesso priva di contenuti; né, d’altra parte, si potrebbe ri­tenere che le stesse istituzioni americane, come pure la chiesa e gli ordini religiosi ammessi ed operanti nelle Indie, svolgessero sempre un’attività disciplinante funzionale agli obiettivi di accentramento burocratico e assolutista perseguiti dalla corona. Ma soprattutto, l’auto­rità e il potere imperiale subivano anche l’erosione disgregante e l’o­pacizzazione della loro immagine ad opera della molteplicità dei centri di potere esistenti in America. Si tratta di micropoteri, p.e. encomen­deros, proprietari terrieri e di miniere, che esprimevano una tensione verso il superamento del modello giuridico di sovranità (sovrano-suddito) e del paradigma classico della legalità (centro-sovranità-nor­ma)[31] a vantaggio di un discorso politico che, alle categorie della sovranità e dell’obbedienza, sostituiva quelle della dominazione e del­l’assoggettamento, e che dunque spostava l’attenzione verso “gli operatori materiali, le forme di assoggettamento, le connessioni e le utilizzazioni dei sistemi locali dell’assoggettamento, i dispositivi strategici”.[32] Essi, come è stato recentemente sottolineato, si raccordavano, attraverso redes sociales, ai macropoteri presenti in America o in Spagna (audiencias, Consiglio delle Indie, Casa de contratación), fungendo da filtro del potere stesso e permettendo la sua circolarità dal centro fino alle periferie e viceversa,[33] ma, d’altra parte, proprio la loro molteplicità, diffusione, vitalità ed anche conflittualità costituiscono il limite all’utilizzo delle tesi foucaultiane per la lettura della realtà americana in chiave “statualistica”: questi centri di potere non appaiono infatti riconducibili ad un minimo comun denominatore e ad un unico discorso sul potere.[34]

Pur non intendendo interpretarli come mere forze di resistenza passiva al processo di accentramento e monopolizzazione del potere e riconoscendo altresì la possibilità di un’articolazione geopolitica all’interno dello stato,[35] questi micropoteri si presentano come proiezioni di un immaginario premoderno ancora fortemente feudale in cui le relazioni umane, come quelle tra poteri e istituzioni, non si svolgono secondo justitia, ma si strutturano attraverso le categorie della grazia e del beneficio e sono regolate da donazioni remune­ratorie o obbligazioni antidorali, obbligazioni, cioè, non obbligatorie e non propriamente giuridiche, ma che, proprio per questo, sono in grado di creare dei vincoli sociali ancor più saldi e durevoli di quelli che il diritto e una logica statale potrebbero assicurare.[36]

In realtà, solo impropriamente si può parlare di donazione con riferimento alla donazione remuneratoria risultando più opportuno attribuirle, con Saavedra, la qualifica di compensatio, satisfatio, permutatio.[37] Non è infatti in un atto di liberalità che va cercata la sua origine, ma piuttosto in un obbligo preesistente, in una dazione motivata non giuridicamente ma moralmente, che attiva una rete di scambi assolutamente non libera, ma rigidamente regolata dalle convenzioni religiose e sociali, strutturata in maniera proporzionale al rango e al ruolo che donante e donatario occupano nella società e munita di un proprio apparato sanzionatorio, un sistema, dunque, in cui chi ha ricevuto un beneficio è tenuto naturalmente all’antidora, cioè è tenuto ex gratitudine compensare beneficium.[38]

Le obbligazioni antidorali o donazioni remuneratorie rappresentano un punto di osservazione privilegiato per la comprensione del sistema culturale di antico regime in cui l’universo giuridico è costituito da elementi non solo normativi, ma anche attinenti alle sfere della religione e della moralità, ordini superiori che ne condizionano e limitano l’ambito di operatività. Non si è giuridicamente tenuti a dare, a ricevere, a restituire, ma si è ugualmente obbligati. Una forza superiore, un vincolo più stringente, perché pregiuridico, avvolgono il donante e il donatario e impongono l’adempimento di questo debito morale. Si assiste così al paradosso di una “liberalità vincolata, di un’obbligazione non obbligatoria”,[39] dove, il carattere di liberalità che deve informare le attività di questi soggetti non viene del tutto meno, ma risulta disciplinato e strutturato, quasi giuridicamente, attraverso le categorie della liberalità, carità, amicizia e grazia, in una rete di rapporti e di relazioni sociali e politiche.[40]

Se dunque il ricorso esclusivo a categorie statali non permette una completa comprensione delle relazioni che, attraverso “grazia e privilegio”, si stabiliscono tra apparati e istituzioni del “centro” spagnolo e della “periferia” americana, più proficuo, anche ai fini del nostro discorso, risulta la loro integrazione con quella che Petit definisce la categoria divina.[41]

Il 1492 segna infatti il trionfo dell’Europa cristiana e il definitivo delinearsi di un “imperialismo” cristiano. Ad un’unica logica sono informate sia la Reconquista della Spagna musulmana e la cacciata dei Moriscos,[42] sia l’occupazione delle Canarie e la stessa impresa in terra americana, una logica che sarebbe riduttivo ritenere esprimesse esclusivamente una volontà di dominio militare.[43] Essa infatti è razionalizzata e veicolata dall’idea religiosa, nonché rafforzata dalla convinzione della superiorità del dio cattolico sulle altre fedi.

Sembra necessario dunque liberarsi da categorie “eccessivamente” moderne e rileggere il Requerimiento tenendo in un’opportuna considerazione i condizionamenti teologici e religiosi ancora effettivamente operanti; ciò permette di scoprire, accanto alla tradizione canonistica classica, la presenza di influenze e tradizioni apparentemente lontanissime, addirittura “altre” rispetto alla stessa ideologia cattolica dell’impero spagnolo, e consente d’altra parte una maggiore comprensione degli stessi obiettivi di “statalizzazione” e legittimazione perseguiti dalla corona anche attraverso l’utilizzazione strumentale di categorie e finalità religiose, sia verso l’interno, e cioè nei confronti di quei poteri a cui si è fatto riferimento, sia verso l’esterno, e cioè verso le altre potenze europee.

Fortemente condizionato dalle riflessioni della canonistica più intransigente, il Requerimiento accoglieva il principio della superiorità spirituale e temporale del papa su tutte le genti, “moriscos, judios, gentiles y de qualquier otra seta o creençia que fuesen”,[44] e, conseguenzialmente, di una sua responsabilità per la salvezza delle anime di tutti costoro.

La Chiesa, a cui spettavano anche le terre americane per l’infinita signoria di San Pietro su tutto l’universo, le aveva poi concesse con todo lo que en ellas ay, come suoi feudi, ai sovrani spagnoli, affidando loro il compito della diffusione della fede, dei valori cattolici e della conversione degli Indiani.[45]

Anche la regolamentazione dei rapporti fra le più alte autorità del mondo cattolico non può sfuggire, dunque, alla forza condizionante di quello schema premoderno, fondato sulla grazia e sul beneficio, che abbiamo già visto costituire la rete dei vincoli sociali e strutturare le relazioni tra i diversi centri di potere dell’impero spagnolo. Non è infatti un immaginario rapporto obbligatorio antidorale quello che si stabilisce tra il sovrano e Dio? Anche in questo caso vi è una conces­sione “graziosa” che legittima l’esercizio del dominio e della sovranità e nello stesso tempo fonda la corrispondente obbligazione di far conoscere, in terre remote e a genti lontane, la parola di Cristo. Il sovrano spagnolo è parte di un rapporto obbligatorio, quindi, a fronte dell’immenso dono ricevuto da Dio, ha il dovere morale di eseguire una prestazione verso di Lui e ne è consapevole. Scriverà, infatti, Carlo V, in una lettera del 1543 indirizzata a “los Reyes y Republicas de la tierras del medio dia y del poniente”, che “nos tenemos mas obligacion que otro ningun Principe del mundo a procurar su servicio, y la gloria de su nombre, empleando todas las fuerças y poder que el nos ha dado, en trabajar que sea conocido y adorado en todo el mundo por veradero Dios, como lo es, y Criador de todo lo visible e invisible”.[46]

Una violenza “dolce” percorre inizialmente il Requerimiento. Questo testo infatti deve mettere in contatto due mondi lontani e diversi, illustrare soggetti e forme dell’occidente cristiano, favorire l’esporta­zione di questo modello e il desiderio di essere ammessi a farne parte. Si offrono dunque amore, carità e addirittura privilegios y esenciones qualora gli Indiani, “informati della verità”, si fossero sottomessi e poi convertiti liberamente al cattolicesimo.[47] Ma poi d’improvviso si muta registro, la rappresentazione si offusca e all’immagine di libertà, proprietà e serenità famigliare che si faceva intravedere si sostituisce un cupo scenario di distruzione e di morte e si annunzia la guerra, “finalmente” giusta, del Vecchio Testamento contro coloro che hanno rifiutato l’ordine cristiano e, pur avendone avuto la possibilità, la parola di Cristo. Giogo, obbedienza, schiavitù, povertà divengono i nuovi valori.[48]

Il Requerimiento, sin dalla nota critica di Las Casas,[49] è apparso come un documento paradossale, folle nel suo rivolgersi a soggetti che non erano assolutamente in grado di capirlo; “a strange blend of ritual, cynism, legal fiction, and perverse idealism”, lo ha definito Stephen Greenblatt, fondato sulla convinzione che, in considerazione dell’origine comune di tutti gli uomini, non esistessero barriere linguistiche tra gli Europei e Indiani.[50]

Il problema delle forme e degli strumenti di comunicazione, e contestualmente l’emersione di una colonizzazione anche linguistica, ha affascinato a lungo linguisti e semiologi che, di fronte a questo “diabolico” e nello stesso tempo “raffinato” documento, per usare sempre delle espressioni di Greenblatt, non hanno potuto non manifestare un grande stupore. È evidente infatti che la sua lettura, ritual­mente imposta, si rivolgeva ad un pubblico non solo muto, ma anche sordo e a nulla rilevava l’incapacità dei destinatari di coglierne il significato.

Se tuttavia il sistema di rappresentazione per noi più immediato, il linguaggio, non era in grado di strutturare una rete di relazioni tra i due popoli e di trasmettere dei messaggi biunivocamente intellegibili, un migliore risultato, anch’esso però non privo a volte di gravi incon­venienti,[51] si poteva sperare di ottenere con il ricorso ad altri canali comunicativi, quali il corpo e la sua gestualità, il dono e il baratto,[52] il rituale e il suo simbolismo.[53]

Con riferimento dunque allo straordinario esempio offerto dal Requerimiento, il linguaggio o meglio le parole del testo, lette dall’uffi­ciale spagnolo di turno, erano prive di un loro reale significato, ma possedevano la forza di tanti “simboli significanti” che riprendevano le antiche ritualità, che avevano accompagnato le prime prese di possesso nelle Indie, e le strutturavano in un “sistema simbolico”, affermandone la superiorità sulle rappresentazioni di sé e del proprio potere che gli Indiani potevano costruire e legittimando così il dominio spagnolo.[54]

Insieme ad una “tecnologia degli utensili” gli Spagnoli esportano in America anche il simbolismo tecnologico della scrittura, altrettanto importante nel processo della conquista per la consapevolezza della superiorità culturale e religiosa europea che il possesso delle lettere e delle parole infondeva, e per la definizione del modello classico di colonialismo fondato su un rapporto relazionale di tipo gerarchico fra chi esercita il potere e chi lo subisce, tra chi legge e chi ascolta.[55]

Se la comunicazione non passava attraverso la parola (“preguntá­vales el Almirante, y ellos respondían, pero no se entendían”),[56] que­sta poteva recuperare valore nel suo essere significante, e cioè nella forza evocativa che la voce del testo, accompagnata anche dagli altri simboli immaginifici del potere (le croci, gli archibugi, i cavalli, etc.), possedeva e trasmetteva.

In tal modo si assiste alla trasformazione del Requerimiento in un testo orale “un atto di comunicazione attiva e complessa, [che] riunisce più codici e conosce innumerevoli varianti, mette in gioco regole comunicative più articolate di quelle presenti nei trattati di Palacios Rubios e Matias de Paz”,[57] ma che spezza – sempre secondo Silvia Benso – nel momento della lettura, il modello circolare di comunica­zione in cui “un emittente impone ad un destinatario una scelta e ne richiede una risposta, risposta che a sua volta influenzerà il comportamento dell’emittente”, negandosi una qualunque rilevanza alla decisione degli Indios.[58]

In realtà i processi relazionali che il Requerimiento stabiliva con le popolazioni indigene escludevano la necessità di una comprensione reale del messaggio, essa era del tutto irrilevante tanto che la stessa presenza di un interprete, in seguito determinante per il successo della conquista del Messico ad opera di Cortés, non era frequente in questa prima fase di espansione coloniale.

Ma anche al di là della assenza o presenza dell’interprete, le finalità informative perseguite da questo documento non risiedono nell’in­staurazione del modello comunicativo circolare a cui Benso fa riferimento, né conseguentemente la mancanza di una risposta costituisce un aspetto patologico; le parole del Requerimiento e il loro suono si liberano del loro reale significato e rappresentano tanti tasselli di una costruzione simbolica che ugualmente produceva effetti, cioè trasmetteva un messaggio ed instaurava una comunicazione anche con “esseri bestiali”, pur in assenza di un’effettiva comprensione del testo.

Accanto agli Indiani e all’instaurazione di un canale comunicativo con loro, il Requerimiento si rivolgeva però anche ad altri destinatari e perseguiva altri e più importanti scopi informativi. Si potrebbe arrivare addirittura ad affermare, infatti, che i popoli nativi non erano i diretti interlocutori, ma solo gli ultimi e inevitabili destinatari di un messaggio che, da una parte, si rivolgeva ai conquistadores spagnoli e a quei poteri locali che svolgevano spesso politiche autonome e perseguivano finalità conflittuali con gli interessi della corona e, dall’al­tra, era letto in Europa alle altre potenze interessate all’espansione oltre oceano.

Si trattava dunque, come si è già detto, di una rappresentazione simbolica del potere imperiale che plasmava l’immagine della sovranità e della grandezza del re ed era parte di un più ampio processo di razionalizzazione dei procedimenti di conquista e colonizzazione articolato attra­verso un controllo stringente sul clero e sull’attività degli ordini religiosi,[59] il riordino, per quel che era possibile, delle strutture giudizia-­
rie,[60] e infine un ripensamento del ruolo che i possedimenti d’oltre­mare avrebbero dovuto occupare all’interno dell’impero.[61]

Tuttavia i tentativi di una definizione in chiave statualistica dei nuovi possedimenti e dei rapporti tra questi e la madrepatria richiedevano sempre la mediazione dell’elemento religioso; non si deve dimenticare infatti che la signoria sulle Indie era stata concessa a Ferdinando e Isabella per diffondere la parola di Cristo e convertire gli infedeli, ed essi si erano assunti solennemente questo impegno dinanzi al papa e a tutta la cristianità.

Se è vero dunque che le nazioni sono narrazioni, nel senso gramsciano di elaborazioni culturali,[62] il racconto della formazione della nazione spagnola, quale emerge dai testi sulla conquista, si fonda sul dato religioso ed è da questo legittimato ed esportato.

Il fine religioso non è nient’altro che quell’idea di cui parlava Joseph Conrad in Cuore di Tenebra, necessaria per sostenere e riscattare le spoliazioni materiali “a chi ha un colore della pelle diverso dal nostro o il naso leggermente più schiacciato”[63] e giustificarle di fronte agli altri protagonisti della politica internazionale.

Il Requerimiento assorbe questo modello culturale/religioso,[64] su di esso edifica una vera e propria ideologia della colonizzazione dotata di un suo linguaggio di retorica giustificazionista e di strategie discorsive che saranno determinanti per la formazione di una modernità statale e per l’emersione di un’idea di nazione. Colonialismo e nazio­nalismo sono infatti “underwritten by the development of national language, nationalist histories, and national myths of universal kingship”.[65]

Il testo giuridico, qual’è anche il Requerimiento, pur senza le sovrastrutture degli altri testi letterari sulla conquista, partecipa al processo di formazione di una opinione pubblica e di un consenso sul progetto coloniale e contribuisce alla definizione di una identità nazionale e culturale. “The colonization of America – nota giustamente Geesa Mackenthum – was accompanied by, and in turn accelerated, the process of ideological homogenization in Europe by providing new opportunities for cultural and national self-definition in the face of the “savagery” of the Native Americans – an ideology that was added to, and complemented by, the domestic ideologies that Christian Europe had developed in relation to its internal others”.[66]

 

2. Conquistadores e “Coccodrilli”: un discorso comune?

Il Requerimiento è un protocollo legale, un atto notarile, formale e prescrittivo, ma è anche un testo religioso dove l’obbedienza e la sottomissione richieste travalicano la dimensione politico-legale, cioè la trasformazione degli Indiani in vassalli della corona, e investono direttamente l’anima e quindi impongono l’accettazione spontanea del cattolicesimo e il riconoscimento dell’autorità del pontefice.

Dunque un testo totale, religioso e giuridico, o meglio giuridicamente religioso che, attraverso una costruzione legale e una forte struttura formale, può affermare la supremazia di una fede e di una monarchia e che, proprio perché religioso e destinato alla regolamentazione dei rapporti con “gli altri”, ha un’origine antica costituendo uno schema ricorrente anche nella religione ebraica e in quella islamica.

L’archetipo originario del messaggio, poi ripreso dal documento spagnolo, ed una sostanziale somiglianza nell’immaginario evocato, si possono individuare già nel Vecchio Testamento e nel Corano.

Nel Deuteronomio si prescrive infatti che, avvicinandosi ad una città nemica, gli Ebrei debbano offrire innanzitutto la pace e, se essa verrà accettata, si instaurerà un sistema di dominazione economico e politico in cui il popolo sottomesso sarà tenuto all’esecuzione di prestazioni e tributi; qualora invece sia rifiutata, l’attacco diverrà legittimo ed ogni violenza giustificata. “Jahve – ricorda Mosè – tuo Dio la metterà nelle tue mani. Colpirai a fil di spada ogni suo maschio, mentre catturerai per te le donne, i bambini, il bestiame, quanto ci sarà nella città, tutto il suo bottino; godrai del bottino dei tuoi nemici che ti avra concesso Jahve tuo Dio. Farai così alle città molto lontane da te, quelle che non sono tra le città di queste nazioni. Non lascerai in vita alito alcuno soltanto tra le città di questi popoli che Jahve tuo Dio sta per assegnarti in eredità” (Deut. 20, 10-16).

Ciò che si cercherebbe invano nella Bibbia è, invece, un qualunque riferimento ad una politica di espansione religiosa, il cui fine ultimo non sia soltanto la mera sottomissione politica ed economica degli altri popoli, ma la conversione degli infedeli e la diffusione della parola di Dio. Questo è il dato che differenzia, nell’ambito della regolamentazione dei rapporti con i non credenti, la religione ebraica dalla cattolica e dalla islamica

Gli Ebrei sono infatti il popolo eletto e scelto da Dio. Questa consacrazione divina e l’enorme amore che “gratuitamente” Jahve riversa sul suo popolo, costituiscono il naturale sostegno spirituale per la vittoria e la conquista della terra promessa, ma escludono un qualunque interesse verso un’attività di proselitismo e quindi di contatto con l’altro.[67] “Non stringerai nessun patto con esse né userai misericordia verso di esse”, ricorda Mosè parlando delle città che gli Ebrei incontreranno nel loro cammino, anzi egli impone alla sua gente la distruzione dei simboli sacrileghi e degli idoli pagani a cui sono devoti i nemici. “Tu infatti – continua – sei un popolo consacrato a Jahve tuo Dio e Jahve ti ha scelto affinché tra tutti i popoli che sono sulla faccia della terra tu sia un popolo particolarmente suo [Deut. 7,1-6]. Tu dunque divorerai tutti i popoli che Jahve tuo Dio sta per consegnarti: il tuo occhio non avrà misericordia di essi e non renderai culto ai loro Dei” (Deut, 7,16).

Nel Corano e nella letteratura araba l’obiettivo finale diviene più ambizioso, si definisce infatti il progetto di affermazione dell’Islam come religione universale e congiuntamente di edificazione di uno stato islamico universale. L’Islam appartiene all’intero genere umano e la comunità islamica ha l’obbligo di combattere per la diffusione della Verità e di sconfiggere gli altri culti (Cor. IX, 33).

La guerra (jih…d) è dunque giusta perché strumento necessario per la realizzazione di questo progetto; essa possiede una grande forza ordinante che esplica i suoi effetti sia all’interno della regione arabica, sia al di là dei suoi confini.[68]Infatti, con il divieto di ogni forma di conflitto nel territorio islamico, la violenza fluida, ormai repressa, degli scontri tribali, delle faide e delle vendette può compattarsi e trovare il suo sfogo verso l’esterno, cioè verso il mondo non ancora raggiunto dalla parola di Allah, assicurando, attraverso questa interna tensione disciplinante, la sopravvivenza stessa dello stato islamico e la sua forza espansiva.[69]

Nella rappresentazione musulmana dell’ordinamento spaziale globale si contrappongono, quindi, una zona di pace, disciplinata e pacificata, sottoposta alla legge islamica (d…r al-isl…m) ed un’altra, territorio di guerra (d…r al-|arb) e regno del disordine e del caos, dove invece la šar†‘a non è ancora applicata.[70]

Un’immaginaria linea corre lungo i confini dei due ordinamenti e separa chi è dentro da chi è fuori, i credenti dagli infedeli, ma, nello stesso tempo, ciò che divide è anche criterio di inclusione: l’accetta­zione dell’Islam infatti sposta più in là i confini del d…r al-isl…m e trasforma la natura dello spazio e quella di chi lo vive.

Sebbene sia ancora lontano il tentativo di Alessandro VI di “dare una nuova forma fisica allo spazio”[71] e di fornire attraverso le mappe cartografiche un’interpretazione ufficiale e incontestabile dello stesso, la religione, anche nella riflessione islamica, appare metro di misurazione dello spazio e strumento insostituibile per la sua lettura e per la sua subordinazione ad un unico potere.

Un rigoroso formalismo regolava però la procedura da seguire affinché la guerra potesse essere dichiarata. Pur sussistendo infatti profonde differenze tra le scuole giuridiche islamiche sviluppatesi dopo la morte del profeta, tutte concordavano sulla necessità che un messaggero facesse conoscere, come già i profeti avevano fatto, la religione islamica ai “miscredenti”, dando così loro la possibilità di convertirsi.[72]

“E non mandammo nessun Messaggero che non parlasse nella lingua del suo popolo, che spiegasse loro le cose” (Cor. XIV, 4), si legge nella Sura di Abramo, e poi si ricorda, nella Sura del viaggio notturno, che “Noi non castigammo mai senza aver inviato un Messaggero Divino” (Cor. XVII, 15). Dunque solo la sordità ad ogni monito che viene loro da Dio (Cor. XXVI, 5) e la “follia” del rifiuto, aggravata dalla precedente o contestuale resistenza ad una sottomissione anche soltanto economica e politica,[73] avrebbe permesso e “giustificato” la più dura delle reazioni. Nessuna pietà avrebbero infatti meritato quei popoli che non ascoltarono le parole dell’inviato di Allah e non vollero vedere i “chiari segni” che egli mostrava loro.[74]

Il rispetto di questa procedura emerge sul piano dottrinale, nei trattati che i giuristi dedicano all’argomento, ma anche nella concreta regolamentazione dei rapporti tra la Cristianità e l’Islam.

Gli esempi possono essere diversi, ma mi sembra interessante, per la contestualità temporale, per la capacità della “microstoria” di illuminare talvolta i grandi eventi e, soprattutto, per la chiarezza con cui si evidenzia la circolarità, dal Mediterraneo all’Atlantico, di modelli giuridico-religiosi e di strategie di dominio, il caso di Otranto.

Soltanto dodici anni prima della scoperta dell’America e delle nuove soggettività, i Turchi, pessimum genus hominum, anche per una serie di fortuite coincidenze di politica internazionale, riuscivano a sbarcare sull’estremo lembo orientale della Puglia ed ad occupare rapidamente la città di Otranto.[75] L’evento, che si inserisce nella politica espansionistica di Maometto II,[76] pur se circoscritto geograficamente e temporalmente, ebbe tuttavia un’eco vastissima nell’Occi­dente cristiano e determinò la proclamazione di una crociata contro i Turchi.[77]

Sisto IV, già pochi giorni prima della resa di Otranto, aveva esorta­to la cristianità alla guerra contro gli invasori[78] e si era poi impegnato a assicurare al re di Napoli il sostegno economico e militare degli altri principi italiani,[79] invitandoli a dimenticare e a superare, in una tregua triennale, gli odi e le rivalità reciproche.[80]

Esse sono definite privatae, una qualifica attraverso cui egli sembra voler rimarcare l’appartenenza dei singoli regni italiani alla Respublica Christiana, quasi privandoli della loro soggettività ed autonomia, e ritornare ad attribuire al pontefice una capacità ordinante nei rapporti tra gli ordinamenti temporali. Il carattere pubblicistico riconosciuto alle guerre dichiarate da un sovrano legittimo,[81] di fronte all’immenso pericolo che la cristianità tutta correva, si perde ed esse ritornano ad essere privatae e quindi illecite al pari di aggressioni e rappresaglie baronali.[82] Quello che si prospettava era, dunque, uno scontro di civiltà che avrebbe portato, se non ci fosse stato un pronto intervento di tutti i principi cristiani e se “in solita negligentia atque desidia perseveraverint: se ipsos et rempublicam christianam perderent”.[83]

Pur nell’assenza di un documento che, come il Requerimiento, enunciasse con uguale formalismo legale le richieste e le prescrizioni dovute e descrivesse l’Islam con la stessa forza barocca con cui il testo spagnolo affermava la grandezza della chiesa e del pontefice romano, si può individuare, nella rappresentazione del discorso turco della conquista, un analogo sentire e la strutturazione di un modello comunicativo che procede secondo un schema per molti aspetti simile.[84]

La storiografia turca del XV e XVI secolo non dedicò molto spa­zio alla vicenda otrantina e, come si è accertato recentemente, negli stessi archivi turchi vi è un numero molto limitato di fonti documentali.[85]

Un’importante eccezione è rappresentata però, dalle Cronache della Dinastia ottomana, grandioso affresco di storia ottomana, commissionata a ×bn Kem…l dal sultano B…yez†d II. La narrazione della conquista di Otranto di ×bn Kem…l colpisce per la straordinaria forza immaginifica. È infatti un racconto cinematografico, una storia costruita per immagini e per metafore. Otranto e la Puglia sono luoghi incantati, quasi sospesi tra una dimensione reale ed una onirica, dove “ogni angolo è pieno d’oro e di argento, simile ad una sorgente mineraria colma di gioielli” e dove uomini e donne “avevano visi più puliti delle acque, e degli occhi fonti di bellezza, e di cui era impossibile stimare il valore”. I guerrieri turchi si sono trasformati in “coccodrilli”, le navi, “grandi un mondo” e “più di cento”, hanno trasformato il Mediterraneo in una “pianura marina”, e con le loro vele, “bandiere rischiaratrici delle tenebre”, hanno oscurato la volta del cielo e impedito il passaggio dei raggi del sole.[86]

Una volta raggiunta terra, A|mad,[87] comandante della spedizione, cinta d’assedio la città e prima di iniziare i bombardamenti, in ottemperanza alle prescrizioni coraniche, inviò agli Otrantini un nunzio, il quale “fece chiamare, adomandandoli prima salva condotto, quanto gli parlava, de non trare supra la fede nostra” e se “si voleva rendere di bona voglia li faria salve le persone a tuti”.[88] Le sue parole non contenevano direttamente un messaggio di fede o una richiesta di conversione, mirando, piuttosto, ad ottenere il riconoscimento del­l’autorità di Maometto e del dominio turco sulla città. Questo avrebbe permesso loro di “potersene andare con le loro fameglie, Moglie e Figli, dove li piacesse, E se si volessero restare nella città, sotto il do­minio del suo Signore ch’esso li tratteria molto bene, come li altri sudditi, che hanno nelli loro Paesi”.[89]

Anche Michele Martiano, dottore in utroque iure del XVI secolo, in una opera presentata come traduzione del più antico e mai ritrovato De bello Hidruntyno del De Ferraris, accenna al tentativo di Achmet di “haver la città per patti” e che la proposta, in ragione delle difficili condizioni nelle quali gli assediati si trovavano, non era del tutto disprezzabile. Ciò che i Turchi chiedevano si limitava infatti al giuramento di fedeltà verso Maometto e all’accettazione di “un giusto presidio”.[90]

La volontà di dilatare l’ordinamento spaziale musulmano, ricomprendendo nel d…r al-isl…m la terra d’Otranto, e la costante operatività dei paradigmi inclusione/esclusione hanno un’ulteriore conferma dalla lettera che A|mad invia a Francesco De Arenis, arcivescovo di Brindisi e reggente dei territori di Bari e Lecce,[91] per chiarire ulteriormente quanto già aveva detto ad “uno che loro mandò al Bassa” e al quale “donò certi vestimenti, et fecili grande careze”.[92]

Un significativo “io requido” introduce il sistema comunicativo che si instaura tra musulmani e cristiani. La voce è forte e perentoria: “Io voglio la terra, perché io son venuto qui, che lo mio signore vole lo paese del Principe che non è principe loro”, ma vuole essere anche dolcemente persuasiva: “Io ve la domando di bona voglia et per la testa del gran Sig.re et per la testa mia, et Si Dio me varente uno solo figlio che ho, non abbiate inguna paura sopra la mia testa, et per quello che me ha creato, quello se fa per tucto lo paese del gran Sig.re, io farò per vui”.[93]

Ma l’immagine d’amore e di carità si dissolve rapidamente, lasciando spazio a quella rappresentazione di “fuoco, ruina, distruzione e morte”[94] che era stata già prospettata nel momento in cui gli Otrantini avevano rifiutato per la seconda volta le offerte dell’ambasciatore turco e avevano “permesso” che Otranto si trasformasse in d…r al-|arb, cioè in territorio di guerra.[95]

Torniamo ora al Requerimiento e alle regole di formazione che reg­gono la sua struttura discorsiva.[96] Quelle che attengono ai meccanismi di autorappresentazione e riproduzione del potere si articolano secondo un sistema che può essere semplificato secondo l’ordine seguente:

 

cattolicesimo ®

pontefice ®

sovrani spagnoli ®

Pedrarias Davila

(Requerimiento)

Quelle che invece più direttamente costruiscono il sistema comunicativo tra Indiani e Spagnoli si svolgono per il tramite del paradigma inclusione/esclusione e cioè:

inclusione

esclusione

¯

¯

accettazione

dominio spagnolo

rifiuto

dominio spagnolo

e

e

riconoscimento supremazia

della fede cattolica

negazione superiorità

della fede cattolica

¯

¯

amore, carità

libertà, proprietà

guerra, obbedienza

schiavitù, spossessamento

Mi sembra evidente, allora, che i medesimi criteri di inclusione/e­sclusione strutturino, sia le relazioni musulmano-cristiane, sia quelle tra Cristiani e Indiani e che i due sistemi siano regolati da un analogo circuito di organizzazione e riproduzione del potere, che nel caso ottomano parte dall’islamismo e poi, attraverso Maometto II (massima autorità laica e religiosa), giunge fino ad A|mad Gedik.

L’idea religiosa, tuttavia, per svolgere in profondità quella funzione ordinante, verso l’interno e verso l’esterno dei sistemi religiosi di riferimento, su cui si è insistito nelle pagine precedenti, doveva recuperare e raggiungere il suo presupposto originario e obiettivo ultimo, cioè la conversione degli infedeli. Ed infatti, nella consapevolezza che solo attraverso la disciplina dell’anima il controllo esercitato sarebbe potuto essere totale, la parte inclusiva delle due narrazioni si conclude con la concessione della possibilità di aderire alla vera fede. “Y no vos conpeleran a que vos torneys xpianos – si legge nel Requerimiento – salvo sy vosotros, ynformados de la verdad, os quisierdes convertir a nuestra santa fee catolica, como lo han hecho casy todos los vecinos de las otras yslas, y allende desto, Su alteza vos dara muchos privilegios y esenciones, y vos hara muchas mercedes”.[97]

Nella strategia discorsiva turca, tuttavia, il riconoscimento della saldezza del sistema religioso cattolico e la sostanziale parità tra la posizione di chi parlava e quella di chi ascoltava (dotato in questo caso anche di voce), imponevano una particolare attenzione al dato formale attraverso cui il messaggio doveva arrivare agli ascoltatori. Si era consapevoli infatti di non trovarsi di fronte al culto di “poveri idoli” facilmente sostituibili, ma a una religione che, per quanto falsa, aveva lo stesso carattere universale e ordinante dell’Islam.

Significativamente dunque la voce particolarmente suadente e persuasiva che, una volta conquistata la città, invita gli sconfitti, nel rispetto delle prescrizioni coraniche,[98] a far parte del mondo islamico e ad abbracciare la fede musulmana, è quella di un cristiano convertito.[99] La sua originaria cristianità avrebbe potuto stabilire un effettivo canale comunicativo tra Ottomani e Otrantini, e avrebbe avuto l’effetto di rendere certamente credibile quell’avvolgente fratelli miei con cui il suo discorso si apriva. Egli è uno di loro, può capirli, interpretare le loro paure e i loro sentimenti, ma nello stesso tempo la scoperta della vera fede e l’aver riconosciuto il suo errore rende più forte la sua rappresentazione e definisce l’immagine vincente del Dio islamico.[100]

La risposta, affidata, nella narrazione del Laggetto, ad un anziano della città, mastro Antonio Primaldo, fu ferma. Aprendo anch’egli il suo discorso con quel “Fratelli miei” che i suoi concittadini avevano udito poco prima dalla voce suadente del “cristiano rinnegato”, quasi a voler rivendicare l’originarietà e l’esclusività del rapporto che lo legava a loro, disse “hor che avesse inteso la volontà del Bassà, ed il parlar di questo turco, qual è che Noi vogliamo rineghiare la fede di Christo Benedetto e così Voi priego per amor suo, che intrepidamen­te, e senza paura vogliamo morire per amor di Christo, si come la Maestà volesse morir per noi”.[101]

L’accettazione del martirio, epilogo annunciato, costituì lo strumento per la vittoria della fede cattolica e per la sua autoriproduzione. I martiri, attraverso un lungo processo canonico, furono beatificati, il loro sacrificio, quindi, formalizzato e suggellato dal riconoscimento legale, e le loro reliquie esposte alle preghiere e al culto dei fedeli nelle teche della cattedrale di Otranto.

 

 

 

 

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[1] Traggo l’espressione da Foucault 1998.

[2] Cfr. Vismann 1995.

[3] Schmitt 1986, p. 69.

[4] Si tratta della II Bolla Inter cetera del 4 maggio 1493, in Metzler 1991, p. 79; ora anche in CDD, 1, p. 304 che utilizza gli originali conservati nell’Archivio generale delle Indie di Siviglia.

[5] Nell’amplissima bibliografia sulle bolle pontificie, tra la storiografia meno recente, Vander Linden 1917, p. 22, e i numerosi lavori di Staedler 1937a; 1937b; 1938; 1941; particolarmente interessanti García Gallo 1957-1958, cui è seguita un’edizione autonoma edita a Madrid nel 1958 e Weckmann 1949. Tra gli interventi più recenti vorrei segnalare Muldoon 1978, ora ristampato in Muldoon 1998 e Spagnesi 1998); ulteriori indicazioni bibliografiche si possono leggere in CDD, 1, pp. 294-298; su particolari aspetti delle bolle alessandrine, García Villoslada 1977-1978; Cantelar Rodríguez 1992; per i precedenti portoghesi si rinvia a Witte 1953; 1954; 1956; 1958; uno sguardo di sintesi sui rapporti diplomatici spagnolo-lusitani in Rumeu De Armas 1992.

[6] Sul presupposto infatti che la presenza spagnola nelle Indie è “necessaria” per la diffusione del cattolicesimo, il “Sumo Pontefice, que es el principal móvil ó motor de estas materias de conversiones, puede segñalar, y dividir entre los Principes Christianos los términos de ellas de sus comercios, y navegaciones con expresa prohibicion de que los unos no entren, ni se mezclen en los de los otros, como lo huvo en la concession (de que vamos hablando) siempre que al bien universal de la Iglesia, de la conversion, y de la propagacion de la Fé, que es la que se pretende, juzgáre ser conveniente, y asi lo prueban, afirman y resuelven todos los Católicos que bien sienten”; Solorzano Pereira 1972, p. 114; v. anche pp. 100-102; già Solorzano Pereira 1777, v. 2, l. 2, c. 24, n. 19-21, f. 350; alla potestà pontificia sugli infedeli è dedicato, all’interno dello stesso volume e libro, l’intero cap. 23, ff. 325-345.

[7] Pagden 1989, p. XI.

[8] Cfr. Geertz 1988, pp. 112-159.

[9] Essi infatti vengono identificati con una delle dieci tribù di Israele, ritenuta scomparsa dall’Antico Testamento, v. diffusamente Ghiozzi 1977, pp. 49 sgg.

[10] Sul ruolo costruttivo, formativo e costitutivo del diritto e il superamento del paradigma funzionalista v. Geertz 1988, pp. 277 sgg.

[11] Cfr. Tomás y Valiente 1983, pp. 237-244; Piano Mortari 1982, pp. 103-104; Cavanna 1982, pp. 420-422. D’altra parte però, come sottolineava Solorzano Pereira, le Indie erano una realtà cangiante che non era possibile ingabbiare con una legge generale; esse necessitavano di un diritto particolare, dal carattere fortemente “casuistico”, un derecho municipal creato dal re, dal Consejo de Indias e sopratutto dalle singole realtà cittadine e dalle consuetudini; sul diritto indiano, cfr. Tau Anzoátegui 1992; sulla diffusione dello jus commune in America v. ora Barrientos Grandon 1999; più diffusamente Barrientos Grandon 2000. Alla diffusione dello jus com­mune nelle Indie è stato dedicato il 18mo Corso dell’International School of Jus Commune (Erice, 4-11 novembre 1998) sotto la direzione di Manlio Bellomo e Victor Tau Anzoátegui.

[12] Del Requerimiento vi sono molteplici versioni. Gli originali della versione qui studiata sono conservati nell’Archivo General de Indias, Sevilla, Panamá, L. 233, l. I, ff. 49-50; Patronato, L. 26, Ramo 5, ff. 20-22; per quanto riguarda i testi a stampa, fra i tanti, cfr. Pacheco, Cárdenas 1864-1884, pp. 311-314; Serrano y Sanz 1918, pp. 292-94. Limitate varianti si possono leggere nel testo inviato a Pizarro per la conquista del Perù in Encinas 1946, pp. 226-227 e in quello destinato agli Indios della Nuova Galizia, edito in CDIAO, III, pp. 369-377; poi riedito in Zavala 1988, pp. 492-497.

[13] Biermann 1950; Hanke 1938; v. anche Hannke 1949, pp. 31-36; e più recentemente Muldoon 1980, pp. 301-316, ora ristampato in Muldoon 1998.

[14] Seed 1987, pp. 231-232.

[15] Le citazioni del Requerimiento sono tratte dall’edizione curata da Serrano y Sanz, 1918, p. 294.

[16] Serrano y Sanz 1918, p. 292, n. 1: utilizzando Oviedo a completamento della lista riportata in calce al manoscritto dell’Archivo de Indias, ne indica gli autori in “Episcopus Palentinus, comes (sic); Bernardus Tripolitanus episcopus; F. Thomas de Matienzo; F. Al Bustillo, magister; licentiatus de Sanctiago; El Doctor Palacios Rubios; licenciatus de Sosa; Gregorius, licenciatus”.

[17] Las Casas 1981.

[18] Cristobal Colón 1992, p. 30.

[19] Relación de Michele Cuneo, a Geronimo Annari, in CDD, 2, p. 866.

[20] Testimonio de la possesion que tomó de la Isla de Flores en Castilla del Oro, Pedrarias Davila á nombre del Rey, en el Mar del Sur, Archivo de Indias. Patronato. Est. 1. Caj. 1. Leg. 18., ed. CDIAO, 10, p. 13, “Ó Madre de Dios, amansa la mar, é haznos dignos de estar y andar debajo de tu amparo, debajo del qual te plega descubramos estas mares y tierras de la mar del Sur, è convertamos las gentes dellas á nuestra santa fé católica”.

[21] Cfr. Bourdieu 1975, pp. 183-90.

[22] Sul concetto di “champ juridique” e sul monopolio professionale che esso introduce Cfr. Bourdieu 1986, pp. 10 sgg.

[23] Corre obbligo ricordare che Davila, nella relazione esaminata, prende possesso anche di altre isole non con il procedimento simbolico di materiale apprensione del territorio, da me sommariamente descritto, ma solo “visivamente”. Egli infatti dichiara: “tomo la dicha posesion, así civil como natural é corporalmente, della é de todas las otras islas comarcanas que della yo veo, é los que presente estais veis é se pueden ver, é de todas las otras islas é ínsolas descubiertas é por descubrir que en toda la dicha mar del Sur están”, Testimonio de la possesion, CDIAO, 10, p. 14.

[24] CDIAO, 10, p. 16.

[25] Egli prende significativamente il nome di Pedrarias, mentre il figlio viene chiamato Diego Arias come il figlio del tenente generale.

[26] CDIAO, 10, p. 17: “El dicho señor teniente general dió al dicho cacique la bandera real con mucho acatamiento, é el dicho cacique la tomó en su mano derecha è todos los cristianos que estaban presentes quitaron los bonetes è hicieron reverentia hasta el suelo, y el dicho cacique alzó la dicha bandera tres veces arreo con sus manos por si é por todos sus principales é indios, en señal de cómo quedaba por vasallo e súbdito de sus altezas, é de servir en todo lo que de parte de sus altezas le fuese mandado. [] Saputo poi che il tenente aveva un figlio di nome Diego Arias “el dicho cacique dijo que tornasen cristiano á un hijo suyo é le llamasen Diego Arias, y el dicho señor teniente general mandó al dicho canónigo Francisco de Arroyo, que le dotrinase en las cosas de nuestra santa fé católica, é desque entendiese algo, le tornase cristiano con solennidad é fuese honorado de los capitanes é gente que allí estuviesen en la dicha isla: é el dicho señor teniente general dió al dicho cacique ciertas preseas para el dicho su hijo”.

[27] Cfr. l’efficace sintesi di McAlister 1988, pp. 97-98; pp. 127-128; fondamentale sul ruolo dei giuristi nel dibattito intorno la potestà regia e i suoi limiti Piano Mortari 1991, pp. 275-282.

[28] Si veda per esempio la Real Provisión de 3 de septiembre de 1501, in Navarrete 1954, p. 456; e la Provisión del 1526 “que dispone, y trata la orden que antiguamente se tenia en nuevos descubrimientos y poblaciones que se hazian en las Indias, in Diego de Encinas 1946, 4, ff. 222-226.

[29] Pietschmann 1987, p. 261; rinvio allo stesso articolo di Pietschmann per la ricostruzione storiografica del dibattito sulla discussa natura delle capitolazioni; v. anche Des Vas Mingo 1986, pp. 1-98 a cui segue una ricca appendice documentale.

[30] Bordieu 1977, p. 410.

[31] Diffusamente Foucault 1977, p. 185; una rilettura del modello giuridico della sovranità che assume come punto di partenza l’analisi del filosofo francese si può leggere in Costa 1991.

[32] Foucault 1977, p. 188; v. anche i saggi raccolti in Foucault 1989; sul concetto di ordine e normalità in Foucault e sulla “società disciplinaria” cfr. Serrano Gonzáles 1987, pp. 81-141. Si ricordi che già in Gramsci si avverte l’attenzione verso il “paradigma dell’effettività” e l’insufficienza del modello statualistico tradizionale per descrivere i concreti rapporti di forza e di potere presenti nella società, ed è netta la contrapposizione tra l’immagine di stato come apparato governativo o rappresentativo e quella di apparato privato di egemonia e società civile; sull’immagine gramsciana di stato è intervenuto da ultimo Losurdo 1997, pp. 181-205.

[33] Ceballos Gómez 1998. Nella interessante ricostruzione di Ceballos, percorsa però da forti accenti polemici, il potere all’interno di quello che appare un unico disegno, scorre e da ordine nella società seguendo dei canali diversi, ascendenti, orizzontali o discendenti e traducendosi normativisticamente in un diritto scritto (norme prodotte attraverso un tradizionale percorso che si potrebbe definire istituzionale) e in un diritto non espresso ma che, per la sua circolarità e per la sua socialità, rappresenta una macchina di controllo della stessa società da cui nasce e punto d’incontro tra questa e l’esercizio effettivo del potere.

[34] Sottolinea i limiti della teoria foucaultiana nel descrivere compiutamente le relazioni tra poteri della prima età coloniale anche Mackenthum 1997, p. 17; sul rapporto tra l’epistemologia del filosofo francese e il colonialismo Bhabha 1992, pp. 460-463.

[35] Per la messa a punto della discussione storiografica sul concetto di stato v. Fioravanti 1990; più recentemente Blanco 1994 e il volume curato da Mohlo, Chittolini, Schiera 1994; per un approfondimento della dimensione giuridica all’interno del discorso statale si rinvia, sempre nel volume sopracitato, a Mazzacane 1994, pp. 331-347.

[36] Sul significato e sulle implicazioni che l’antidora comporta v. Clavero 1991, p. 98, per il quale “es un paradigma general. Podrá tener sin dificultad su entendi­miento económico. Porque no salgamos de un terreno de conductas caritativas o motivadas por el amor y benéficas o actuadas por la bondad, porque prive la gracia, no se impide unas relaciones que resultasen reconocidamente remunerativas y socialmente obligadas. Bastaba con que fueran igualmente bondadodas y graciosas. Podía operar la obligación natural de la correspondencia social entre beneficios en su sentido más preciso”.

[37] García de Saavedra 1737, ff. 4-7.

[38] Salas, 1617, Tractatus de Usuris, 5, 5, pp. 117-118, cit. in Clavero 1991, p. 99.

[39] Scrive ancora Clavero 1991, p. 100, che l’antidora è “la clave de una mentalidad, la síntesis de unas representaciones, el desenlace de una contradicción. La Antidora permite que el beneficium sea obligatio, que el acto exento, caritativo y libre resulte, sin perder estas virtudes, de una corresponencia debida. Es la unión de unos contrarios, vinculación y libertad: obligación no obligatoria. Entraña agradecimiento y supone amistad. Fomenta estos vínculos sociales que han de contar con la desvinculación individual”.

[40] Diffusamente Hespanha 1993, pp. 151-176.

[41] Petit 1996, p. 118; per una ricostruzione storiografica decisamente contraria all’utilizzo di questa categoria rinvio a Ceballos Gómez 1998, pp. 187 sgg.

[42] Cfr. Braudel 1986, molto suggestivamente parla a tal proposito di “Altro interno” e “Altro esterno”, Todorov 1992, p. 60. L’interpretazione strutturalista di Todorov ha subito non poche critiche, per tutti v. Gliozzi 1993, pp. 173-78.

[43] Alessandro VI sottolinea molto chiaramente la continuità esistente tra l’espu­gnazione e il recupero “Regni Granate a Tyramnide Sarracenorum” e il nuovo “sanctum et laudabile propositum” di proseguire nell’opera di diffusione e propagazione della fede e dell’ampliamento dell’“impero cristiano”, cfr. la Bolla Inter cetera, die 3 maii 1493, in Metzler 1991, pp. 71-75; ora anche in CDD, 1, pp. 290-293.

[44] Serrano y Sanz 1918, p. 293; per un approfondimento degli aspetti giuridici della diversità nella Francia medioevale rinvio a Mayali 1994, pp. 183-200.

[45] Alessandro VI, Inter cetera, “sed de nostra mera liberalitate et ex certa scientia ac de apostolice/potestatis plenitudine, omnes et singulas terras et Insulas predictas sic incognitas et hactenus per Nuntios vestros repertas et reperiendas imposterum que sub domino actuali temporali aliquorum dominorum christianorum costitute non sint, auctoritate/omnipotentis dei nobis in beato Petro concessa ac Vicariatus Jhesu christi qua fungimur in terris cum omnibus illarum dominiis Civitatibus Castris locis et Villis, iuribusque et iurisdictionibus ac pertinentiis universis, vobis heredibusque et successoribus [] imperpetuum [] donamus concedimus et assignamus, vosque ac heredes et successores prefatos de illis investimus illarumque dominos cum/plena libera et omnimoda potestate auctoritate et iurisdictione facimus constituimus et deputamus decernentes nichilominus per huiusmodi donationem concessionem assignationem et investituram nostram nulli christiano Principi ius quesitum sublatum/intelligi posse aut aufferri debere”, in CDD, 1, p. 292; Eximiae devotionis, die 3 maii 1493, in Metzler 1991, 1, pp. 77-78; anche in CDD, 1, pp. 298 sgg.; con riferimento alle nuove scoperte v. la Dudum siquidem, in CDD, 1, pp. 491-492; si confronti la bolla di Alessandro con il testo del Requerimiento, Serrano y Sanz 1918, p. 293.

[46] Encinas 1946, 4, f. 221.

[47] y Sus Altezas, y yo en su nombre, vos reçibiran con todo amor y caridad, y vos dexaran vuestras mugeres, hijos y haziendas libres sin servidumbre, para que dellas y de vosotros hagays libremente todo lo que quisierdes e por bien tubierdes, y no vos conpeleran a que vos torneys xpianos ” in Serrano y Sanz 1918, p. 294.

[48]çertificos que con el ayuda de Dios yo entraré poderosamente contra vosotros y vos haré guerra por todas las partes y maneras que yo pudiere, y vos subjetaré al yugo y obiedençia de la Yglesia y de Sus Altezas, y tomaré vuestras personas y de vuestras mugeres e hijos y los haré esclavos , y como tales los venderé y disporné dellos como Su Altezza mandare, y vos tomaré vuestros bienes, y vos haré todos los males e daños que pudiere, como a vassallos que no obedeçen ni quieren recibir a su señor y la resisten y contradizen”, in Serrano y Sanz 1918, p. 294.

[49] Las Casas 1981, c. 28, pp. 28-31.

[50] Greenblatt 1976, p. 573; ora anche Greenblatt 1991, p. 171 a cui si rinvia per una notevole ricostruzione dei processi e delle pratiche di rappresentazione europea dei popoli americani.

[51] Cfr. Greenblatt 1994, p. 162, sul valore della danza e su i suoi significati nella cultura europea e negli Indiani di Trinidad.

[52] Oltre il noto lavoro di Mauss 1965, pp. 153-192, vorrei ricordare la tesi di Caillé 1999, e Godbout 1998, che vedono nel dono, terzo paradigma (oltre quello individualista e quello olista), lo strumento per la costruzione di un sistema politico/sociale che permetta di superare la logica statocentrica e capitalistica delle società occidentali; v. anche Clavero 1991, pp. 15-35; 87-105; 187-198.

[53] Di grande interesse il recente articolo di Migliorino 1996, p. 448 sgg.; con riferimento diretto alla materia oggetto del nostro studio v. Greenblatt 1994, pp. 157 sgg.; Todorov 1992.

[54] Cfr. Bordieu 1977, p. 409.

[55] Sul ruolo della scrittura nell’incontro tra civiltà spagnola e quella amerinda e sulle conseguenze che essa determina nella rappresentazione e percezione degli altri, diffusamente Todorov 1992, p. 97, pp. 192 sgg.; contra Greenblatt 1994, pp. 35 sgg.

[56] Colón 1989, p. 231.

[57] Benso 1989, p. 78.

[58] Ibid., pp. 80-81.

[59] Per uno sguardo di sintesi sulla politica ecclesiastica dei sovrani spagnoli in America e sul Regio Patronado Indiano ottenuto da Ferdinando nel 1508, cfr. Zorraquin Becu 1990, pp. 28-32; García Gallo 1974, pp. 173-177.

[60] Si ricordi che solo nel 1511 si costituì la prima Audiencia americana a Santo Domingo; sembra opportuno sottolineare inoltre che nonostante tali tentativi l’amministrazione della giustizia seguiva criteri ancora letteralmente feudali. Si leggano a tal proposito le istruzioni inviate a Pedro Arias Davila, dove oltre ad impedire che avvocati o procuratori raggiungessero le Indie e, in ogni caso, a proibire loro l’esercizio della professione legale, si prescriveva al governatore o ai suoi ufficiali per le cause civili “de procurar de saber verdad de las cosas que ante vosotros se pidieren, y suplir por lo que ansy fueren, y juzgar las cosas brebemente, sin terminos superfluos y no necesarios, y en las cosas dudodas procurad concertarlos y sentenciarlo a albridio de buen baron, por manera que no resciban agravio, y aveys de procurar quanto fuere posible que no aya pleytos entre ellos” e nelle materie penali di applicare le leggi di Castiglia, potendo però sempre “exceder algo de las leyes destos reynos, mirando en todo el descargo de nuestra real conciencia” Ynstrucion para el Governador de Tierra Firme, ed. Serrano y Sanz 1918, p. 285.

[61] Nel 1519 e nel 1523 Española e la Nuova Spagna furono annesse alla corona di Castiglia con due ordinanze reali, McAlister 1988, p. 244.

[62] Bhabha 1990.

[63] Per una profonda riflessione sulla costruzione dell’idea imperialista nella letteratura europea v. Said 1998, in particolare, con riferimento all’opera di Conrad, pp. 44-56, da cui traggo questa citazione.

[64] In senso autocorrettivo, è in verità una tautologia parlare di modello culturale/religioso se per cultura si intende con Geertz 1988, p. 113, “un modello di significati trasmesso storicamente, significati incarnati in simboli, un sistema di concezioni ereditate espresse in forme simboliche per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti di fronte la vita” e per religione un “sistema di simboli che opera (o funziona) stabilendo profondi e diffusi stati d’animo e motivazioni negli uomini per mezzo della formulazione di concetti di un ordine generale dell’esistenza e del rivestimento di questi concetti con un’aurea di concretezza tale che gli stati d’animo e le motivazioni sembrano assolutamente realistici” (Geertz 1988, p. 115).

[65] Mackenthum 1997, p. 15.

[66] Ibid.

[67] Sull’indifferenza degli Ebrei ad una politica volta anche alla sottomissione religiosa, cfr. Lemistre 1970, pp. 167-68; più recentemente l’interessante lavoro di Seed 1995, p. 90.

[68] Cor. VIII, 72-74. In realtà la forza disciplinante del jih…d esplica i suoi effetti anche nel foro interno, la prima e più grande guerra, infatti, si combatte nell’animo di ciascun uomo per sconfiggere le passioni e le debolezze che lo attraversano e lo allontanano dalla Verità; sulla jih…d interna e sugli aspetti coercitivi-difensivi, morali e spirituali che la compongono rinvio al lavoro di Morabia 1993, pp. 293-344; con particolare riferimento al significato di jih…d nella Spagna musulmana v. Urvoy 1973.

[69] Cor. II, 193; Cor. VIII, 39; cfr.. Khadduri 1955a, p. 62.

[70] Cfr. Khadduri 1955b, pp. 351-352; Khadduri 1955a, pp. 155 sgg.; più recentemente Peters 1979, pp. 11-12.

[71] Sul concetto di spazio e sul problema della sua misurazione, cfr. Bauman 1999.

[72] Ricorda infatti Ibn Rušd che le controversie tra la dottrina sorgevano invece per stabilire se la richiesta (da‘wa) di conversione dovesse essere ripetuta prima di intraprendere le operazioni di guerra. La questione era particolarmente delicata perché Maometto aveva prescritto che dovesse seguire, all’invito di convertirsi, la richiesta del pagamento di un tributo e, solo nel caso di rifiuto, invocato l’aiuto di Allah, l’attacco sarebbe stato legittimo. Nella prassi però egli stesso aveva frequentemente dimenticato il rispetto di queste formalità, attaccando improvvisamente i nemici di notte o all’alba. Nella dottrina dunque gli orientamenti erano diversi: alcuni “consequently, mantain, and they are in the majority, that the practice of the Prophet has abrogated his words, [...]” altri “are of the opinion that more weight should be attached to the Prophet’s words than to his deeds, because the latter are to be interpreted in the light of the particular circumstances. Those, lastly, who consider it recommendable, do so in order to reconcile both views” Peters 1977, p. 20; sulla nozione di da‘wa, cfr. Canard 1965; Peters 1996, pp. 62-70.

[73] Cor. IX, 29 “Combattete quanti non credono in Dio e nel Giorno Estremo del Giudizio e che non ritengono illecito quello che Dio e il suo messaggero han dichiarato illecito, e coloro, fra quelli a cui fu data la Scrittura che non si attengono alla Religione della Verità. Combatteteli finché non paghino il tributo uno per uno umiliati”; cfr. Ibn Rušd 1977, pp. 24-25: sulla tassa annuale (jizya) che a cui erano tenute le popolazioni sottomesse ai musulmani e sulle analogie con le prescrizioni tributarie imposte dagli Spagnoli agli Indiani, v. Seed 1995, pp. 78-85.

[74] Cor. XXIX, 50-52 “E dicono [gli iniqui]: “Se almeno fosser stati rilevati dei Segni dal Suo Signore”. Rispondi: “In verità i Segni sono presso Dio ed io non sono altro che un Ammonitore chiarissimo. O non basta loro dunque che noi ti abbiam rivelato il Libro che viene loro recitato? Certo v’è in questo una Grazia ed un Mònito per gente che crede!”. Dì: “Basta Dio a testimoniare tra me e voi! Egli conosce ciò che è nei cieli e quel che è sulla terra, e coloro che credono nella Vanità e rifiutan la fede di Dio, quelli sono i perdenti!””.

[75] Per una ricostruzione della vicenda otrantina all’interno del progetto espansionistico turco e sulla politica degli stati italiani, si rinvia a Babinger 1957, p. 576 sgg.; il quadro delle relazioni internazionali e dell’attività diplomatica emerge dai “dispacci degli oratori estensi” inviati al Granduca da Napoli, Roma, Firenze, Venezia, conservati in copia ms. XXIII, D. 1, 2 (Biblioteca della Società di Storia Patria, Napoli), e nell’Archivio di Stato di Modena, in parte editi da Foucard 1861, pp. 76-93; sul controverso ruolo avuto da Venezia, v. Bombaci 1954, pp. 159-203; problemi giuridici e crisi della Repubblica di fronte al pericolo della avanzata turca in Mazzacane 1984, pp. 617-622; tra la copiosa storiografia locale, spesso inutilizzabile, cfr. sopratutto Moro 1980.

[76] “Il Gran Signore, dopo che Gedik Ahmed Pascià, il conquistatore dei paesi, ebbe preso Cefalonia e Valona, gli ordinò di andare a conquistare il territorio di Puglia, scacciandone gli infedeli, cosicché, spezzato l’orgoglio dei nemici malvagi con le truppe di soldati vincitori da secoli, piantandovi alla fine della vittoria la bandiera delle Sure, di conquista dell’Islam, e annettendo quella provincia al territorio del­l’Islam, togliesse via da quel luogo i segni degli infedeli”, ×bn Kemal 1934-1957, pp. 507-520, trad parz. it. Tan®@ 1971, p. 115. La traduzione, l’unica disponibile in lingua italiana, è stata fortemente criticata da Gallotta 1986.

[77] Cfr. Babinger 1957, pp. 585 sgg.; sulla nomina di Angelo Chivasso a nunzio e commissario apostolico per la predicazione della crociata v. la Bolla Ad perpetuam rei memoriam (4 dicembre 1480), Bollarium Franciscanum, continens constitutiones epistolas diplomata Romani Ponteficis Sixti IV, novae series, 3, Florentiae, 1949, 3, p. 684, n. 1367; cfr. Viora 1925, pp. 326 sgg

[78] Bolla Fidei catholicae defensionem (5 Agosto 1480) in Archivio Segreto Vaticano (d’ora in poi ASV), Arm. XXXI, v. 62, n. 155, ff. 239r-239v, “Omnes itaque prefatos charissimos in christo filio nostros serenissimos imperatorem et reges potentissimos principes ac christianorum populus in domino exhortamur: ut huiusmodi fidei defensionem adeo sanctam adeoque necessariam aggredi ultra non cessent. magno ac fortissimo animo non rebus non opibus: non personis: non vita parentes. pugnabit que cum eis archangelis mihael princeps exercitus celestis militie: qui preidcte apulie est protector et custos. etiam spe et fidutia in deum salvatorem nostrum precipue muniti qui ipse pro pugnatores suos ab eorundem turcorum defendet periculis et eis vicoriam prestabit”; v. anche il fosco quadro tracciato da Sisto IV con la Bolla Redemptoris nostri Iesu Christi del 5 dicembre 1480 per stimolare l’intervento dei principi cristiani ed ottenere la corresponsione da parte delle comunità ecclesiastiche di “subsidium unius integre et vere decime omnium et singolorum fructuum: redditum: et proventum cathedralium ad triennium proxime futurum exigendum et solvendum” (f. 243v); coloro che non avessero provveduto nel termine stabilito sarebbero incorsi in una “excomunicationis sententiam et privationis ecclesiarum et monasteriorum: et aliorum omnium beneficiorum ecclesiasticorum cum cura et sine cura” (f. 244r), ASV, Arm. XXXI, v. 62, n. 157, f. 243v-244r.

[79] Dopo aver garantito l’intervento economico del vescovo di Terracina e quello militare del duca d’Urbino, il papa prosegue “Nec minus ceteros Italie potentatus et alios christianos principes, sicut jam fecimus reiteratis litteris, prope inminentem in dies magis ruijnam, ad comunem causam excitavimus, et etiam ut carum gentes micterent, eisque de stipendijs necessarijs provideant, requisivimus”, Sisto IV, Breve indirizzato a Ferdinando Re di Napoli (16 agosto 1480), ed. Foucard 1871, p. 161; cfr. anche la Bolla Ad futuram rei memoriam (fine dicembre 1480), Bullarium, cit., 3, p. 691-693, n. 1384, relativa all’incarico conferito al cardinale Gabriele Rangone per organizzare con Ferdinando la riconquista di Otranto.

[80] Sisto IV, Bolla Cogimur iubente altissimo (6 aprile 1481), ASV, Arm. XXXI, v. 62, n. 158, ff. 247r-247v, “treguas: inducias: seu belli moram: quas tenore presentium: auctoritate omnipotentis dei: et pro defensione et securitate domini gregis, quem salvator noster pascendum, tuendum atque curandum nobis commisit: indicimus: et illesos christianos servari volumus, observent: arma deponant: et privatarum omnium iniurarum atque: offensionum obliti: christi redemptoris nostri iniuras: offensiones: et opprobria ulciscantur: et in hostes: qui christianorum omnium sanguinem sitiunt: et evangelicam Legem delere conantur arma sumant [...]”, [edita anche da Saracino 1979]. Con la Redemptoris nostri Iesu Christi, a questa successiva provvedeva poi all’organizzazione militare della crociata, raccomandando al re di Napoli l’invio ad Otranto di triremi e galere “cum satis copioso numero pugnatorum” che per otto mesi fossero stipendiati e garantiti “de necessaris pro eorum victo”, ASV, Arm. XXXI, v. 62, n. 159, ff. 250v-251r; sull’alleanza tra il pontefice, il re di Napoli, il sovrano di Ungheria, i ducati di Milano, e di Ferrara e le repubbliche di Genova e Firenze cfr. Babinger 1954, p. 585.

[81] Si ricordi che tutta la tradizione giuridica di diritto comune concordava nell’individuare nell’autorità del principe una justa causa di dichiarazione di guerra; si veda la sintesi delle diverse posizioni della dottrina tracciata da Marquardo De Susannis, autore minore del XVI secolo, ma estremamente interessante, che nel suo trattato De Judaeis et alijs infidelibus, svolge un esame giuridico-comparativistico tra Ebrei, Musulmani e i “barbari” delle nuove terre americane, in Tractatus Universi Iuris, XIIII, Venetiis, 1584, ff. 33v-34r.

[82] Nel commento di Matteo d’Afflitto alla costituzione I, 8 Pacis cultum del Liber Augustalis, ricorda Giancarlo Vallone (1985) in un articolo dedicato all’esame delle condizioni giuridiche dei Turchi nel regno di Napoli, le guerre private condotte contro gli infedeli perdevano il loro carattere di illiceità e divenivano justae, Otranto e il diritto dei Turchi, Archivio Storico Pugliese, XXXVIII, pp. 103-110; sul percorso formativo di una “competenza sovra-nazionale” del pontefice in materia di bellum inter catholicos e sulla tradizione canonistica v. Bellini 1989, pp. 64-73.

[83] Sisto IV, Cogimur iubente altissimo, cit., f. 248r.

[84] Si ricordi infatti che ogni analogia si infrange sul fatto enorme e di immediata evidenza che mentre gli indiani, nella rappresentazione spagnola, erano muti, già soggetti di un rapporto coloniale perfetto, gli Otrantini, pur nella sconfitta, conservavano la voce e la dignità del nemico.

[85] Gallotta 1986, pp. 180-183. Sul limitato spazio dedicato dalla storiografia turca del XV e XVI secolo all’impresa otrantina già Rossi 1931, pp. 178-191, che riporta la traduzione di un capitolo della Tâc üt-Tev…ri² di Sa‘dudd†n (XVI sec.).

[86] ×bn Kemal 1934-1957, p. 508, nella trad. it. Tan®@ 1971, p. 116.

[87] Notizie biografiche su A|mad Pa@a Gedik, in ×nalc®k 1960; più diffusamente Y®nanç 1950.

[88] Relazione della presa di Otranto scritta dal commissario del duca di Bari al duca stesso Ludovico Sforza (Bari 13 ottobre 1480), ed. Foucard 1861, p. 164; anche Laggetto, Istoria, f. 15r.; una copia dell’Istoria della città di Otranto si può leggere in ms. 35 Bibl. Prov. Lecce (edita anche da Scherilllo 1875). Brevi cenni biografici su Laggetto in Tafuri 1752, pp. 91-92.

[89] Laggetto, Istoria, f. 15r; Antonio de Ferraris (1444-1517), testimone diretto della conquista di Otranto, nel suo Liber de situ Iapigie, dopo aver ricordato i tentativi di A|mad di minare la saldezza d’animo degli assediati, aggiunge che “si ipsi fidem homini, & ignoto, & hosti non haberent, se exercitumque suum omnem naves ascensurum, atque in mare octo, aut decem millibus passuum ab urbe abiturum pollicebatur, illi interea suae saluti, et liberalitati consulerent”, ms. 233 Bib. Prov. Lecce, Liber de situ Iapigiae, Basileae 1558, ff. 48-49.

[90] Martiano 1612, pp. 4-5 (ms. 235 Bibl. Prov. Lecce); l’edizione consultata contiene in appendice la lettera dell’erudito galatinese Giovan Tommaso Cavazza che attestava la fedeltà della traduzione all’opera del De Ferraris, De Bello Hidruntyno, la cui esistenza è ormai negata dalla storiografia, e che contribuì al successo e alla diffusione dei Successi. Brevi osservazioni sulla storia di questa falsificazione e note di lettura accompagnano l’edizione contenuta in Gualdo Rosa, Nuovo, Defilippis 1992, pp. 103-210 ed eseguita sulla prima ed. Cupertino 1583, [ms. Barber. lat. 4795]. Brevi notizie su Martiano possono leggersi in Tafuri, Istoria 1754, pp. 81-83.

[91] Sul De Arenis, cenni biografici in Ughello 1721, p. 37.

[92] Relazione della presa di Otranto, ed. Foucard 1861, p. 167; v. anche Relazione fatta dal Segretario di Ferdinado ai Prencipi d’Italia (cd. Relazione D’Acello) in Giovanni Michele Lagetto, Istoria, f. 83v; su questa relazione v. Moro 1984, ma gia dello stesso autore  Moro 1978. Si ricordi che i tentativi di A|mad di occupare il basso Salento proseguono anche per via diplomatica. Come attesta la lettera che Nicola Sadoleto, ambasciatore del duca estense a Napoli, invia a quest’ultimo il 19.10.1480: “il Thurco” prometteva grandi favori e riconoscenza se “il re gli desse Otranto di Bona voglia e Leze e volesse pagare tributo”, in Biblioteca della Società di storia patria, Napoli, ms. XXIII, D. 1, f. 64r.

[93] Lettera del Pascià Turco, A|mad, all’Arcivescovo di Brindisi (Otranto 1480, 14 agosto), ed. Foucard 1861, p. 156; v. anche Relazione fatta dal Segretario di Ferdinando a’ Prencipi d’Italia, in Giovanni Michele Laggetto, Istoria, ff. 67v.-88r.

[94] Laggetto, Istoria, f. 15v.

[95] “Si non me date la terra, io con tucto lo mio sforzo vegnerò da vui, et la farò più crudelitate che non è facto ad Otranto”, Lettera, ed. Foucard 1861, p. 156.

[96] Sulle regole di formazione del discorso e le formazioni discorsive v. Foucault 1994, pp. 43-54.

[97] Serrano y Sanz 1918, p. 293.

[98] Cor. VIII, 70-71 “O Profeta! Dì ai prigionieri caduti nelle vostre mani: “Se Dio riconosce qualcosa di buono nei vostri cuori, vi darà cose migliori di quelle che vi son state prese e vi perdonerà, ché Dio è indulgente clemente”. Se vogliono tradirti, ebbene hanno prima tradito Dio e Dio te li ha dati in tuo potere: Dio è saggio sapiente”.

[99] “Un Galabrese rinegato qual’era stato prete di messa” ricorda Lagetto, Istoria, f. 24v.

[100] “Fratelli miei, acciò Voi sappiate, Io era Christiano, come Voi, doppo conosciuto l’error mio mi voltai alla fede di Mahometto mio Signore, e Santo Profeta, il quale ci dona tanto bene in questo mondo, ci fà essere Vittoriosi in ogni guerra, come voi già vedete essere il nostro eccelso Imperadore in tanta altezza e Signoria, che in quante Guerre s’ha posto e pone, ne resta vincitore, e Signore, et ha suppeditato, e suppeditarà tutto il christianesimo? Adunque che mi direte di questa vostra falsa fede? Dove sono i Re vostri, e Signori tutti fuggiti, ed impoveriti dalla possenza del nostro invitto Imperadore....” Il discorso del cristiano convertito è riportato nella Relazione fatta dal segretario di Ferdinando a’ Prencipi d’Italia, in Giovanni Michele Laggetto, ff. 80v.-81r.; v. anche la versione di Martiano 1612, pp. 20-21.

[101] Laggetto, Istoria f. 81v.

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