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Emanuele CONTE

Dai servi ai sudditi. La realitas dei contratti di status nel diritto comune.

(relazione al convegno "Glosse, Summe, Kommentar", tenuto a Osnabrueck, novembre 1996)

1. Il passaggio più noto di un'opera famosissima di Henry Maine insegna che la transizione verso il moderno è segnata dal passaggio da rapporti di status, basati su dipendenze da uomo a uomo "statiche", prestabilite dall'ordine sociale e difficilmente modificabili, a rapporti stabiliti per contratto, limitati nel tempo e garantiti dalla libertà degli individui anziché dalla loro soggezione. L'evoluzione della società e degli ordinamenti conduce dunque "dallo status al contratto"1.

La formula ha impressionato molto, ed è ancora in voga; è stato naturale interpretarla come la manifestazione giuridica dell'altra contrapposizione di concetti, lanciata qualche anno dopo Henry Maine da Ferdinand Tönnies, secondo il quale la società moderna ha i caratteri di una Gesellschaft di individui liberi e autonomi, mentre nelle società primitive prevalgono i caratteri unificanti della Gemeinschaft2.

Posto al vaglio della dottrina novecentesca, però, il cristallino determinismo di queste schematizzazioni ha ben presto mostrato i suoi limiti, Attraverso la lunga crisi dello Stato liberale che ha segnato la prima metà del nostro secolo, si appannò la fiducia nel positivo evolversi delle strutture giuridiche e sociali nel segno della libertà individuale. S'affacciarono, da una parte, coloro che rimpiangevano la sicurezza garantita dai rapporti di status e dalla coesione sociale delle Gemeinschaften dell'ancien régime di fronte alle spaventose tensioni prodotte dal liberismo della società industriale; dall'altra si prospettò la possibilità di saldare status e contratto in un unico fenomeno socio-giuridico. Sicché un costituzionalista sensibile come Carl Schmitt poteva prospettare, nel 1928, la distinzione fra il contratto vero e proprio, borghese e liberale, il quale produce obbligazioni di contenuto essenzialmente economico, e un "contratto di status", che "fonda una condizione permanente di vita, che abbraccia la persona nella sua esistenza"3.

La storiografia costituzionale, che viveva una stagione fiorente nella Germania di quegli anni, accolse immediatamente quella definizione di Schmitt, che rifletteva bene un aspetto importante delle relazioni feudo-vassallatiche4. Nel mondo feudale, infatti, il contratto di omaggio costituisce senza dubbio qualcosa di più profondo di un semplice rapporto obbligatorio: agisce sulla qualità stessa del vassallo, coinvolgendo di regola anche i suoi discendenti nell'obbligo di prestare la fidelitas al signore. Una espressiva sintesi proposta dalla glossa accursiana a proposito dei coloni adscripticii rende l'idea assai bene: essi "quoad dominos servi sunt, quoad extraneos liberi"5.

Vassalli e villani potevano dunque essere accomunati dal fatto di aver costituito il proprio status personale relativo al signore grazie a una convenzione, un patto solenne che poteva assumere forme diverse. Di patti del genere, per la verità, ce n'erano tanti anche al di fuori delle relazioni vassallatiche o servili. Contratti di status erano anche gli atti di volontà necessari per l'ingresso in monastero, certe coniurationes, i "patti di cittadinanza" che fissavano l'appartenenza del cittadino al Comune: così tante altre promesse medievali, di regola rafforzate dal giuramento6, che davano vita a obblighi e diritti particolarmente radicati.

Il collegamento tra status e contratto era anzi così naturale per la mentalità medievale, che si usava porre un atto di volontà all'origine di qualsiasi situazione personale di soggezione: anche quando mancava del tutto la prova dell'avvenuta promessa costitutiva, l'ereditarietà dello status consentiva di presumere che, in un lontano passato, fosse avvenuta una dichiarazione giurata che provocò nei discendenti del promittente la condizione di villani, vassalli o cittadini. Si può dire che l'esempio più vistoso di tale propensione medievale sia l'enfasi con la quale a partire dall'XI secolo si ricorse alla leggendaria lex Regia de Imperio per trovare in una espressione di volontà popolare la giustificazione del potere del Principe e della condizione di sudditi di tutti i cittadini che, ben lungi dall'essersi obbligati personalmente, risentivano ancora degli effetti di un patto che si sarebbe verificato in un tempo lontano7. E infine: non era un contratto di status anche il contratto sociale, che a partire dall'umanesimo fu posto all'origine della sovranità, attingendo assai più alla tradizione feudale che alle fonti classiche?

2. Ora, il contratto sociale, come gli altri contratti di status che si sono menzionati, è un contratto del tutto singolare, che si inquadra con difficoltà nelle categorie privatistiche che dovrebbero definirlo. Si sa che il Savigny espresse spiccato scetticismo sulla validità di un simile negozio, tant'è che rifiutò l'idea dell'origine contrattuale degli stati perché riconobbe l'impossibilità di rintracciare l'espressione della volontà individuale, che sola poteva dare impulso ad un contratto, in quei mitici patti che coinvolgevano un "popolo" non ben definito8. E d'altra parte la singolare stabilità degli effetti provocati da questi contratti non può trovar giustificazione solamente nella solennità dell'atto compiuto. Per quanto fosse rafforzato dal giuramento, il contenuto del negozio restava pur sempre costituito da una serie di obbligazioni di fare o di non fare: sicché almeno per il diritto romano classico non era facile configurare il trasferimento degli oneri anche ai figli dell'obbligato, che non avevano espresso alcuna volontà di subentrargli nel rapporto.

E' vero che il diritto postclassico e giustinianeo aveva concesso parecchie deroghe a questi principi classici, e che la struttura stessa della società basso imperiale sembrava poggiare su una rete di status personali che vincolavano ereditariamente le famiglie al loro ruolo economico, dai coloni fino ai curiali, passando per i componenti dei collegia professionali. Tuttavia la ben nota ambiguità di Giustiniano nei confronti del diritto classico aveva fatto aprire le porte della sua compilazione a principi superati dalla vita ma conservati dalla tradizione: così la rigida bipartizione gaiana del genere umano in liberi e servi che, pur contraddetta palesemente dalla legislazione postclassica, era tuttavia enunciata nelle Istituzioni e nel Digesto.

La compilazione giustinianea poneva insomma i suoi esegeti medievali di fronte alla scelta fra quei principi classici e la deroga amplissima ad essi: e i più antichi civilisti presero partito per i primi, presentando le numerosissime norme sui collegia, sui coloni, sui curiali, piuttosto come eccezioni motivate da esigenze particolari che come ciò che erano: l'espressione di un complesso di principi generali profondamente mutati rispetto al mondo classico.

La libertà personale assoluta poteva così apparire a Irnerio come un bene prezioso da tutelare contro gli effetti di quei contratti che potrebbero comprometterla: stando a quanto tramanda una dissensio dominorum segnalata dal Bellomo, il fondatore della scuola, si sarebbe spinto infatti fino a negare la legittimità di una locatio operarum in perpetuo, poiché «perpetua locatio operarum speciem servitutis obtinet, quum non liceat ei recedere». Alla radicalità della posizione di Irnerio si opposero ben presto le soluzioni proposte da Giovanni Bassiano e Azzone, i quali però si limitarono a rilevare che le obbligazioni costituite con un contratto di locazione di opere in perpetuo potevano pur sempre estinguersi convertendosi in prestazioni pecuniarie versando una tantum l'interesse: sicché le analogie con lo stato dello schiavo finivano per scomparire11. Ma quelle analogie restavano chiaramente visibili quando dai rapporti di prestazione d'opera si passava ad osservare gli atti di omaggio che erano letteralmente all'ordine del giorno nella società basso medievale. E qui la dissonanza tra i principi del diritto romano e gli istituti vigenti nella prassi era palese.

Poco prima della metà del Duecento, nell'aprire il suo trattatello sugli omaggi rurali, Martino da Fano si poneva proprio il problema di coordinare una pratica impregnata di principi volgari con un ordinamento romano che nella ricostruzione medievale poneva in primo piano gli elementi "classici" che tutelavano la libertà personale. Si chiedeva perciò «numquid <hominitiis> consonent iura nostra». Il giurista di Fano e la sua operetta monografica sull'omaggio servile sono stati oggetto di un recente, approfondito studio di Elio Tavilla, che ha dedicato la dovuta attenzione a questa prima quaestio12: e ha posto in evidenza il legame stretto che si può rintracciare tra il trattato di Martino e alcune opere di poco posteriori che, pur trattando di omaggi feudali e non di asservimenti rurali, si posero gli stessi problemi giuridici affrontati nelle quaestiones raccolte dal giurista di Fano e sfruttarono, con qualche adattamento, gli stessi argomenti13.

A queste operette è il caso di dedicare l'attenzione, poiché in esse si affronta esplicitamente il problema della natura dell'homagium.

Pur adottando punti di vista diversi, talora opposti, queste opere hanno in comune due elementi: sono redatte da giuristi francesi, pur se influenzati più o meno profondamente dalla dottrina italiana: Jean de Blanot, Jacques de Revigny, Guillaume Durand e Raoul d'Harcourt; e sono dedicate al processo, presentandosi per lo più come commenti a un brano del titolo de actionibus delle Istituzioni.

3. Aprire i trattati duecenteschi sul sistema delle azioni significa condurre il discorso sul terreno della tecnica processuale: sul quale l'incontro tra i risultati della scienza scolastica e le esigenze pratiche dei tribunali, produceva non di rado novità giuridiche di rilievo. Per cogliere queste novità sarà bene cominciare dall'opera del più autorevole fra i giuristi francesi del Duecento: Jacques de Revigny.

Il suo Tractatus de actionibus, di recente edito criticamente14, dimostra l'attenzione alle esigenze della pratica con l'inserzione di un gruppetto di quaestiones di materia feudale ormai alquanto note, giacché prima della ultima edizione della van Soest-Zuurdeeg erano state pubblicate in un eccellente articolo di Robert Feenstra15. Anzi, ad una attenzione esplicita al mondo della pratica francese ha fatto pensare la scelta di collegare quest'approfondimento sull'homagium a un passaggio delle Istituzioni nel quale si prospettano le azioni praeiudiciales, rivolte cioè ad accertare preliminarmente lo status personale della controparte, al fine di paralizzarne le eventuali pretese prima di affrontarle nel merito. Poiché il feudo francese aveva mantenuto il carattere di un rapporto prevalentemente personale, il collegamento delle questioni sugli omaggi al paragrafo Praeiudiciales delle Istituzioni, che prospetta una ricognizione dello status personale, è apparso a Ennio Cortese come l'espressione dell'attenzione della dottrina orléanese per la realtà istituzionale transalpina: concentrare per analogia l'esame del fenomeno feudale su quel tipo di azione «significa individuare la sostanza di quest'ultimo nell'homagium, nell'hominium, nel vassallaggio. Il feudo lombardo ha invece come asse portante l'investitura e il beneficium, con i conseguenti quesiti sulla disponibilità e la successione, ed è disegnato in tali termini dai Libri feudorum»16.

Ora, se è vero che le tradizioni italiana e francese si distinguono nei termini suggeriti da Ennio Cortese, può essere interessante osservare che nel brano in questione il maestro di Orléans non sembra affatto convinto che per la materia feudale sia legittimo ricorrere in giudizio alle actiones praeiudiciales prospettate dalle Istituzioni. Le praeiudiciales, dice Jacques de Revigny, sono azioni in rem, e possono dunque essere esperite soltanto in vista del riconoscimento di un ius reale, tant'è che possono servire per accertare lo status di liberto di qualcuno e il conseguente diritto del patrono, ma non sono esperibili per ottenere la prestazione delle operae libertorum, le quali sono pattuite tra liberto e patrono dopo la manumissione e sono perciò diritti sorgenti da obbligazione17. Il Revigny si mostra insomma preoccupato della tendenza a un uso disinvolto di azioni che, riguardando lo status delle persone, dovrebbero esser limitate soltanto ai casi dei servi, dei liberti, dei figli di famiglia e, in via utilis, dei coloni: del tutto illegittimo sarebbe, dunque, configurare una actio praeiudicialis utilis esperibile contro il vassallo infedele18, giacché non può esistere alcun diritto reale del signore sulla persona del vassallo, il quale è legato invece da una personalis obligatio.

Non si tratta di una posizione sterilmente nominalistica, rivolta soltanto a complicare cavillosamente il sistema già complesso delle azioni, e si vedrà subito che la presa di posizione di Jacques de Revigny si inseriva in una discussione iniziata già da qualche anno. Con il Revigny, peraltro, quella discussione raggiungeva uno snodo importante, tra l'altro perché giungeva a prospettare una immagine del feudo che non si discosta poi troppo da quella offerta dalla storiografia ottocentesca e moderna: esclusa l'esperibilità di azioni in rem per i diritti sorgenti dal negozio di homagium, il feudo del Revigny viene a presentarsi come la concorrenza di un rapporto puramente personale con un diritto di natura reale sulla cosa infeudata19: non diversamente da quanto insegna la Verfassungsgeschichte fin dai tempi di Waitz e Heinrich Brunner20.

4. La scelta di Jacques de Revigny di inserire una digressione sugli omaggi nel commento al § Praeiudiciales ebbe poi il curioso esito di lanciare una moda orléanese: la scuola proseguì a parlar di feudi in quella sede dopo aver premesso che quelle azioni in rem non si possono esperire in materia di omaggi. E' infatti grazie a uno dei più stretti allievi del Revigny, Raoul d'Harcourt, che veniamo a conoscenza dell'origine di questa curiosa (e fuorviante) moda: il maestro aveva voluto contrastare un'opinione di Jean de Blanot, il quale aveva a sua volta per primo introdotto l'estensione delle actiones praeiudiciales al caso del vassallo inadempiente, considerando perfettamente legittimo applicare ai vassalli azioni concepite per servi, liberti e coloni. Era stato per correggere la sua impostazione che il Revigny aveva trattato di feudi nella stessa sede proposta da Jean de Blanot, ma sostenendo una posizione opposta21.

L'atteggiamento del grande professore di Orléans, che non cita mai esplicitamente il suo avversario, ostenta la sicumera dell'uomo di scienza, ma rivela anche la preoccupazione nei confronti di un'opera di grandissima diffusione, che deve aver destato il timore di veder predominare posizioni che si allontanavano un po' troppo dagli schemi del diritto privato romano. Un timore che aveva le sue buone ragioni.

Redatto quasi certamente a Bologna nel 125622, il Tractatus de actionibus di Jean de Blanot ebbe in effetti sorprendente diffusione. Compilato almeno in parte per un pubblico francese, esso ebbe in Francia ottima accoglienza, tanto che il Caillemer poteva segnalarne, già all'inizio del nostro secolo, una dozzina di manoscritti disseminati nelle biblioteche francesi23. Ma fu accolto con acceso interesse anche oltre i Pirenei, entrando a far parte della compilazione di consuetudini catalane che va sotto il nome di Pere Albert, la quale in realtà attinge a piene mani al materiale del giurista borgognone24. In Italia ebbe successo nella versione originale, ma anche nei rimaneggiamenti che ne fece Guglielmo Durante inserendone ampi brani nel suo Speculum iudiciale, del quale costituisce una fonte di primo piano; e italiano fu anche il compilatore di un celebre manoscritto 1227 di Parma nel quale compare, sotto il titolo di Tractatus super feudis et homagiis, una versione adattata all'Italia di quel pezzo del trattato processualistico del Blanot che avrebbe attirato le critiche di Jacques de Revigny. Da quel manoscritto fu tratta poi l'unica edizione moderna del Blanot25.

Tra i motivi di questo evidente successo doveva esserci l'intento del Blanot di venire incontro alle esigenze di una pratica che a metà del XIII secolo aveva ancora parecchie difficoltà nell'integrazione tra gli assetti consolidati dalla tradizione consuetudinaria e le novità introdotte dal risorgere del diritto romano. Si resta ad esempio sorpresi nel constatare il palese intento del giurista borgognone di ampliare il più possibile il ricorso alle azioni reali: al caso dell'omaggio si aggiunge, ad esempio, la rei vindicatio utilis che si vorrebbe consentire alla città per il recupero del suo cittadino26. E animate dagli stessi intenti si dimostrano la rubrica dedicata espressamente al feudo e quella, assai ampia, che cerca di delineare i contorni di una actio ex consuetudine che può esperirsi per tutti quei casi che la pratica locale conosceva benissimo ma che non trovavano riscontro nel sistema romano27.

Realizzato a prezzo di forzature evidenti di taluni principi del sistema romano, questo progetto del Blanot poteva ben suscitare l'avversione di un giurista raffinato come Jacques de Revigny, ma offriva in effetti soluzioni preziose agli avvocati abituati a difendere in giudizio situazioni soggettive giustificate soltanto dalla loro firmitas garantita dal lungo tempo, e prive perciò, sul piano probatorio, del riferimento al negozio che le aveva costituite. Riconoscere come rapporti obbligatori i legami di soggezione servile o vassallatica avrebbe significato, nella prospettiva romanistica, la necessità assoluta di risalire al negozio costitutivo dell'obbligazione per sostenerne la legittimità: ma molto spesso tale titolo non esisteva, o se ne era perduta la traccia documentata. Sicché la tendenza ad ampliare il novero dei diritti reali fino a comprendervi prerogative che dipenderebbero normalmente da un rapporto obbligatorio doveva esser bene accetta da parte della pratica, perché permetteva di appoggiare la prova dei diritti sulla semplice persistenza di essi nel tempo28: offrendo insomma un modo di conciliare vecchie esigenze con il diritto romano che, pur vecchio di secoli, finiva per costituire una novità che metteva in crisi l'equilibrio di diritti consolidato dalla prassi e dalla tradizione. Una novità ch'era divenuto impossibile ignorare, poiché ormai - nonostante le resistenze incontrate - era penetrata nei tribunali29.

E' naturale che in questo progetto di integrazione tra pratica volgare e dottrina romana trovasse spazio anche una configurazione del legame vassallatico sul modello del diritto reale. Il contratto di omaggio è dunque immaginato dal Blanot come dotato di realitas, poiché costituiva una situazione singolarmente stabile, che creava un rapporto capace di sopravvivere alle persone dei contraenti.

E' questo un punto della argomentazione del giurista che non emerge dalla lettura dell'edizione moderna delle sue quaestiones sugli omaggi, apprestata da Jean Acher col ricorso al solo manoscritto di Parma, il quale contiene soltanto una parte del commento al paragrafo Praeiudiciales. Nella parte che è sfuggita all'edizione moderna, il Blanot prospetta gli stessi temi che sarebbero stati poi ripresi da Jacques de Revigny, partendo dalla differenza tra le operae artificiales vel fabriles dovute dal liberto e le prestazioni alle quali è obbligato il vassallo. Mentre le prime non dipendono dalla «natura», cioè dalla condizione personale del liberto30, le seconde possono essere rivendicate con un'azione reale qual'è la praeiudicialis in rem31.

Profondamente diverso dal caso delle operae libertorum, il legame costituito con l'homagium vive, per il Blanot, indipendentemente dal negozio che l'ha creato: dunque rivela analogie spiccate con i diritti reali che, per l'appunto, sussistono indipendentemente dal loro titolo costitutivo. Con la conseguenza principale di trovar tutela processuale per mezzo di azioni di tipo reale, com'è, per l'appunto, l'actio praeiudicialis utilis32. Jean de Blanot può così proporre un modello di libello basato su quell'azione da esperire contro il vassallo che non si comporti come homo alterius33. L'incontro tra una profonda formazione romanistica e interessi pratici di tipo feudale dà vita quindi, nel pensiero del giurista borgognone, a una lettura singolare dell'omaggio ligio, che produce un effetto reale pur senza aver come oggetto una cosa: e in questo, ha osservato Brancoli Busdraghi, si distingue dall'homagium non legium, col quale si instaura invece un legame di natura sostanzialmente obbligatoria34.

5. Preoccupato di indicare al suo pubblico schemi processuali sicuri, Jean de Blanot offre con le sue quaestiones sugli omaggi un deciso tentativo di inquadrare le strutture consuetudinarie nell'alveo del diritto colto, ma finisce per rimodellare in maniera originale alcuni principi romanistici. Il requisito della realitas del diritto, che sul piano procedurale consente il ricorso alle azioni possessorie e su quello probatorio evita il richiamo al negozio costitutivo delle situazioni oggettive, finisce per staccarsi completamente dall'elemento della corporeità o incorporeità della cosa, per esser definito invece soltanto in maniera negativa. Non insegnavano forse le Istituzioni che "actione in rem agimus cum eo qui nullo iure nobis est obligatus" (Inst. 4.6.1)? Se ne poteva trarre come conseguenza la "realità" di quelle situazioni soggettive stabili, che le consuetudini locali avevano consolidato e per le quali non si risaliva più, né si poteva farlo, all'atto di asservimento o di omaggio compiuto magari da un lontano antenato.

L'atto di omaggio produce dunque, per Jean de Blanot, un effetto reale pur avendo a oggetto un rapporto puramente personale. Senza far ricorso esplicito al concetto di status, che era stato richiamato qualche anno prima da Accursio e risuona nell'opera del cosiddetto Bracton35, il Blanot delinea però una teoria del contratto di status assai chiara, e rilevante soprattutto per la sua applicabilità alla pratica.

Alla elaborazione di quella teoria aveva contribuito senza dubbio l'ispirazione che Jean de Blanot trasse dall'opera di Martino da Fano che, come si è accennato, egli utilizzò ampiamente. Il giurista marchigiano, però, era stato assai più cauto del suo epigono francese: se nel precoce Formularium36, orientato naturalmente verso le esigenze della pratica, aveva prospettato l'esperibilità di azioni petitorie e possessorie per il recupero dell'homo (cioè il rustico legato da un rapporto di hominitium), non s'era spinto però fino a configurare esplicitamente la realitas del rapporto né, soprattutto, s'era azzardato a unificare in un solo fenomeno il rapporto rurale, per il quale il diritto giustinianeo forniva il modello del colonato, e quello vassallatico, che nel Formularium è trattato a sé, e dal Tractatus de hominitiis è del tutto escluso37. Sicché la singolarità di Jean de Blanot sta proprio nell'aver infranto senza esitazione le barriere che anche nella dottrina giuridica del primo Duecento separavano la seigneurie dalla féodalité, per abbozzare un primo disegno teorico-pratico del contratto di status e dei suoi effetti.

E' proprio questa l'operazione che incontrò l'avversione di Jacques de Revigny, il quale ammetteva che l'actio praeiudicialis in rem, concepita per accertare lo status dei servi, potesse estendersi in via utile ai coloni (quasi servi) e ai liberi asserviti; ma escludeva categoricamente l'estensione della stessa azione ai vassalli38. Il grande francese, promotore di una grande svolta nella storia della cultura giuridica, assumeva così il ruolo di custode della tradizione più schiettamente bolognese, che dai tempi di Irnerio, attraverso Azzone e il tanto criticato Accursio avevano difeso l'osservanza di una separazione decisa tra iura in rem e iura in personam, opponendosi fermamente al dilagare del procedimento possessorio, delle eccezioni di spoglio, della prova di qualsiasi diritto col ricorso alla prescrizione.

6. Chi invece s'era mostrato favorevole a riconoscere il requisito della realitas negli effetti di taluni patti, manifestando una tendenza forte a sottrarre tutti i rapporti di dipendenza stabili dal campo delle obbligazioni, per trasferirli ora in quello dello status personale, ora in quello dei diritti reali, ora addirittura in quello della norma consuetudinaria, era stata la scuola canonistica, nella quale s'era sviluppata una discussione considerevole. Basti qualche accenno, che dovrà prender le mosse, come sempre, dal pensiero di Uguccio. Egli s'era mostrato al tempo suo rispettoso delle regole romanistiche secondo le quali non si poteva configurare un diritto reale che insistesse su una cosa incorporale, come sono le decime, i censi e le prestazioni di opere e derrate cui sono obbligate le chiese dipendenti nei confronti delle dominanti39. Eppure il suo linguaggio finisce per tradire la sensibilità verso la pratica laddove, ponendosi il problema della ratio generale che disciplina l'esclusione dall'ordine di talune categorie di persone, il grande canonista prova a delineare un profilo unitario che giustifica l'identica esclusione di curiali, servi, liberti, ascrittizi, originarii, e manenti dal sacramento: tutti soggetti "in quorum personis dominus aliquod ius habet"40. Un diritto limitato su persone formalmente libere che richiama da vicino la figura della servitù prediale o urbana.

E proprio la servitù fu chiamata a far da modello per la descrizione tecnica dei rapporti di dipendenza dai primi decretalisti che, prima con Alano e poi con Giovanni Teutonico, si avviarono decisamente sulla strada della Verdinglichung obligatorischer Rechte. Non potevano far altro, del resto, giacché le loro fonti si orientavano sempre di più nel senso del ricorso al modello reale per diritti anche assai lontani dal rapporto diretto con le cose. Tra le decretali di Innocenzo III, in particolare, i riferimenti al possesso abbondavano nelle materie più diverse: di soggezione di enti ecclesiastici41, di privilegi o immunità42, di uffici ecclesiastici43, di prebende o altri benefici goduti in relazione a uffici44; perfino, la cosa è nota, in materia di matrimonio45.

L'attività legislativa di Innocenzo consacrò insomma la vera e propria esplosione dell'ottica possessoria che, rotti gli argini rappresentati dall'ossequio dei primi decretisti per i princìpi romanistici, assoggettava tanti diritti non reali alle azioni possessorie e all'acquisizione per prescrizione. Il giurista non poteva far altro che adeguare la propria impostazione a quella del legislatore e darsi da fare per precisare la disciplina di situazioni soggettive che con la corporeità del possesso non avevano nulla a che fare46.

7. In una decretale47 che avrebbe suscitato discussioni interminabili, Innocenzo fece ricorso esplicito al concetto di status per dirimere una questione sorta da un rapporto che a prima vista si sarebbe detto esclusivamente obbligatorio: val la pena di ricordarne il contenuto.

L'economo della chiesa di S. Agata chiedeva che fosse espulso il diacono P. dalla chiesa del S. Salvatore «quae dicitur de cornutis»; la quale chiesa sarebbe appartenuta di diritto a quella di S. Agata. E chiedeva inoltre il pagamento di una pensione di 16 denari pavesi, «debitam ecclesiae sanctae Agathes... de novo subtractam». Il diacono P. (diventato nel frattempo prete), ribatteva che la sua chiesa non pertineva in alcun modo a quella di S. Agata; che non doveva perciò alcuna pensione; che egli era stato eletto dal popolo, il quale per antica consuetudine aveva questa prerogativa, ed era stato insediato dal cardinale di S. Susanna, al quale la chiesa è soggetta «in spiritualibus» «tamquam capella».

Il giudizio s'era svolto di fronte al papa Celestino III, che non era giunto a pronunciar la sentenza per la morte. Innocenzo si incarica perciò nel 1205 di dirimere la questione, riconoscendo il valore delle testimonianze addotte dal prete di S. Salvatore sulla validità della sua elezione e sulla soggezione spirituale della sua chiesa al cardinale di S. Susanna. D'altra parte però, per quel che riguarda l'obbligo di corrispondere l'annuale pensione alla chiesa di S. Agata, deve riconoscere anche le testimonianze addotte dalla parte attrice, altrettanto valide a comprovare che la somma di denaro fu «annuatim per multa tempora persoluta». Sicché decide di restituire la chiesa «ad statum percipiendi pensionem huiusmodi de ecclesia S. Salvatoris», che è dunque condannata al pagamento, salva la definizione della questione di proprietà in via definitiva.

La decretale non faceva che applicare un principio che trovava parecchi appoggi nelle fonti canonistiche, e non era del tutto estraneo neanche a quelle giustinianee. Tuttavia incontrò forti resistenze proprio da parte di Jacques de Revigny, il quale si permise di criticare la correttezza del giudizio papale, reo di aver concesso un rimedio di natura possessoria in una materia che doveva restar limitata al campo delle obbligazioni. La critica di Jacques è ripresa ed enfatizzata da un violento brano di Cino da Pistoia, che coglie l'occasione per sferrare un attacco contro la scuola canonistica nel suo complesso e contro quei civilisti che ad essa si ispirano. E la derivazione dell'argomentazione dal pensiero di Jacques de Revigny risulta perfettamente in linea con quel che di lui abbiamo visto in apertura: la sua posizione di distinzione netta fra diritti di credito e diritti reali si opponeva, si è visto, alle tendenze opposte manifestate dall'opera, assai più pratica, del Blanot. Dunque coerentemente il maestro orléanese doveva affermare: contra Querelam opus est querela.

Diverso atteggiamento doveva avere, ovviamente, il canonista, al quale non era lecito criticar la correttezza delle sue fonti. Per di più, Innocenzo aveva ampliato il raggio degli strumenti a disposizione facendo riferimento a uno status percipiendi che non era comparso prima di lui a tutelare il possessore di crediti. Anche qui, a ben vedere, tradizione e innovazione coesistevano: il richiamo esplicito allo status era nuovo, ma le tendenze del pensiero canonistico erano tali da condurvi con una certa naturalezza: un accenno indiretto si può forse riconoscere nel citato passo di Uguccio dedicato al problema dell'ordinazione dei curiali, nel quale sembrava già accennato un legame tra lo status personale di certi soggetti e la stabilità dei diritti che altri vantavano nei loro confronti. La rigida classificazione sociale prospettata dall'ordinamento tardo imperiale, che si rispecchiava in tante antiche norme canoniche accolte nel Decretum, aveva rappresentato per il grande canonista un modello assai complesso, nel quale il semplice rapporto obbligatorio non era semplicemente altra cosa dallo status di subordinazione servile: esistevano invece una serie di situazioni intermedie che, pur non configurando un vero e proprio asservimento, limitavano tuttavia la libertà personale.

Il quadro sfumato presentato da Uguccio poggiava insomma su una interpretazione dell'ordinamento tardo romano coerente, tutto sommato, con lo spirito del diritto volgare testimoniato da Giustiniano e dalle coeve fonti canoniche.

8. Concordava dunque con la migliore tradizione canonistica l'idea, avanzata nella Querelam, che quello del creditore di prestazioni periodiche fosse un vero e proprio status. Ma non mi sembra che lo spunto sia stato accolto dai primi decretalisti.

Chi colse chiaramente il vantaggio che era offerto al discorso giuridico dalla definizione del creditore di prestazioni periodiche come di un soggetto versante in un particolare status fu, su finire del Trecento, Antonio da Budrio, nel suo poderoso commentario al Liber Extra. Comentando la Querelam, egli rilevò infatti che il Papa potrebbe anche aver introdotto con quella decretale un «novus modus agendi», riconoscendo tutela allo status di colui che riscuote periodiche prestazioni, al quale va riconosciuto il diritto alla redintegranda in conseguenza dell'equità canonica. Riecheggiando, credo senza saperlo, le posizioni di Uguccio più vecchie di due secoli, il Budrio concludeva il suo lungo discorso sulla Querelam osservando che se è vero che in seguito a una singola prestazione non sorge nel creditore alcun tipo di status che dia accesso al procedimento possessorio, tuttavia «ex concursu multiplicis praestationis imprimitur quidam status, qui integrandus»48. Quell' "aliquod ius in personam" che Uguccio aveva evocato per cogliere un dato unitario nelle condizioni personali di categorie diverse, ricompare nel canonista di Budrio, che rende l'idea più esplicita: ci sono alcuni diritti, dice, che insistono sulla persona come se fosse una cosa. Sono diritti paragonabili alle servitù, sicché possono essere oggetto di quasi possessio: sono il «ius libertinitatis, ius ascripticiatus, ius monachatus, ius clericatus, ius civilitatis, ius patriae potestatis et multa iura quae in homine haberi possunt»49. Questi molti diritti che si possono instaurare su uomini sono, ovviamente, diritti che possiamo definire latamente feudali, e configurano tanti status personali.

Questo status, precisa, gode di alcune prerogative tipiche del possesso: solleva ad esempio dall'onere della prova50, sicché sul debito riscosso periodicamente può configurarsi una forma di possesso: impropriissima possessio, giacché ha per oggetto un mero diritto soggettivo.

9. Questo collegamento tra lo status personale, i rapporti obbligatori e la disciplina dei diritti reali suona senza dubbio singolare all'orecchio del giurista odierno, abituato a considerare separatamente le situazioni soggettive delineate dall'ordinamento e quelle create dalle diverse manifestazioni dell'autonomia dei singoli. Ma al tempo di Antonio da Budrio l'idea non era affatto originale: si limitava, in fondo, a trarre spunto dalla terminologia usata da Innocenzo per introdurre il concetto di status in un quadro teorico che doveva essere ormai ampiamente accolto. La prestazione dovuta periodicamente in ragione di un rapporto di soggezione, concludeva Antonio, assume il sapore ("sapit") di quella realitas che caratterizza la soggezione stessa, assorbendo la natura reale tipica della fidelitas del vassallo51.

«Sapit naturam <iuris realis subiectionis>» dice il canonista: e gli fa eco il grande Baldo degli Ubaldi, anch'egli nel quadro del suo commento canonistico al Liber Extra: «<ibi> est tale ius personale quod vindicari non potest, quia sapit realitatem subiectionis»52. Il sapore del diritto reale si estende ai negozi che creano rapporti di obbligazione perpetua e li trasforma in quelli che Schmitt avrebbe chiamato, secoli più tardi, Statusverträge.

Una creazione soprattutto canonistica: così come di derivazione canonistica era l'espressioni impropriissima possessio, che pure appare collocata da Baldo in un vero e proprio continuum tra diritto reale e prestazioni obbligatorie: al possesso proprio, esercitato su cose corporali, si affiancano quello improprio, previsto sulle servitù prediali, e quello impropriissimo, su "iura abstracta ab omni corpore". Al grande Baldo appariva perciò ingiustificata la critica degli oltramontani e di Cino alla decretale Querelam, giacché le prestazioni corrisposte "in signum subiectionis" devono esser considerate "praestationes reales". La decretale di Innocenzo III si espresse ottimamente, dice Baldo, perché seppe cogliere la natura intima delle prestazioni effettuate per soggezione personale: esse configurano una sorta di servitù, in forza della quale si possiede una persona o il suo status.

La connessione tra realitas delle prestazioni e status dei soggetti obbligati risulta ormai chiaramente delineata in Baldo, civilista e decretalista, astratto teorico e pratico avveduto: nelle additiones allo Speculum di Guglielmo Durante egli aveva teorizzato la distinzione tra obbligazioni assolute, che producono diritti puramente astratti, e obbligazioni relative seu connotative, dipendenti cioè dalla soggezione di uno nei confronti dell'altro, che producono diritti soggettivi dotati di realitas. Una distinzione che si applica, nel commento al c. Querelam, al caso del rapporto vassallatico, nel quale come il vassallo possiede il feudo, il signore possiede il vassallo, idest qualitatem eius. La terminologia di Innocenzo, col suo richiamo allo status, consente poi di accennare anche ai risvolti pubblicistici di quella concezione dei rapporti personali: Baldo giunge infatti a qualificar di ribellione violenta il rifiuto di corrispondere le prestazioni dovute "asserendo se esse liberum et sui iuris".

Si direbbe dunque che Baldo giunga a prospettare una soluzione sintetica del problema, raggiunta percorrendo sia le vie civilistiche sia quelle canonistiche: in fondo il possesso della qualitas del vassallo è una figura più tecnica per esprimere il contenuto di quel ius in hominem che per Uguccio caratterizzava le situazioni di soggezione personale che davano luogo a obblighi particolarmente gravosi. Sul versante civilistico, poi, quella di Baldo era una soluzione non lontana da quella prospettata oltre un secolo prima da Jean de Blanot, il cui trattato doveva del resto esser presente a Baldo, che conosceva alla perfezione lo Speculum, e che conclude il discorso appena riportato con una significativa citazione di quel paragrafo Praeiudiciales intorno al quale la discussione s'era aperta54.

10. L'impostazione di Jean de Blanot, un po' grossolana ma assai sensibile alle esigenze del suo mondo, ebbe dunque, tutto sommato, vita più lunga e successo più vasto delle raffinatezze esegetiche degli oltremontani e di Cino. La società delle signorie italiane, in cui Baldo e Antonio da Budrio vivevano, era tornata del resto a rivalutare la statica dei rapporti di status rispetto alla dinamica dei contratti obbligatori che fu funzionale, per una stagione, all'Italia dei liberi comuni55. Alla fine del Trecento, quando l'economia di prelievo tornò a prevalere su quella di scambio, poteva ben tornare di moda la soluzione proposta nel trattato del Blanot che, a metà del Duecento, voleva offrire alla pratica uno strumento idoneo alla neutralizzazione della carica eversiva contenuta nel rilancio del sistema romano delle azioni.

A prima vista, la vicenda potrebbe dar l'idea di una regressione: di un ritorno all'ordinamento feudale basato sullo status e di un rinvio secolare del trionfo dell'autonomia individuale. Eppure le costruzioni dei pratici medievali, edificate con materiali provenienti da tradizioni diverse e tenute insieme da una logica meno perspicua di quella dei più intransigenti romanisti del XII e XIII secolo, contengono tanti spunti nuovi destinati davvero all'avvenire. Così, per restare all'opera di Jean de Blanot, la famosa formula della sovranità56, o l'interpretazione della soggezione feudale alla luce nuova e antica dell'idea di patria57. Così, mi pare, anche per il concetto di status che, collegato a quello di realitas, poteva configurare situazioni personali sganciate dal rigido diritto pubblico delle persone, che non limitavano la formale libertà individuale ma configuravano uno stabile complesso di diritti e obblighi, che potevano crearsi per contratto, che si stabilizzavano per effetto del tempo. Uno status siffatto poteva ben costituire un riferimento utile per la dottrina giuridica e politica del Quattrocento, impegnata a delineare i contorni teorici degli stati nuovi, della sovranità dei governanti, della situazione soggettiva dei sudditi.

1 H.S. Maine, Ancient Law. Its Connection with the Early History of Society and its Relations to Modern Ideas (1861), Boston 1963, 163-165. Ottimo l'inquadramento offerto da P. Stein, Legal Evolution. The Story of an Idea, Cambridge - New York, 1980, 85 e ss.

2 F. Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft. Abhandlung des Communismus und Sozialismus als empirischer Culturformen, Leipzig 1887.

3 C. Schmitt, Verfassungslehre, Berlin 1928 (tr. it. a c. di A. Caracciolo, Milano 1984, 98-99).

4 Già nel 1929, l'espressione sembrava adeguata a O. Hintze per definire sul piano tecnico il rapporto di vassallaggio: cfr. Hintze, Wesen und Verbreitung des Feudalismus (1929), ora in Id, Staat und Verfassung. Gesammelte Abhandlungen zur Allgemeinen Verfassungsgeschichte, 3a ed., I, Göttingen 1970, 84-119, 90-91 (tr. it. in Id., Stato e Società, Bologna 1980, 55): «Dal punto di vista giuridico questo rapporto feudale è un contratto, ma di natura particolare: un contratto, cioè, che fonda un nuovo status, un contratto-status (Status-Kontrakt)». - La definizione di Statusvertrag è stata poi applicata proprio ai rapporti tra signori e dipendenti rurali da O. Brunner, Land und Herrschaft. Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte Österreichs im Mittelalter (1939), 4a ed., Wien-Wiesbaden 1959, 263 nt.1, tr. it. Milano 1983 (Arcana Imperii, 3), 368 nt. 77.

5 Nell'ed. di Ugo della Porta, Lugduni 1558: in margine alla divisio hominum enunciata da D. 1.5.3: «... Sed quid de ascriptitiis? Resp.: liberi sunt: C. de episcopis et cleri., l. Iubemus (C. 1.3.36), et Authen. Adscriptitios (Auth. coll. 9.15.17.1=Nov. 123), et C. de agri. et censi., l. Ne diutius (C. 11.48.21), quia verum est quod non differunt a servis in eo, quod possunt vendi, ut servi, cum gleba tantum, ut C. de agri. et censi., l. Quemadmodum (C. 11.48.7). Vel melius: quoad dominos servi sunt, quoad extraneos liberi. Unde dominum in ius vocare non possunt, et a dominis vendicantur. Sunt ergo dominorum, ut infra, de auro et argen., l. Quintus § Argento (D. 34.2.27.2) et de agri. et censi., l. Quemadmodum (cit.) et C. in quibus cau., l. ii. lib. xi. (C. 11.50.2)». La definizione di Accursio era profondamente consonante con la mentalità giuridica medievale. Negli stessi anni una descrizione non diversa dei rapporti tra signore e villani è reperibile nella ricchissima opera che va sotto il nome di Henry Bracton: si consenta di rinviare, sul tema, a E. Conte, Servi medievali. Dinamiche del diritto comune, Roma 1996 (Ius nostrum, 21), 63-65.

6 D'obbligo il rinvio agli studi di Paolo Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell'Occidente, Bologna 1992, e di L. Kolmer, Promissorische Eide im Mittelalter, Regensburg 1989.

7 Sul ricorso alla mitica lex regia nell'Alto Medioevo cfr. da ultimo E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, Roma 1995, I, 359-60; II, 69, 71-74.

8 F.C. von Savigny, Sistema del diritto romano attuale (tr. Scialoja), III, Torino 1891, § 140, p. 408-409.

9 Cfr. M. Talamanca, L'esperienza giuridica romana nel tardo-antico fra volgarismo e classicismo, in La trasformazione della cultura nella tarda antichità, Roma 1985, 27-70; e il classico lavoro di K.H. Schindler, Iustinians Haltung zur Klassik. Versuch einer Darstellung an Hand seiner Kontroversen entscheidenden Konstitutionen, Köln-Graz 1966.

10 M. Bellomo, Il lavoro nel pensiero dei giuristi medievali. Proposte per una ricerca, in Lavorare nel Medio Evo. Rappresentazioni ed esempi dall'Italia dei secc. X-XVI (Convegno Todi 1983), Todi 1983, 169-197, 176 e nt. 6

11 Dissensiones Dominorum, ed. Haenel, Leipzig 1834 (rist. Aalen 1964), § 81 cod. chis. (p. 181): «An liber homo operas suas in perpetuo locare possit? - Differunt. Dicunt quidam quod si liber homo locavit operas suas in perpetuum, quod non valet talis locatio, sed tantum illa locatio valet, quae ad tempus fit. Hoc ideo quia perpetua locatio speciem servitutis obtinet, quum non liceat ei recedere, ut arg. D. de libero homine exhib (D. 43.29) l. 2 Yr. et Plac.. Alii dicunt locationem valere, sive sit perpetua sive sit temporalis, quoniam semper potest recedere, si voluerit praestare interesse et sic non obtinet speciem servitutis. Iob.

12 C. E. Tavilla, Homo alterius: i rapporti di dipendenza personale nella dottrina del Duecento. Il trattato de hominiciis di Martino da Fano, Napoli 1993, 52-64.

13 Sul piano della natura giuridica del legame, la dottrina medievale mostrò ben presto la tendenza a vedere la dipendenza servile e quella feudale come aspetti dello stesso fenomeno: cfr. Conte, Servi medievali, cit., 225-227; 233-236

14 L.J. van Soest-Zuurdeeg, La Lectura sur le titre de actionibus (Inst. 4,6) de Jacques de Révigny, Leiden 1989 (Rechtshistorische Studies 14).

15 R. Feenstra, Quaestiones de materia feudorum de Jacques de Revigny, in Studi Senesi 84 (1972), 379-401, ora in Id., Fata iuris romani, Leiden 1974, 298-320.

16 Recensione di Ennio Cortese al citato libro della van Soest-Zuurdeeg in TRG 58 (1990), 179-181.

17 «De secunda questione, scilicet in qua queritur de libertinitate, que dixi de prima intelligas esse repetita in ista. Sed ad quid datur? dicit Bagarotus quod ad operas. Manumisi te; imposui tibi operas, pone x. scriptorias, peto eas; non uis soluere; agam contra te preiudiciali. Pro se inducit legem ff. de probat. l. Quotiens (D. 22.3.18). Dico quod falsum est; unde opere per preiudicialem in rem non petuntur, sed ex stipulatu si stipulatio fuit interposita uel actione in factum si per iusiurandum fuerunt imposite. Vnde ibi non consideratur ius reale sed obligatio personalis uel contractus, quia inposite fuerunt per stipulationem aut per iusiurandum. In preiudiciali consideratur ius reale an sit dominus uel non, an sit patronus uel non; et de hoc pronunciabitur» (ed. cit., 324). L'argomentazione del Revigny ricalca qui quella proposta da Jean de Blanot, che prende le mosse anch'essa dall'opinione di Bagarotto: cfr. infra, nt. 30.

18 «Dictum est de preiudicialibus directis. Quedam, dicunt ipsi, sunt utiles ex mente legis, ut in quasi seruis et in quibuscumque hominibus libere condicionis; ad hoc est C. in quibus ca. bo. tra. do. accu. pos. l. i. (C. 11.50.1). Istam extensionem bene approbo» (ed. cit., 327)... «Est alia utilis. Tu es uasallus meus si agnoscis homagium meum. Cum sis homo meus, licet sis liber, habebit locum utilis, ut dicunt. Dico quod istam extensionem non approbo, quia in persona uasalli non pono aliquid iuris realis nec actionem in rem directam uel utilem, sed personalem obligationem recipiendo feudum ad diuersa genera officiorum secundum consuetudines terrarum» (ed. cit., 328).

19 «Hoc suppositio quod in homagio non sit ius reale set solum spectamus personam et rem datam, si queratur de iure utriusque, scilicet domini et uasalli, in re data in feudum, dico quod dominus, ut plurimum, habet directum dominium, uasallus utile. Possibile est quod nullum dominium habeat uasallus quia sine re aliqua possum fieri uasallus, ut dixi. Item possibile est quod dominus tradidit ei fundum, ut sit homo suus, et sibi retinet totum dominium. Item potest esse quod uasallus habet omne dominium quia dicit dominus: 'do tibi tale fundum ut sis homo meus'» (ed. cit., 329-330).

20 Ben nota in Italia grazie alla grande diffusione del manuale del Calasso, Medio evo del diritto, Milano 1954, che la accoglie alle pp. 188-192, la teoria che riconosce nel feudo il concorso di tre elementi di diversa provenienza appariva ampiamente accettata già dalla Verfassungsgeschichte tedesca del secolo XIX: accolta da G. Waitz, Deutsche Verfassungsgeschichte, 2a ed., IV, Berlin 1885, 176-364, e da H. Brunner, Deutsche Rechtsgeschichte, II, 328 ss. (ed. del 1928, integrata da Cl. Frh. v. Schwerin). Per un ampio orientamento bibliografico cfr. la voce Lehnswesen, di K.H. Spieß in HRG, II, 1725-1741, 1727.

21 Così nella Repetitio di Raoul d'Harcourt, stampata sotto il nome di Iacopo d'Arena (I. de A. Parmensis viri clarissimi, iuris utriusque professoris Commentarii in universum ius civile..., Lugduni 1541 = rist. Bologna 1971: per l'attribuzione cfr. la letteratura citata in Conte, Servi medievali, cit., 200-201) a fol. 294va: «... Item dicit Io. de Ble. in homine: "Dico contra te quod tu es homo meus ligius, unde cum tu neges hominem meum <esse>, peto te pronunciari meum" et sicut dixi in ascriptitio. Dominus negat ius reale in homine, unde format libellum in personali: "Dico quod promisisti fidelitatem et servitium talem per talem stipulationem" si sit stipulatus, vel "per iuramentum: unde peto te condemnari ad servitium prestandum"».

22 Osservazioni approfondite sul testo del Blanot nella sua edizione moderna e nella sua consistenza originale sono in R. Feenstra, Jean de Blanot et la formule Rex Franciae in regno suo princeps est (1965), ora in Id., Fata iuris romani, Leyde 1974, 139-149.

23 E. Caillemer, Jean de Blanot, in Mélanges Ch. Appleton [Annales Univ. de Lyon, n.s., II, fasc. 13], Lyon-Paris 1903, 53-110, 82. Diciannove manoscritti sono segnalati nel Verzeichnis der Handschriften zum römischen Recht bis 1600 di Gero Dolezalek, Frankfurt a.M. 1972, vol. III, a i.

24 Cfr. Conte, Servi medievali, cit., 230-232.

25 In J. Acher, Notes sur le droit savant au moyen age, in RHDFE 30 (1906), 138-178.

26 Utilizzo il ms. Vaticano Borgh. lat. 149, che mi è accessibile più comodamente dell'editio princeps di Magonza, 1539, segnalata da Feenstra, Jean de Blanot, cit., 140. Qui il titolo «Qualiter petatur civem per utilem rei vendicationem», dedicato al legame tra la città e il cittadino si trova al fol. 13va, seguito, significativamente, dalla lunga rubrica «de feodis».

27 Ms. Borgh. 149, foll. 4ra-6vb: titoli dedicati ai casi in cui si può ricorrere all'actio ex consuetudine, alla forma del libello introduttivo, alle positiones dell'attore e del convenuto. Si tratta per lo più di espedienti rivolti alla tutela di diritti soggettivi di natura genericamente feudale: come il diritto del proprietario di un mulino di impedire che venga aperto un secondo mulino nel municipium (fol. 4ra); o il diritto dei cittadini di cavare pietre dalle cave situate nel territorio di Blanot dietro corresponsione di un prezzo stabilito per consuetudine (fol. 5va).

28 Qualche osservazione generale in Conte, Cose, persone, obbligazioni, consuetudini. Piccole osservazioni su grandi temi, in Le sol et l'immeuble. Les fomes dissociées de propriété immobilière dans les villes de France et d'Italie (XIIe-XIXe siècle) (tavola rotonda Lione 1993), ed. O. Faron e E. Hubert, Roma 1995 (Coll. de l'École Fr. de Rome, 206), 27-39.

29 In fondo il trattato de actionibus di Jean de Blanot rappresenta, a modo suo, una manifestazione di quell'ampio movimento di resistenza alla penetrazione in Europa del diritto romano e soprattutto del processo romanistico che ebbe tappe importanti già in un canone del concilio Lateranense II del 1139 (su cui Robert Sommerville, Pope Innocent II and the Study of Roman Law (in Révue des études islamiques 44, 1976), ora in Id., Papacy, Councils and Canon Law in the 11th-12th Centuries, London (Variorum) 1990, XIV), poi in opere teologiche fortemente critiche nei confronti dei legisti, come i Moralia regum di Radulfus Niger e, poco dopo, nella celebre Super speculam di Onorio III. A queste manifestazioni ecclesiastiche fecero riscontro i sovrani nazionali con provvedimenti legislativi rivolti a impedire lo studio del diritto romano e la sua applicazione in giudizio: così in Inghilterra nel 1234, in Aragona con le Cortes di Barcellona del 1251, in Francia nel 1312. Con opere come quella del Blanot faceva la sua comparsa lo strumento di resistenza destinato alla maggior fortuna: l'integrazione di tradizione e innovazione in opere di dottrina che potevano essere accolte dalla pratica.

30 Ms. BAV, Borgh. 149, 26va: «Aliqui tamen dicunt, ut dominus Baguerotus, quod per istam actionem preiudicialem peterentur opere artificiales uel fabriles, quod probabat ff. de probationibus l. Quot et ff. si quis lib. inge. esse dicitur l. ult. (D. 22.3.18 et D. 40.14.6). Set ego non credo hoc: nam operarum duo sunt genera: quedam enim opere a natura serui imposite debentur, ut officiales siue obsequiales, ut ff. de cond. in. l. Si non sortem § Libertus (D. 12.6.26.12). Et quia iste opere nichil aliud sunt quam ius patronatus, quia ipsa natura siue impositione debentur, unde petuntur per preiudicialem, ut supra, de alimentis, audisti. - Sed opere artificiales uel favriles non debentur ipsa natura siue impositione, immo promittuntur et per iusiurandum uel per stipulationem incontinenti post manumissionem, ut ff. de op. li. l. Vt iureiurandi (D. 38.1.7)».

31 «Vnde cum debeantur aliquo iure obligatorio, planum est quod non petuntur actione preiudiciali, cum actio preiudicialis sit in rem, et ita detur contra illum qui nullo iure obligatorio sit obligatus, ut supra § i. (Inst. 4.6.1).», prosegue il brano citato alla nt. precedente.

32 L'incipit della digressione sull'homagium suona infatti nel Tractatus de actionibus: «Et quia ut credo ille qui fecit homagium ligium potest per preiudicialem peti, uideamus qualiter eo casu concipiatur libellus. Set primitus quedam de homagio siue de hominicia sunt premittenda» (ms. Borgh. 149, fol. 28va).

33 Così subito dopo la conclusione del testo edito dall'Acher: «Si homo meus gerat se non ut homo meus et ita sit in possessione libertatis, [homagii] contra ipsum preiudicialis utilis intemptabor, et ita formatur libellus. Libellus: "dico domine iudex Talis, ego Io. de Bla., quod Rod. est homo meus legius; unde cum dictus Ro. non se gerat ut homo meus, nec mihi ut domino uelit obedire, petitionem meam contra ipsum dirigo, uobisque domine iudex supplico ut dictum Ro. hominem meum in sententia declaretis ipsum, ut in posterum prestet seruitia que homo legius debet prestare domino condempnetis"» (ms. Borgh. 149, fol. 34rb-34va).

34 La formazione storica del feudo lombardo come diritto reale, Milano 1965 (Quaderni di Studi Senesi, 11), 103: «Almeno per quanto concerne l'"homagium legium", Blanot non esita a ricorrere alla nozione di un diritto reale del senior sulla persona del vassallo» e 195-196: «in definitiva l'homagium legium attribuisce al domino un vero e proprio diritto reale sulla persona del vassallo, laddove l'homagium non legium pone in essere un rapporto sui generis, che il Blanot è incerto se classificare fra i contratti innominati, del tipo do ut facias, o se considerare invece come un "contractus de consuetudine inductus et ex vi eiusdem consuetudinis approbatus et nominatus"».

35 Cfr. sopra, nt. 5.

36 Non sembra si possano avanzare dubbi sulla paternità, sulla datazione e sulla localizzazione proposte dal Wahrmund, Quellen zur Geschichte des römisch-kanonischen Prozesses im Mittelalter, I.VIII, Innsbruck 1907 (rist. Aalen 1962), VIII-XII. Semmai colpisce che un'operetta così ricca sia stata segnalata fino ad oggi in un solo manoscritto, il Vaticano Palatino 571, ai foll. 32r-59r.

37 Maggiori dettagli in Conte, Servi medievali, cit., 188-191 e 195.

38 «Dictum est de preiudicialibus directis. Quedam, dicunt ipsi, sunt utiles ex mente legis, ut in quasi seruis et in quibuscumque hominibus libere condicionis; ad hoc est C. in quibus ca. bo. tra. do. accu. pos. l. i. (C. 11.50.1). Istam extensionem bene approbo. Est alia utilis. Tu es uasallus meus si agnoscis homagium meum. Cum sis homo meus, licet sis liber, habebit locum utilis, ut dicunt. Dico quod istam extensionem non approbo, quia in persona uasalli non pono aliquid iuris realis nec actionem in rem directam uel utilem, sed personalem obligationem recipiendo feudum ad diuersa genera officiorum secundum consuetudines terrarum» (ed. Van Soest Zuurdeeg, cit., 327- 328).

39 Cfr. sul punto Conte, Servi medievali, cit., 160-161.

40 «Resp. quod locuntur de perpetuo obligatis suis dominis, ut de curialibus, seruis, libertis, ascriptitiis, originariis, manentibus, et his in quorum personis dominus aliquod ius habet. Ergo secundum hoc consul uel alius officialis qui obligatus principi est uel rei publice ad tempus, puta ad ampnum, licite intrat monasterium uel canonicam regularem quamuis princeps uel ciuitas contradicat et ipse iuramento sit ligatus: quod bene <<bonum Admont>> contingit de quodam milite rei publice astricto. Sed curiales perpetuo obligati principi uel rei publice non possunt sic transire» (mss. Admont, Stifsbibliothek, 7, fol. 76vb; Bibl. Ap. Vaticana, Arch. S. Pietro C.114, fol. 69va).

41 Risalgono a Innocenzo III X. 2.13.17 (restituzione nel possesso di "ius parochiale"), X. 2.30.4 (possessio subiectionis), X. 2.27.21 (quasi possessio obedientiae), X. 3.36.7 (in cui un vescovo della Sabina agisce «primo possessorio et postea petitorio intentando» per ottenere la reintegra nei diritti spirituali e temporali vantati nei confronti di una chiesa); X. 2.26.17.

42 X. 5.33.14.

43 X. 2.20.30 (possesso dell'arcidiaconato), X. 2.28.46 (possesso della prepositura), X. 1.3.22 (possessio corporalis abbatiae), X. 2.30.6 (possesso del priorato), X. 1.10.6 (possesso della cantoria).

44 Cfr. i canoni 4, 5, 8, 9, 10 del titolo X. 3.8 de concessione praebendae. Di spoglio di diritti di percepire le prebende parla Innocenzo nei cc. 2,3,4,7 di X. 2.13 de restitutione spoliatorum.

45 Cfr. G. Bruns, Das Recht des Besitzes im Mittelalter und in der Gegenwart, Tübingen 1848, 191-197, che si rifà a fonti per lo più innocenziane (X. 2.13.13 e 14 e X. 2.6.1 e 4), che prospettano una restitutio nel possesso dei diritti coniugali.

46 Lo attestano, tra l'altro, le concise aggiunte di Bartolomeo da Brescia alle glosse di Giovanni Teutonico: quella a chiusura della gl. Usque ad hoc tempus in C.18 q.2 c.31, e l'altra che risponde a un ripensamento inserito da Giovanni a chiusura della glossa in C.1 q.1 c.124 e suscitato proprio da due decretali di Innocenzo III: «Hec regula fallit extra de causa pos. Cum ecclesia (X. 2.12.3) et extra de prescrip. Auditis (X. 2.26.15) Ioan. Sed certe non fallit, quia iura incorporalia quasi possidentur et interdicta pro eis possessoria constituta sunt: ff. de servi. Quotiens (D. 8.1.20). B.». Quelle che a Giovanni apparivano eccezioni divengono per Bartolomeo la regola.

47 X. 1.6.24 = 3 Comp. 1.6.9 (Potthast 2531).

48 Antonius a Butrio, Commentaria in quinque libros Decretalium, Venetiis, apud Iuntas 1578 (rist. Torino 1967), I, 117va: «Et vide quod not. de censi. Pervenit. Ibi recitat opinionem Cyni et Ultramontanoum, qui fuerunt in opinione quod pro iure personali non detur possessorium, ut scribit Cy. in l. Si certis annis, C. de pactis (C. 2.3.28). Ad istam decret. respondet quod adversus Querelam opus est querela.... - Hoc plene examino in c. In literis (X. 2.13.5), et concludo quod licet iure personalis unice praestationis non sit dare quasi possessionem aut statum ex quo datur possessorium, ut ff. uti pos., nisi detur proprietas debiti, ibi tamen datur quaedam impropriissima possessio. Sic intelligo Innoc. in ca. In literis de restit. spol. ad fin. magnae gl. (gl. in X. 2.13.5), et scribitur de causa pos. ca. i. (X. 2.12.1) quando ex concursu multiplicis praestationis imprimitur quidam status, qui integrandus».

49 Così il commento alla decr. In causa (X. 2.12.8), num. 14, ed. an. 112va: «Secundo dicebam quod erant quaedam iura quae dabantur in personam velut rem: et si ista habent in se dubium, vel eius partem, dabitur vera possessio, ut in iure servitutis: l. i. § Per eum et § Per servum, ff. de acq. pos. (D. 41.2.1.8 et 14); ff. de usufr. leg. Ad hoc § Servus et § seq. (D. 7.1.25.4-5); de usu et ha. l. i. § Per servum. - Ius libertinitatis, ius ascripticiatus, ius monachatus, ius clericatus, ius civilitatis, ius patriae potestatis et multa iura quae in homine haberi possunt per gl. in li. i. § Per hanc ff. de rei ven. (D. 6.1.1.2). Et tunc omnium illorum iurium est dare quasi possessionem, quia et illorum lata proprietas...».

50 Nota secundo, practicam sententie in tali possessorio super iure personali: quia reintegratur ad statum. Unde non dico quod proprie sit possessorium, quia in tali personali iure non est dare proprie possessionem, quia illa est inventa in re materialiter propria. Sed datur quaedam quasi possessio, si sit multiplicata praestatione. Et status quidam, in quo de iure canonico integrandum est. Et hic status etiam multo tempore continuatum habet in alio effectum possessionis, quia sicut possessio relevat ab onere probandi (C. de peti haere. l. Cogi (C. 3.31.11); C. de proba. Sive possidetis (C. 4.19.16)), sic iste status praestationis, non recens sed longo tempore continuatus, ex hac diutina praestatione relevat ab onere causam probandi, ut est casus ff. de usuris l. Cum de in rem verso (D. 22.1.6)»

51 Così riassume il discorso Antonio a commento di X. 2 de causa poss. et propr. 8, In causa. (ed. an. II, 112): «Innocentius, de elec., Querelam (X. 1.6.24), tenet quod in talibus prestationibus est dare quasi possessionem vel statum quendam aptum parere possessiorii effectum, secundum canonicam aequitatem: et erit ius agendi officium iudicis aut condictio ex illa decret. ad hoc text. et glo. hic, ubi pro censu personali debito datur possessorium. Ad hoc tex. de iu. Sicut (**); de prescr. Si diligenti (X. 2.26.17), ubi ius fidelitatis prestandae per iuramentum, quod personalissimus est, de iureiu. Veritatis est prescriptibilis... - Dico quod quaedam sunt praestationes personales quae alteri iuri annectuntur, et huius debiti est dare quasi possessionem ut est praestatio census ratione subiectionis, ut hic et d. c. Querelam. Nam annectitur iuri reali subiectionis: illius ergo sapit naturam (de iud. Quanto (X. 2.1.3)), ut est praestatio fidelitatis respectu vassallitici iuris, quod est reale, ut in li. feu. c. i. et Qua olim. feu. po. ali. c. i. (LL.FF. ***)»

52 In X. 2.26 rub. § 4 (ed. Lugduni 1551, fol. 324rb): «Quaedam est possessio canonica, quae de iure civili non est possessio nec quasi, ut supra de elec. Querelam (X. 1.6.24), et nota per Cyn. de pactis l. Si certis annis (C. 2.3.28): verbi gratia iura incorporalia, quae non insunt corporalibus; vel actiones personales de iure civili non possidentur nec quasi, ut ff. quo. bo. l. fi. (D. 43.2.2), sed de iure canonico quasi possidentur cum universitate, ut d. c. Querelam. - Vel dic quod ibi <ubi nel testo> est tale ius personale quod vindicari non potest, quia sapit realitatem subiectionis, arg. ff. ad muni. l. De iure (D. 50.1.37)».

53 Baldo, op. cit., in c. Querelam, fol. 88ra (n. 14) «Item ut hoc cognoscas, scias quod illud possidetur, quod ipsa possessione non extinguitur, sed remanet in esse et natura. Sed actiones personales per solutionem evanescunt, et ideo actus qui deberet inducere possessionem facit totum oppositum, quia inducit extinctionem. Quomodo ergo dicit hic Papa quasi possideri annuam pensionem thermarum, cum haec sit personalis praestatio ab omni realiter separata? Respondeo: Papa optime loquitur, quia isti annui census aequiparantur rei immobili quae innovat fructus, qui sunt validissimum possessionis argumentum, ut ff. de solutionibus l. Titia (D. 46.3.48). Item haec servitus quaedam, per quam quasi possidetur persona et status ipsius, ut C. de agricolis et censitis, l. Litibus (C. 11.48.20). Item talia possunt per consuetudinem praescribi: eodem titu. l. Domini praediorum libr. xi. (C. 11.48.5). Item pro talibus iuribus competit confessoria: ergo sunt iura realia, ut institution. de actionibus § i. et § Aeque (Inst. 4.6.1-2).

54 Et scias quod omne quod potest praescribi possidetur vel quali, alias praescriptio non posset procedere. Sileant ergo Iaco. de Ra. et sui sequaces, qui contra hanc decretalem somniarunt, ut ipsi referunt C. de pactis l. Si certis annis (C. 2.3.28). Est praeterea quaedam possessio praestationis relativa, sicut possessio feudi soldatae. Nam si dominus possideat vasallum, idest qualitatem eius, reciproce et vasallus feudum, argument. insitutio. de actionibus § Praeiudiciales (Inst. 4.6.13).

55 V. Per tutti R. Bordone, La società cittadina nel regno d'Italia. Formazione e sviluppo delle caratteristiche urbane nei secoli XI e XII, Torino 1987 (Biblioteca storica subalpina, 202), 195-197: la vocazione della città sarebbe quella di far prevalere l'economia di scambio su quella di prelievo.

56 La cui presenza nel de actionibus del Blanot è stata dimostrata definitivamente da R. Feenstra, Jean de Blanot, cit.

57 G. Post, Studies in Medieval Legal Thought. Public Law and the State, 1100-1322, Princeton, NJ, 1964, 434-453: si tratta dela versione rivista di un saggio composto dal Post nel 1953 come integrazione del famoso articolo di E. Kantorowicz, Pro patria mori in Medieval Political Thought (1951), ora in Id., Selected Studies, Locust Valley (NY), 1965. Il Post (443-45) segnala una delle più precoci apparizioni dell'idea della fedeltà alla patria nelle quaestiones dedicate agli omaggi che erano allora consultabili nell'ed. Acher.

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